pubblicazione:Premiati 2010


III CLASS. ROMANZO EDITO


L'eredità di Natalia, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2008

Astrid Valeck, (classe 1968) laureata in pedagogia, è insegnante in una scuola dell'infanzia e scrittrice per passione. Sta completando il suo percorso formativo presso la Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari. Il suo primo romanzo, L'eredità di Natalia, ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2008 scritto in coppia con Ermes Fuzzi è stato premiato più volte in concorsi letterari nazionali e internazionali. È autrice di diversi romanzi inediti più volte premiati. Attualmente sta terminando il suo secondo romanzo di genere fantasy, che le è stato commissionato dal suo lettore più appassionato: suo figlio Alberto. L'autrice può essere contatta all'indirizzo mail: astrid.valeck@gmail.com

Ermes Fuzzi (Classe 1960), laureato in pedagogia lavora presso i Servizi Sociali del Comune di Forlì ed è scrittore per passione. Sta completando il suo percorso formativo presso la Libera Università dell'Autobiografia di Anghiari. Il suo primo romanzo, L'eredità di Natalia, ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2008 scritto in coppia con Astrid Valeck, è stato premiato più volte in concorsi letterari nazionali e internazionali. Ha pubblicato diversi articoli di pedagogia su riviste a diffusione nazionale. Attualmente è impegnato, su commissione dell'associazione Croce Verde di Meldola Predappio, nella raccolta e pubblicazione di testimonianze di volontari che operano nei paesi della ex Yugoslavia e di profughi delle ultime guerre balcaniche. L'autore può essere contattato all'indirizzo mail: ermesf5@gmail.com

Valeck – E. Fuzzi, L'eredità di Natalia, Il Ponte Vecchio, Cesena, 2008, euro 10: romanzo storico costruito come un giallo, PER UNA PEDAGOGIA DELLA MEMORIA (già premiato al concorso internazionale di narrativa “Tulliola 2009” e al concorso nazionale di arti letterarie “Arte Città Amica 2009”). Gli autori hanno ricevuto in età adulta una memoria familiare che era stata loro celata per motivi differenti: per la difficoltà a narrare episodi dolorosi da una parte, e per la paura dall’altra - perché come diceva H. Arendth è più facile che una cosa si ripresenti nella Storia piuttosto che non avvenga mai. Le vicende sono relative ad un ragazzo scappato da casa per arruolarsi tra i giovani volontari fascisti e, nella realtà, morto a Enfidaville non ancora maggiorenne e una donna sopravvissuta al Lager. Il tentativo di ricostruire i frammenti mancanti di una storia, appartenenti ad una memoria umana più vasta e che ha le sue radici nel secondo conflitto, ha portato gli autori a rielaborare questa loro ricerca interiore attraverso la forma del romanzo. Gli autori incontrano spesso gli studenti di quelle scuole secondarie di 2° grado che hanno adottato il loro romanzo quale testo di narrativa.

III CLASS. ROMANZO INEDITO

La valle dell'inverno di Astrid Valeck

Astrid Valeck, (classe 1968) Il suo primo romanzo, L'eredità di Natalia, ed. Il Ponte Vecchio, Cesena, 2008 scritto in coppia con Ermes Fuzzi è stato premiato più volte in concorsi letterari nazionali e internazionali. La valle dell'inverno (che si è anche classificato 4° al premio “Sognando Hemingway”) è il regalo per gli 11 anni del più piccolo dei suoi tre figli. È un romanzo di genere fantasy in attesa di un editore che se ne innamori - come è già capitato a tanti lettori - e decida di pubblicarlo con tante tantissime tavole in bianco e nero. C'è già una giovanissima illustratrice di talento disponibile. L'autrice può essere contatta all'indirizzo mail: astrid.valeck@gmail.com

La valle dell'inverno: Tre fratelli, coinvolti loro malgrado, in un'avventura più grande di loro, dovranno imparare a saper guardare oltre le apparenze, a credere in se stessi e a ritrovare la fiducia. Il tutto in una natura misteriosa e intensa in cui emerge il dramma di un'oscurità da dover tenere lontana a tutti i costi. Ne esce una bellissima metafora delle difficoltà, a volte paradossali, che tanto i bambini quanto gli adulti si trovano ad affrontare nella loro vita e un messaggio di speranza e di amore.

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Santolo Taglialatela Scafati .
ROMANZO EDITO


L’Autore di Ricordi, Editore Boopen, ISBN 978-88-6223-591-4, euro 13

Santolo Taglialatela Scafati nasce a Napoli nel 1978, ma attualmente vive nel comasco. Chimico industriale di professione, scrive poesie e romanzi. Nel 2009 ha ottenuto il secondo posto nazionale al “Premio Lauzi, il poeta per la musica” con il testo letterario per canzone“Maria” e, nel maggio 2010, il secondo posto al Premio Letterario Internazionale “pennacalamaio” indetto dall’Associazione Culturale Savonese ZACEM, con il romanzo “L’Autore di Ricordi”. Ha pubblicato, inoltre, la raccolta di poesie “E’ per il tuo affetto che provo dolore” ottenendo diversi riconoscimenti e menzioni per le sue poesie. Appassionato anche di musica, attualmente collabora con un musicista e cantante milanese alla realizzazione di un album di canzoni inedite, prevalentemente come autore dei testi. È in progetto anche la stesura del suo secondo romanzo.

L’Autore di Ricordi: Mario è un ventiseienne studente d’ingegneria che si sente musicista e poeta. Sandra, sposata, libraia trentacinquenne è una donna estremamente sensibile e sua musa ispiratrice. Questo libro è la cronaca della loro storia, dolorosa e incredibile, in quanto non-storia, perché descrive il più pieno e concreto degli amori mancati, un sentimento scritto più che parlato, sognato più che vissuto. Il ricordo di Sandra accompagnerà Mario nella scelta di un disperato esilio interiore e geografico, ma a lui basterà un decennio di profonda meditazione per ritornare e pretendere la propria felicità. Egli stesso dice della propria vita: “Quando ero un ragazzino sognavo, speravo, immaginavo una donna-poesia, una donna per cui scriverle fosse descriverla, rappresentarle le mie emozioni, offrirle dei fiori di versi. Adesso da adulto vivo nel suo delicato e sofferente, dolce e doloroso ricordo. Nel tempo trascorso tra queste mie due epoche, nella vita vissuta tra queste mie diverse età, si è verificato l’incredibile, l’improbabile, il miracoloso evento d’averla incontrata”.

Eppure, dopo il suo rientro di speranza, dopo essersi riavvicinato al profumo delle emozioni e dei sentimenti sognati, il finale del libro mostrerà una verità amara per entrambi i protagonisti.

Da “L’Autore di Ricordi” di Santolo Taglialatela Scafati

“Sandra aspettò la sera tardi, quando ormai era a casa da sola nello studio, mentre suo marito già dormiva. Era seduta dietro alla scrivania sulla quale aveva letto decine e decine di libri e, alla luce della lampada da tavolo, aprì la busta. Estrasse il fascicoletto che conteneva. Erano cinque fogli e su ognuno era stampata una poesia. Prese nelle mani il primo e incominciò a leggere con tutta l’anima concentrata negli occhi.

I tuoi occhi.

Cosa sono i tuoi occhi,

in attesa di sorridermi

e che mai si nascondono

e che vivono, sperano e soffrono,

se non le orme delicate della tua anima,

due poesie ferme nella mente,

lunghe e lucide strade di luce?

I tuoi occhi sono anche la tua voce,

due ricordi intensi e profondi,

una coppia di bambini teneri e puri,

un giardino che scoppia di profumo di fiori e di sole,

due parole importanti e mai dette.

I tuoi occhi non hanno le tue mani e le tue gambe,

ma, invece, proprie mani e proprie gambe.

Camminano anche se siedi

e parlano assai meglio con il tuo silenzio.

Riconoscono odori, ascoltano passi,

danno opinioni, ridono chiassosi,

scelgono le immagini migliori da guardare,

si avvicinano ad altri occhi, a cuori, a parole, a dolori.

I tuoi occhi abbracciano, baciano, sorridono.

Vedono da lontano e da vicino, dentro e fuori,

bene e male sia il bene che il male.

Non hanno il tuo nome e non sono anonimi.

Si chiamano stelle se c'è buio e sole se è giorno.

Sono il sogno che sogno anche quando non dormo.

Alla fine dovette spegnere la luce e corse a chiudere la porta. Sandra aveva bisogno di piangere e lo fece sedendosi a terra per la forte emozione che aveva provato per quelle parole che dimostravano una riconoscenza, una gratitudine, a lei e ai suoi occhi, per quello che trasmetteva, per le emozioni che suscitava in quel ragazzo sensibile. Quelle parole l’avevano resa piena di gioia, carica di un sentimento indefinibile, le permisero di immaginarsi come una donna da cantare. Le ci vollero diversi minuti di silenzio per riprendersi, per attendere che il suo animo ritornasse alla serenità della sua casa, che il suo battito avesse di nuovo il ritmo della monotonia della sua vita. Aveva letto solamente quella prima poesia e già i suoi occhi a metà di essa divennero carichi di lacrime, carichi della sua anima. E ora si accingeva, una volta svestitasi, a dormire al fianco di suo marito, l’unico uomo che amava ma dal quale parole così non ne aveva mai ricevute. Eppure, in una casa lontana appena due chilometri, Mario non riusciva a dormire e non avrebbe dormito per l’intera notte, preso da mille pensieri, dalle preoccupazioni e anche dalla curiosità per la reazione di Sandra che non poteva conoscere. Passò la notte e Sandra si alzò la mattina seguente con la sensazione di essere felice o almeno meglio compresa. Si lavò e si vestì con suo marito che ancora dormiva e prese la busta con le poesie e la infilò nello zainetto rosa che portava sempre con sé in libreria. Sandra aspettò che suo marito si alzasse e si preparasse per accompagnarla al lavoro con la voglia di arrivare al proprio mondo, a quella libreria che era la dimora delle sue sensazioni, delle parole da leggere, di cui nutrirsi il cuore, da versare negli occhi e che stavolta portavano il suo nome perché erano state scritte per lei, per lei solamente. Non resisteva a quest’idea, ne era lusingata e fiera, era quello che cercava e che voleva, era quello che le era stato donato e sapeva che dono altrettanto grande fosse dare a quei versi completamente i suoi occhi, la sua attenzione, il trasporto emotivo di cui era capace. Era per lei giusto, naturale e di immenso piacere ricambiare al gesto profondo di Mario con il gesto altrettanto profondo di scandagliare quelle poesie, di estrarre il massimo potenziale emozionale, la forza nascosta in esse, portarne alla luce la felice ispirazione fiorita nel cuore di quel ragazzo. Appena arrivata in negozio, incominciò ad analizzare dettaglio su dettaglio di quella poesia, cercando di capire il senso, la scelta di determinati vocaboli, le figure retoriche, la costruzione dei versi, il livello qualitativo, i riferimenti letterari. Sandra credeva che tutto avesse una logica in quei versi perché conosceva Mario, l’aveva compreso e riteneva di aver scoperto, nelle sue poesie, un significato per tutto, una ragione precisa nella scelta anche di una congiunzione. Quella poesia le era piaciuta tanto, più di quelle precedenti che aveva avuto l’opportunità di leggere, perché questa era sua e vi si riconosceva tanto. Sapeva che si trattava di una poesia fortemente ispirata e ne era commossa. E pianse di nuovo e proprio mentre dall’esterno della vetrina Mario la osservava con imbarazzo e timore. Quella mattina Mario era incerto se andare o no da Sandra. Aveva preso anche appuntamento con Lucio e dargli buca sarebbe stato poco corretto e quindi decise, alla fine, di fare entrambe le cose. Passò prestissimo da Lucio per poi andare con lui in città, all’Università: Mario per prendere alla biblioteca universitaria un libro che gli occorreva per la tesi e Lucio per prenotare un esame. In macchina parlarono di Sandra, delle ragioni che avevano spinto Mario a prenderla come musa, discussero della probabile reazione di Sandra avuta nel leggere la poesia, compresa anche la verosimile ipotesi in cui, infastidita, l’avesse stracciata. In fondo, anche questo era da tenere in conto. Ma Mario immaginava fortemente che non le aveva fatto che piacere riceverla. Era ciò che si aspettava, anche se attese non poco prima di entrare nella libreria, in tarda mattinata, confuso dalle lacrime di Sandra, con il cuore in preda a una rapidissima accelerazione e con l’ansia che cresceva enormemente man mano che le si avvicinava. «Che ti è accaduto? Perché stai piangendo? Non stai bene?» le disse con tutto il cuore ma, nonostante ce l’avesse messa tutta per apparire sereno, la voce gli uscì debole e tremante, in balia di una preoccupazione evidente e forte, ora che si sforzava di guardarla dritta in volto e l’emozione di vederla così fragile e vera lo costrinse ad abbassare gli occhi. «Oh, Mario. Sei molto caro a preoccuparti. Sto bene. È solo che sono commossa per le tue parole. Mi hai dedicato una poesia molto bella. È stato un bel regalo. Ti ringrazio tantissimo.»Mario si sentì d’improvviso come rinato e felicemente incredulo. Non avrebbe immaginato che una reazione così fortemente emotiva potesse essere provocata da una sua poesia, pur conoscendo la profonda sensibilità di Sandra. Lei cercò di asciugare il suo pianto con le dita e rise per la sua incapacità di frenare le lacrime che scendevano inesorabili e che le avevano bagnato le guance lucide e bianche, e le labbra secche e rosate. Mario le porse un fazzoletto usa e getta e lei l’afferrò. «Mario, sei un vero poeta. Le tue parole mi fanno commuovere. La tua è una poesia che avrò sempre con me.» «La poesia non è mia. Appartiene a te. Se non esistessi tu, se tu non fossi come sei, non ci sarebbero neppure i miei versi. Anch’io la porterò dentro. Come dentro porterò sempre te» rispose Mario con il poco fiato che ancora gli restava, con l’impazienza di dirlo tutto d’un colpo per evitare ripensamenti, con il coraggio di sapere di esagerare, mosso com’era da un sentimento che sapeva di non controllare. Lei restò a osservarlo per un attimo, come a cercare di valutarne la sincerità, come per misurare a posteriori la convinzione con cui erano state pronunciate quelle parole e poi abbassò gli occhi imbarazzata e con un sorriso dolce disteso sulle labbra bagnate di pianto.


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 AURORA FIOROTTO (Treviso): sposatasi giovanissima, ha lasciato il lavoro per dedicarsi alla famiglia ed all’educazione dei due figli. La prematura ed improvvisa scomparsa di uno dei due, Francesco, l’ha portata, passati alcuni mesi, a dialogare con lui con scritti e poesie, attività che prima non aveva mai svolto. Si dedica, inoltre, al ricamo. Ha pubblicato tre raccolte di poesie: Emozioni (gennaio 2007), Aliti di vento (ottobre 2007), Angelo a Primavera (ottobre 2008) che è risultato finalista nel Concorso Letterario “Prévert”. Alcune sue opere hanno ricevuto vari riconoscimenti tra cui: LA MIA LUCE prima ex-aequo nel premio Triveneto di Poesia “Luce come fonte di pensiero” nel 2007 e seconda nel 2008 in una sezione del Concorso Letterario “Premio città di Savona”; PASSO DOUBLE ha ricevuto, sempre nel 2008, la menzione d'onore nel Concorso di Poesia “L'oro dell' Oselin” in Mestre; POMERIGGIO D'ESTATE ha avuto la menzione di merito nella XIV Edizione del premio poetico “Tra Piave e Livenza” di Refrontolo (TV) 2009; MATTINO DI NATALE ha ricevuto il premio speciale delle giuria nel Concorso “Nicola Mirto” 2009 in Alcamo (TP) e sempre un premio speciale della giuria nel Concorso “Agape Natale 2009”in Mestre; DEDICATO A … è arrivata seconda nel Concorso Internazionale “messaggi di Natale 2009” organizzato dalla L.A.P.S. Di Fucecchio (FI); PENSIERI E VITA ha ricevuto il III premio nel Concorso Letterario “All'Albero dei Desideri” 2009 sempre dalla L.A.P.S. Di Fucecchio (FI); IL VIAGGIO ha avuto una menzione d'onore nella sezione F Racconto del Premio Penna e Calamaio 2009/2010


II CLASS. LIBRO EDITO DI POESIA “ANGELO A PRIMAVERA” EDIZIONI MONTEDIT

Nella raccolta di poesie "Angelo a primavera", Aurora Fiorotto Arsetta illumina le emozioni che rendono piena la vita, rende consapevole il cammino faticoso che si deve in¬traprendere, sempre alla ricerca della voce del cuore. E tutto si ricollega alla visione del senso autentico della vita, alla pienezza del vivere, tra l'immenso amore e il dolo¬re per la perdita della persona amata, riuscendo a far emergere, attraverso parole vibranti e profondamente sen¬tite, quell'universo emozionale che nasce dal profondo del cuore, dalla presenza dell'amore vero, dallo sguardo che av¬volge, da un tenero abbraccio, dagli occhi che "parlano d'amo¬re": le sue parole si insinuano nei gesti quotidiani, nelle manifestazioni del vivere, a ricercare le sensazioni anche se non v'è più una "presenza", anche se la vita scorre veloce inesorabile, anche quando non ci sono più "le stesse parole” che possano raccontare e descrivere il dolore. La poesia stessa diventa un "quadro" che possiamo in¬terpretare in diversi modi, rifacendoci alla nostra sensibili¬tà e alla nostra capacità di osservare ed indagare a fondo ciò che succede davanti ai nostri occhi, di scandagliare nel¬la dimensione che si avvicina all'invisibile, di sentire den¬tro di noi quell'amore così potente che rende quasi "estranei al mondo". Ne emerge una costante voglia di "sfuggire ai pensieri del quotidiano", il desiderio di un cammino in una "strada senza fine", la necessità vitale di "cancellare gli incubi".

Aurora Fiorotto Arsetta, con le sue poesie strappate dal fondo del cuore, desidera intensamente sconfiggere la tri¬stezza e il dolore, rendere luce viva le lacrime che sgorgano, quelle lacrime che riempiono gli occhi d'amore e accompa¬gnano la vita. Nella poesia "Notte" v'è un continuo scandaglio interiore in una delle "tante notti interminabili" quando in una stan¬za dove regna l'oscurità v'è il silenzio e gli occhi "fissano il soffitto". Solo un groviglio di pensieri "accompagna il ritmodel cuore" e i ricordi che si ammassano nella mente "non la¬sciano spazio al respiro". E quel pianto, quelle lacrime fina¬li che si "adagiano sul cuscino" sono l'inevitabile conclusio¬ne di una introspezione, di un faticoso e doloroso viaggio dentro se stessa, che riconducono alla volontà di ritrovare la speranza, di non arrendersi mai, di camminare nella vi¬ta "senza fermarsi mai". Tutto ciò che nasce dall'anima dolente serve a dare una senso di purificazione a questa emorragia d'amore, a que¬sto dolore così intenso, alla sofferenza che consuma il corpo e rende difficile la voglia di vivere: la poesia diventa un at¬to salvifico, l'inevitabile tentativo di preservare tutto ciò che merita di essere salvato.

MASSIMO BARILE

MENZIONE D’ONORE SEZIONE RACCONTO

IL VIAGGIO

Ho deciso di andare all’avventura, di fidarmi dell’entusiasmo di chi mi ha parlato di quel paese, della tranquillità dei posti, della bellezza dei paesaggi e della serenità che questi trasmettono.

Ho visto delle foto. Oltre la beltà mi hanno sommersa di pace e ho deciso: ci vado.

Non sono facile a credere alla gente, alle loro emozioni. Non mi lascio incantare da quel primo entusiasmo che sento, ma questa volta, c’è un qualcosa che mi tenta e allora…via.

Un breve weekend nella natura. Sono partita. Una scalcinata corriera di linea arranca in un viottolo di campagna nebbioso. E’ buio, non si vede niente. Solo l’incrociare di altri fari che poi si allontanano nella notte. Ho deciso di lasciar perdere la modernità, almeno in parte. Non porto l’orologio al polso, ma…..essendo un po’ in forse, l’ho riposto nella borsa. Non voglio sapere l’ora e non voglio chiederla. Per il momento voglio essere lontana dal frenetico del quotidiano. Lo so, è una mia convinzione, ma intanto ho cominciato dall’orologio. Se cambio idea allungo la mano e lo rimetto al posto di sempre. Il buio si fa sempre più pesto. Non si incrociano più fari. Il vociare, prima allegro della comitiva, sta scemando. Sono tutti stanchi ed un po’ assopiti. Hanno appoggiato la testa sullo schienale dei sedili e lentamente si sono lasciati andare al rullio delle ruote.

Ogni tanto la corriera sobbalza e lievi attimi di brontolio si odono nell’aria e poi tutto ritorna come prima. Una brusca frenata, un forte contraccolpo, uno scossone, un rimbalzo generale contro il sedile davanti, un guardarsi intorno assonnato ed un po’ spaurito, un chiedersi l’un con l’altro cosa sta succedendo. “Siamo arrivati” comunica l’autista. La temperatura aumenta con l’allegria. Tutti hanno ripreso vigore. Si sorridono, schiamazzano a voce alta, con fatica si alzano dai loro posti a sedere e si incanalano nello stretto corridoio. Si spingono gioiosamente. Vogliono uscire tutti da questa scatola di latta e lentamente scendono a terra. C’è sempre il più spiritoso di tutti che accenna di baciare il crudo marciapiede, grato al cielo di essere arrivato sano e salvo e si guarda attorno cercando una considerazione che non arriva. Lentamente anch’io mi metto in fila con gli altri. Prima di scendere saluto il conducente e lo ringrazio per il passaggio. Non mi risponde. Bofonchia qualcosa malamente. Puzza di vino. Forse è ubriaco. Prese le valigie, nella confusione generale, ci si avvia verso l’albergo. E’ piccolo e al primo vedersi grazioso. Il buio pesto ed una leggera pioggia impedisce di vederlo nella sua integrità. Le luci, il neon, sono deboli o a basso voltaggio. Questo non importa a nessuno. L’allegria ha lasciato il posto alla stanchezza in un attimo. Un arrivederci a domani e trascinando i propri bagagli si avviano tutti verso le loro camere. Mi ritrovo nella mia. Accendo la luce. L’illuminazione è un po’ soffusa, ma la stanza è calda ed accogliente. Mi guardo attorno lentamente, voglio assaporare i primi veri attimi di tranquillità. E’ piccola ma graziosa con un tocco di femminilità, di frivolezza, ci vuole proprio. Almeno a me piace. Mi fa sentire bambina.

Pareti chiare, tappezzeria rosa, tono su tono, variante dal rosa polvere al caldo antico, arredo di ciliegio chiaro, un armadio a due ante, un piccolo comò bombato, una scrivania accompagnata da una graziosa sedia. L’occhio si sofferma in un piccolo particolare sull’anta dell’armadio. In un angolo un dolce cerbiatto si guarda attorno timido e spaurito. E’ una piccola incisione così perfetta e semplice da sembrare vera. Una piccola miniatura da guardare ogniqualvolta qualcuno voglia. Vi passo leggermente sopra la mano, con le dita sfioro il contorno. Poso il bagaglio, mi adagio sul letto, ancora vestita, e chiudo gli occhi. Forse mi addormento, forse sogno. So solamente che mi sento a mio agio. E’ un nuovo giorno. La luce filtra dalle imposte. Sembra un raggio timido di sole, mi alzo, le apro e rimango senza fiato. Mi trovo davanti ad uno scorcio di mondo incontaminato dalla civiltà, a prima vista almeno. Il sole è alto all’orizzonte, si culla beato tra due leggiadre colline. Non c’è casa o un tocco umano. Solo natura, cielo, terra, aria, sole e nuvole. Un cocktail di tranquillità racchiuso in un pugno di mondo. Mi sbrigo e scendo. Sento il bisogno di bagnarmi in quello che il paesaggio mi offre. Ci sono poche persone nella piccola sala di colazione. Qualche cameriera che prepara i tavoli ed un paio di ritardatari come me. Se ne sono andati tutti per una scampagnata organizzata. Altra confusione, altro trambusto, altri schiamazzi. Non fa per me. Preferisco esplorare il piccolo paese che mi ospita e scoprire la personalità e la semplicità che offre. Esco, mi sento leggera, mi sento una farfalla e come una farfalla vado a posarmi su quello che mi trovo davanti. E’ piccolo il paese. Una piazzetta, tre negozi, una panetteria, quattro alberi, due panchine, una chiesina che nasconde uno sparuto cimitero. Seguo l’odore del pane ed i profumi di caffè, biscotti e cioccolato, e, scopro così un piccolo bistrot. Come una bambina guardo la vetrina. Mi riempio gli occhi dei dolci ed entro, e contro ogni volontà faccio scorta di pasticcini. So che tutto ciò non mi fa bene, ma alzo spallucce e ridendo mi dico “ e chi se ne frega”.

Una piccola donna del posto mi salta con un cenno del capo ed un gran sorriso, mentre, lentamente si allontana. La guardo e seguo il suo andare. E’ parte del paesaggio. E’ un tutt’uno con il luogo.

A fianco del panificio c’è un altro piccolo negozio. C’è un sacco di confusione nella piccola vetrina.

E’ stata riempita dalle cose più disparate, di oggetti strani, di souvenir per attirare i turisti. Mi mette una leggiera tristezza. La sua vista ha incrinato l’ovatta di un altro tempo in cui avevo creduto di trovarmi. E’ questo un piccolo paese che vive di turismo e pertanto si adegua all’oggi ed al domani.

C’è poi la chiesetta in legno. Il suo portone è chiuso a chiave. Non posso entrare e respirare l’aria di mistero e di sacralità che contiene. Dietro c’è il piccolo camposanto. Sembra, a prima vista, abbandonato e trascurato. Poche sono le tombe. Sembrano vecchie di anni. Annerite dal tempo e dalle intemperie. Una è recente. Mi soffermo. E’ di un giovane uomo. Una lacrima mi scende a leggere il suo nome. Mi tremano le gambe, mi si torce lo stomaco, mi si secca la gola. E’ così giovane, nel pieno della vita. Ho perso la mia tranquillità. Me ne vado ma il mio cuore anzi “quore” rimane con quel ragazzo, con Francesco.

Dietro l’angolo incomincia un viottolo che, passo dopo passo, diventa sempre più largo, diventa strada. Lo percorro un po’ incuriosita. Mi sento stringere la mano, ma nessuno mi è accanto. Forse è quel giovane uomo che mi guida.

Mi ritrovo in un parcheggio, per fortuna non tanto affollato. Il ieri, la tranquillità si confonde con l’oggi. Ancora qualche passo e poi un piccolo cancello. Un ticket da pagare ed oltre a questo la natura al naturale.

Ho fatto un po’ di confusione alla vista di quelle vetrine. Ho pensato prima di vedere ed ora mi rimangio tutto. Ciò che il paesaggio offre alla vista non ha parole. Entro. Bambini giocano ridendo, si rincorrono, si chiamano, eppure non urtano i nervi con le loro voci allegre.

C’ è un gruppetto di giovani che ballano al suono di Vasco Rossi e, sembra strano, ma il Vasco è li con loro. Suona per loro, canta per loro. Ride con loro e vive con loro.

Non capisco più niente. Non riesco a capire dove sono. C’è la gioia e le allegre corse dei bambini, il loro simpatico vociare, eppure non lo sento. E’ come un sottofondo. C’è la musica assordante del Blasco, la spensieratezza dei giovani che lo ascoltano e lo danzano. Eppure è lontana, è di sottofondo al paesaggio. C’è vita eppure continuo a camminare. Alcuni vecchietti si intrattengono seduti sulle loro panchine raccontandosi il lieve passato. Altri, curvi, passeggiano lentamente appoggiandosi a dei bastoni. Sono assieme ai giovani, nello stesso parco, eppure sembrano così lontani e diversi.

Due vecchine complottano fra di loro. Un po’ guardinghe parlano piano sottovoce, curve dai loro anni, alzando ogni tanto la testa, guardandosi attorno, per poi riprendere il loro bisbiglio.

Sono graziose e delicate al vedersi. Una tiene, sulle ginocchia, un piccolo cagnolino bianco: mi sembra un barboncino o forse no. Lo accarezza con la mano lentamente. Alza gli occhi e, bruscamente, mi invita a sedermi su di una sedia vuota che le sta accanto. Accetto volentieri. Sono stanca ed un attimo di riposo non mi fa male. Le offro il sacchetto dei biscotti. Me lo strappa dalle mani, ne prende uno, lo da al cane e porge il resto alla sorella. Quest’ultima si mette a sgranocchiarne uno al cioccolato continuando nel suo parlare mentre alcune briciole le scappano dalla bocca e scivolano sul petto. Mi assento completamente dalle loro chiacchere. Non comprendo niente di quello che dicono e poi non mi interessa.

Una piccola mano mi scuote dal mio isolamento e mi riporta alla realtà. E’ la vecchina con il cane che mi chiede se l’accompagno a fare due passi con il suo “Romeo”. Perché no, penso. Mi alzo e ci avviamo verso un viottolo che si porge alle nostre spalle.

E’ un terreno difficile da farsi. Radici di alberi spuntano dal terreno, s’intrecciano fra di loro ed impediscono una camminata normale. Bisogna guardare dove si mettono i piedi, fare attenzione, è facile cadere. Lo faccio notare alla signora che mi risponde con una spallata.

E’ un po’ più vecchia di me, eppure la sua andata è sciolta e nervosa, non risponde all’ètà che porta. Cammina forte trascinandosi dietro il piccolo Romeo che perde i passi fra le foglie.

Il viottolo si divide in due ora. Uno parte in leggera salita, l’altro in piano su un tappeto di foglie morte annerite dal fango. Prendo la via in salita indicandola anche alla signora. Non mi ascolta, risponde malamente ed irritata aumenta l’andatura.

Che soggetto penso non perdendola di vista. La nostra passeggiata prosegue. C’è un divario di quasi due metri fra i due viottoli. Non so perché continuo a camminare. Non so perché continuo a guardare quella cocciuta signora che s’infossa lentamente sempre più nel fango.

Il piccolo cane guaisce. E’ isterico. Non è più bianco. E’ color cioccolato come il biscotto mangiato poco prima. E’ coperto di foglie marcie e impaurito. Cade la piccola donna. Il suo viso grinzoso si affossa sul pantano. Vorrei aiutarla ad alzarsi, darle una mano ma riesco solo a gesticolare. Non posso muovermi, non so muovermi. Sono paralizzata. Grido a voce alta ma, dalla mia bocca, non esce alcun suono. Grido per un aiuto ma la voce è muta. Urlo ma nessuno ode. Nessuno può udire un grido che non ho emesso.

Sono disperata. Gesticolo come una forsennata che saluta qualcuno e, qualcuno che passeggia vicino risponde con un sorriso, ma non capisce.

Ho il terrore negli occhi. Continuo a muovermi finche un uomo capisce che qualcosa non va.. Allunga lo sguardo e vede una figura stesa fra le foglie, un piccolo qualcosa girarle attorno abbaiando come non mai, corre corre nel fango e incurante di sporcarsi raccoglie la piccola figura che sembra inerme.

Invece la piccola donna non sta ferma, si muove continuamente dall’abbraccio del giovane. Sembra un polipo dai lunghi tentacoli. Uno di questi colpisce il salvatore attonito. Sono passati pochi secondi ma, per me, interminabili senza tempo. Furiosa, la vecchia se ne va impiastricciata con in braccio il suo “Romeo”. Ha perso tutta la grazia della sua età e tutto il rispetto che è dovere darle. E tutto scompare. La vecchia che si perde nel fondo, il paese che si confonde con la natura.

Non c’è mai stato niente di tutto questo. E’ solo un connubio di pensieri persi nella confusione.

E’ una giornata uggiosa di fine novembre. Questa mattina mi sono alzata con il pensiero di scrivere senza sapere cosa. Carta e penna. La mano vola sul foglio bianco. E’ come guidata. C’è qualche interruzione ogni tanto, dei momenti di pausa per fare un qualcosa da mangiare, per preparare un caffè e poi scrivere di nuovo senza sapere l’argomento.

E’ uscito quello che è uscito dalla mia penna, Una confusione di pensieri e di certo non grammatica..

Non so scrivere e non ho mai preteso di saperlo fare. Ciò che esprimo su carta mi esce dalla mente, dal cuore, di getto senza tanta retorica ma con semplicità.

E’ un pensiero tutto ingarbugliato che di certo significa qualcosa. Ma cosa?

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GIULIA VANNUCCHI (Viareggio, LU): "Sono veramente felice di scrivere poesie perché mi piace partecipare agli altri il mio modo di vedere il mondo. Sembra che la mia visione della vita e il mio stile piaccia perché ho già vinto molti premi per i miei undici anni.Sono una bimba molto serena e allegra e le mie opere, anche le più tristi, rivelano una fede incondizionata in un futuro migliore."

I CLASS. FANTASCIENZA SCUOLE MEDIE

CANNELLA
C’era una volta, in una piccola pasticceria, un cannolo di metallo. Attorno ad esso Simone, il pasticcere, arrotolava ogni mattina le strisce di pasta sfoglia per preparare i “diti” da farcire con le creme. Il povero cannolo di metallo, a fine mattina, aveva la testa che girava perché Simone, con una mano teneva la striscia di pasta, con l’altra ruotava veloce il piccolo cilindro. Così facendo il pasticcere formava anche cinquecento “diti”. Quando finalmente Simone posava nel cassetto il cannolo questi poteva riposarsi al buio e sognare. Le voci e i rumori che arrivavano smorzati da fuori lo cullavano e lo facevano sprofondare in mondi distanti. Spesso Cannolo faceva un sogno che lo portava in un posto lontano, in un’isola rigogliosa in cui l’estate non finiva mai. Lui non sapeva come era arrivato lì, ma era sicuro che fosse il posto giusto per vivere bene. Sulla spiaggia di candida rena milioni di conchiglie formavano un lussuoso pavimento e poco distante dalla riva iniziava una cattedrale di alberi. Un buon profumo riempiva l’aria e Cannolo si domandava da dove venisse. All’improvviso dagli alberi uscì una processione di piccoli e snelli cilindri color marroncino che si avvicinarono a Cannolo e lo guardarono con i loro piccoli occhi curiosi. Uno di loro, di bell’aspetto, parlò: “Benvenuto, lucente amico. Siamo felici di averti qui. Io sono il re di quest’isola e ti invito alla mia corte”. Cannolo accettò e si inoltrò con i suoi ospiti nel bosco.

In una grande radura il popolo dell’isola li aspettava in cerchio ed erano tutti impazienti di conoscere Cannolo. Il cilindro di metallo in confronto agli abitanti dell’isola sembrava elegantissimo, lucido com’era. La figlia del re cominciò a fargli gli occhi dolci. Così, mentre Cannolo raccontava la sua vita e insegnava al re i segreti della pasticceria di Simone, tra i due nacque l’amore. Cannolo stava abbracciando la sua principessa profumata quando un tramestio lo svegliò. Era Simone che apriva il cassetto. Un altro giorno era cominciato e il pasticcere cominciava a lavorare. Quando prese in mano il cannolo trovò attaccato ad esso un pezzetto di cannella.
Subito la portò al naso e gli venne un’idea. La vigilia di Natale nella vetrina della sua pasticceria troneggiava una piramide di “diti” alla cannella; in un piattino, davanti alla piramide, c’era cannolo e la sua stecca profumata in attesa che tornasse la notte per continuare a sognare. Non sapevano che quella notte una storia molto più bella della loro sarebbe cominciata

I CLASS. POESIA A TEMA LIBERO SCUOLE MEDIE

COME SI ASPETTA

Come si aspetta?

Una notte insonne,

il cuore schiacciato

dall’assente respiro.


Come si aspetta?

Gli occhi sbarrati,

le mani frementi

per l’elettrica attesa.


Come si aspetta?

I piedi scappano

dalla frizzante pelle

nel cuoio costretti.



Cosa si aspetta?

Una tenue speranza,

una debole certezza,

un fulgido sogno.


L’attesa, sofferta e incisa

nella mente e nell’anima,

esplode e si spenge

in un fremito di effimera gioia.

(20/12/08)

II CLASS. FILASTROCCA SCUOLE MEDIE

L’OCCHIO DI NETTUNO

Si frange l’onda

sulla riva rosata

e lenta canta

una nenia arcana…


Navigli e vele

sbattuti dal vento,

uomini e legni

obliati da tempo.


Spuma soave,

di poseidonia barba,

dipinge l’azzurro,

sospinge la barca.



Attento nauta,

Nettuno ti guarda,

la dolce brezza

tramuta in burrasca.

Sul fondo silente

si ergono croci

di legni contorti

che più non han voci.

L’azzurro del cielo

si fonde nel mare

chiude gli occhi Nettuno

il re va a riposare.

Si frange l’onda

sulla riva rosata

e di nuovo recita

una storia scordata…

(22/10/08)

I CLASS. POESIA A TEMA L’ARTE

RAFFAELLO

Fiamme di vita

che tempo non spenge

lasciano gli occhi

che si affacciano

dalle sontuose tele

per colpire

i miei lumi

ed incatenare

con la magia dell’espressione

il mio giovane cuore.

(21/08/09)

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ANGELOV SVILEN (Savona): “sono nato il 01.06.1992, vivo a Savona con i miei genitori e ho frequentato e concluso la scuola elementare e media nell’Istituto Santa M.G. Rossello. Nel 2008 ho conseguito il diploma di Licenza Media con risultato Ottimo. Adesso frequento la seconda classe al Liceo Scientifico O.Grassi a Savona. Durante il mio percorso scolastico, ho partecipato a diversi concorsi: ‘Celebriamo la pace’del Lions Clubs International, dove ho vinto il primo posto; ‘La mia città verde’di Florasì, dove mi classificai sesto in Italia; ‘Parole per l'integrazione’ dell'Istituto David Chiossone onlus; Panathlon International; Progetto ‘Murales’, dove ho vinto il primo posto. Il 19.11.2009 ho ricevuto il diploma di riconoscimento dalla Federazione Nazionale del Diabete Giovanile alla cerimonia di premiazione del concorso letterario ‘Il diabete infantile e giovanile: le storie, i racconti’che si è tenuta a Roma presso la sala degli Atti Parlamentali del Senato. Studio e parlo l'inglese, lo spagnolo, il russo, il bulgaro, l'italiano e il latino. Nell'estate 2009, ho ottenuto il Diploma del livello A2 ‘University of Cambridge’. Oltre le lingue, nel mio tempo libero, mi piace praticare lo sport, leggere libri o scrivere. Scrivere è la mia passione, è uno strumento di comunicazione permanente dove l'emittente esprime i propri pensieri, il proprio carattere e i diversi punti di vista. Credo nel proverbio ‘Impara l'arte e mettila da parte’. I concorsi che ho vinto hanno aiutato, nel loro piccolo, le persone meno fortunate di me, nel reparto pediatrico dell'ospedale San Paolo a Savona.”

SEZIONE SCUOLE SUPERIORI

I CLASS. FILASTROCCA

SOGNO DI VELLUTO, BAMBINI VI SALUTO!

Luca va al supermercato:

che bel mondo colorato!

Compra mele, latte, pesche

e verdure tutte fresche.

Vede giochi, bambole e nave,

una casa “Barbie”con la chiave...

E Luca inizia a sognare:

un’estate con amici al mare

che vanno tutti a riposare.

Vede un gabbiano

che vola lontano

Luca ride: -Io sono contento

e mi diverto

insieme ai miei amici

siamo felici...-

Luca è in fila alla cassa

e nessuno lo sorpassa!

III CLASS. RACCONTO E FAVOLA

LA TESTA NON E' SOLO PER IL COLBACCO

C' era una volta in un regno lontano un re che viveva con la sua unica figlia. Era la più bella fanciulla della Terra, i suoi capelli erano lunghi ed assomigliavano al colore del grano maturo, mentre i suoi occhi erano come il cielo azzurro. Il re la voleva far sposare a un uomo buono e colto. Così disse che avrebbe concesso la mano della figlia all'uomo che gli avrebbe domandato un indovinello al quale lui non sarebbe stato in grado di rispondere. Passarono molti uomini dal regno, ma il re rispondeva a tutti gli indovinelli posti. Un giorno, venne davanti alle porte del palazzo un giovane pastorello. Vedendolo giungere, i servitori del re iniziarono a ridere ricordando i tanti principi che avevano provato a conquistare la giovane fanciulla e che avevano fallito. Decisero, però, di lasciar passare il povero pastorello. -Dimmi il tuo indovinello, ragazzo. -disse il re.

-Ve lo dirò subito vostra altezza. Qual è la cosa che è più alta di un uomo, ma più piccola di una gallina?- Il re pensò a lungo, ma non riuscì ad indovinare. -Dimmi, ragazzo, qual è la cosa che è più alta di un uomo, ma più piccola di una gallina?- -Il colbacco, vostra maestà- rispose il ragazzo. Al re piacque la risposta del pastorello, ma gli disse che gli avrebbe concesso sua figlia se egli avesse piantato nel suo giardino un fiore, ma che fosse né bianco, né rosso, né giallo, né colorato, né di nessun altro colore! Il pastorello pensò a lungo, ma alla fine rispose: -Certo, vostra maestà, pianterò questo fiore, ma voi non lo potrete raccogliere lunedì, né martedì, né mercoledì, né giovedì, né venerdì, né sabato, né domenica e in nessun altro giorno!” Contento della risposta, il re sposò sua figlia con il pastorello e fece delle magnifiche nozze per il loro matrimonio. Per lunghi anni il giovane pastorello governò il regno e, in ogni parte del mondo, si raccontavano storie sulla sua saggezza ed intelligenza.

III CLASS. POESIA A TEMA LIBERO

NUVOLA DI SETA: PICCOLA MONETA!

-Nuvola,nuvola bianca,

perché sei così stanca?

Nuvola, nemica del Sole

bella come un fiore

scendi giù come farfallina

che ti prendo con la manina.

Diventeremo amici e

saremo felici.

Vieni ti prego nuvola d'argento!

-Non posso, ballo col vento!

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LOREDANA SIMONETTI (Roma): laureata in Matematica, lavora in banca tra numeri e computer.

Sposata e mamma di due ragazzi, si diverte a scrivere filastrocche e favole, i principali ispiratori delle quali sono i figli stessi, fin da quando erano piccoli; predilige le poesie in dialetto romanesco, con il quale meglio esprime ironia, passionalità e drammaticità, ma non disdegna scrivere anche poesie in lingua. Ha vinto numerosi premi in tutta Italia tra cui la VIII edizione del Premio "Elsa Morante" per la narrativa, il 1^ premio della II edizione di "Roma ... in cerca di poesia" e il 3^ premio di "Roma in Rima" della casa editrice Ibiskos di Empoli. Ha pubblicato nel 2008, con la casa editrice EdiGiò, un libro di filastrocche dal titolo "FILASTROCCA E... TUTTI A NANNA" e nel 2009 la favola "SEM IL SEMAFORO". Vincitrice della 3^edizione del Premio Creativa sez. Narrativa, ha pubblicato nel 2009 la favola "ELEONORA E IL SUO LIBRO DI FAVOLE".

II CLASS. FILASTROCCA

FESTA IN LIBRERIA

Oggi ho letto un manifesto:

"Fai merenda in libreria !"

Sospettoso mi son chiesto:

mangio un'enciclopedia?


La merenda è un'altra cosa:

un bicchiere d'aranciata,

una fetta di mimosa,

pane, burro e marmellata....


Che merenda posso fare

tra libretti e cartonati?

A me piace mangiucchiare

coi cartoni..., ma animati!.


La mia mamma, sorridendo,

dice: "Lasciati guidare,

son sicura che, potendo,

vorrai presto ritornare."


Quante cose colorate:

animali, pupazzetti

seggioline disegnate,

le lavagne coi gessetti!


C'è 'Pinocchio', 'Aladino',

Peter Pan, Scaramacai,

con 'Bertoldo e Bertoldino'

non ti annoieresti mai!


Che magnifica giornata,

questa è proprio una gran festa:

La merenda è incominciata

soprattutto .... per la testa!

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MARINA PRATICI (Aulla – MS): nata a Viareggio (LU) il 16 settembre 1961, lavora in un istituto di credito a La Spezia. Critica letteraria, saggista e giornalista, collabora sistematicamente con diverse testate e cura la rubrica “I protagonisti” della rivista di informazione, arte e cultura, “Il Porticciolo”. Presidente dell’Associazione “Alice e Flavio”, ha organizzato numerosi eventi di vocazione culturale e sociale ed è stata relatrice in svariati convegni. È membro della Redazione Musical Letteraria del “Premio Lunezia” e segretaria dell’omonima Fondazione. Appassionata d’arte e storia locale, ha promosso percorsi volti al recupero delle tradizioni del comprensorio lunigianese e suoi approfondimenti sono conservati nel Museo di San Terenzo Monti (MS). È segretaria del Cenacolo Artistico Letterario “Val di Magra”, socia fondatrice dell’Associazione Culturale “Scintille poetiche” e consulente artistica del Premio Letterario Internazionale “Città di Cattolica”. Consulente editoriale, ha curato la recensione critica e la prefazione delle opere di numerosi artisti ed è membro di giuria in importanti premi letterari. Ha ricevuto segnalazioni, menzioni d’onore e si è classificata ai primi posti in più concorsi nazionali e internazionali di poesia


(nell’anno appena concluso, il 2009, ha conseguito 11 primi premi, 7 secondi premi, 4 terzi premi, 3 menzioni d’onore e 5 premi speciali della critica). Sue liriche figurano in antologie, riviste e siti specializzati e sue composizioni sono state musicate dal produttore discografico Leonardo Rosi, collaboratore di Zucchero Fornaciari, e dal cantautore modenese Alberto Despini. Suoi saggi critici compaiono in diverse antologie del settore. Ha ricevuto vari riconoscimenti ad personam per l’impegno culturale e sociale. È stata ospite di talk show letterari e ha partecipato a trasmissioni televisive in veste di scrittrice e poetessa. Ha pubblicato “In trina di parole…e bisbigli di rose ” (Pilgrim Edizioni ) raccolta poetica, recensita su quotidiani e periodici e presentata da Alessandro Quasimodo, figlio del Premio Nobel Salvatore, che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Come presidente dell’Associazione “Alice e Flavio”, ha promosso e curato il volume “Nonni di Lunigiana” (Edizioni “Il Porticciolo”) presentato in tutti gli Istituti scolastici lunigianesi, e il prontuario “Sicuramente Internet”, realizzato con l’ausilio dell’Azienda USL 1 Massa Carrara, Società della Salute Lunigiana e Comune di Aulla. In fase di pubblicazione, la sua ultima silloge e un saggio sulle opere giovanili di T. S. Eliot. Sta inoltre estendendo, in collaborazione con il giornalista Roberto Oligeri, un volume sull’eccidio di Valla (MS) del 19 agosto 1944.


II CLASS. POESIA A TEMA LIBERO

A Chanda, nove anni,

fiore perduto di Bangkok…

AL MERCATO DI PAT PONG

È come un fiore nella serra sbagliata,

la bambina venduta al mercato di Pat Pong…

Prigioniera di foto e di un malo amore

si muove lieve la bambina,

ballerina inamovibile

in un erratico carillon.

Danza l’assenza di colore

nei suoi occhi tondi,

come lino i suoi sogni,

come pece i suoi ricordi.

Nel giardino di filo spinato

mani straniere strappano

i suoi petali,

suggono il suo nettare,

giù, giù…fino al cuore.

Avvizziscono in fretta i fiori

invecchiano in istante di dolore,

i bambini,

nel serraglio di Bangkok.

Fluiscono i cortei d’arcobaleno,

oscillano le candele

come ombre di luce,

riecheggiano i cori di pace

ai cardini del mondo.

Ma inutile accordare l’arpa d’oro

vana la fiaccola nel filtro della notte

se scordiamo i germogli del domani,

come schizzi di fango,

nel rigagnolo di Pat Pong.

Vestito della nostra indifferenza

disperde ora il vento profumo di fiori perduti,

come inuditi lamenti di un’infanzia venduta.

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LUIGI PESENTI (Albissola Marina, Savona): nato a Quiliano nel 1944, è stato Primo classificato al IX° concorso internazionale “Antonio de Curtis” per la sezione “libri verità”, edizione 2006 con l’opera edita “SAGOMACCE”, prima partecipazione ad un concorso letterario. Premiazione svoltasi nella biblioteca della Camera dei Deputati a Roma il 13 dicembre 2006. Indi è stato Primo classificato al X° concorso internazionale ”Antonio de Curtis”, edizione speciale in occasione del quarantesimo anniversario della scomparsa dell’attore, sezione “libri verità”, con la bozza dell’opera inedita “SAGOMACCE 2 ovvero L’ITALIANA COMMEDIA”. Premiazione svoltasi il 15 dicembre 2007 a Roma, nella sala delle conferenze della Camera dei Deputati. Poi: Secondo classificato al concorso “Accademia Internazionale dei Sarrastri “di Sar-no con l’opera edita “SAGOMACCE”, premiazione a Sarno il 30 maggio 2008; Diploma di merito al concorso “Accademia Internazionale dei Sarrastri” di Sarno con la poesia “Solitudine”, premiazione a Sarno il 30 maggio 2008; Diploma di merito al concorso ANPAI - S. Margherita Lig. – F Delpino 2008 per la sezione narrativa; secondo classificato al 7° concorso di poesia “Insieme nel mondo” con la poesia “Amore E’, premiazione il 12 settembre 2009 al Convento dei frati Cappuccini di Savona, via Loreto.

III CLASS. POESIA IN VERNACOLO

A türe de Fuksas â Margonâra:

Andemmu ben!

Vistu che nu n’han mäi basta quelli ch’han e man in pasta

han pensòu na grand’idea pe guagnä insc’â rivéa.

Han ciammòu ůn architettu e studiòu han ůn prugettu

che partendu da Arbissöa (ma u paisaggiu i fän föa

cun a vëgia fenuvia ch’ha vegneva spassà via)

g’ha u centru â Madunetta e u rîva dâ Türetta.

Vöan fä ůn ätru portu (de següu nu gh’è dä tortu

chi u l’è càregu de gran) pe chi gh’ha i diné in te man.

Vöan tuttu rifä növu, impì doppu comme ‘n övu

ůn gran toccu de rivêa, duvve primma spiaggia gh’ea,

con de barche da scignuì che nu semmu çertu nuì.

Quellu che de ciü l’è gräve, i ne pigian pe de räve,

l’è u stränu”grattacielu” ch’u sûmégia a’n grande belu.

Dixan che a segge ärte, de següu l’è mancu pärte:

a l’è föa completamente da-u nostru bell’ambiente

perché sulu grane porta e angùsce d’ogni sorta.

Pe impise ben a pansa gh’è chi pende fa a bansa

du ciü bellu dunde u vö: fa però tantu mä au chö

vedde tutti sti rimesci e pe nu passä da nesci

u ne tucca de stä sitti pe fä vedde d’ese dritti.

Oua sêrru cu-a speransa che nu gh’agge sudditansa

chi au postu de cumandu gh’emmu missu nuì vutandu

e ch’u sacce ascì capì quellu che vuremmu dì:

sarvä u bellu da çitè da e speculasiuin privè.

La torre di Fuksas alla Margonara:

Andiamo bene!

Visto che mai ne hanno basta quelli ch’ han le mani in pasta / hanno avuto una grande idea per arricchirsi con la riviera./Han chiamato un architetto e studiato hanno un progetto / che partendo da Albissola (ma il paesaggio si strangòla// con la vecchia funivia che verrebbe spazzata via),/ ha per centro la Madonnetta, quasi arriva alla Torretta. / Voglion fare un altro porto (di sicuro non da torto / chi è carico di grano) per chi ha i soldi in mano.// Voglion tutto rifar nuovo, riempir dopo come un uovo / un gran pezzo di riviera dove prima spiaggia c’era, / con le barche da signori che non siamo certo noi./ Quello che di più è grave, ma ci prendono per rape?// è lo strano grattacielo che mi sembra un grande “belo”(belin)./ Poi ci dicono sia arte, di sicuro è manco parte:/ fuori è completamente da il nostro bell’ambiente/ perché solo grane porta ed angosce d’ogni sorta.// Per riempirsi ben la pancia c’è chi fa pender la bilancia / del più bello dove vuole ma fa tanto male al cuore / vedere questi movimenti: per non passar da deficienti / poi ci tocca di star zitti e far finta d’esser dritti. // Ora chiudo con speranza che non abbia sudditanza / chi al posto di comando abbiam messo noi votando / e che sappia anche capire quello che vogliamo dire:/ salvare il bello della città dalle speculazioni private.

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OMBRETTA CIURNELLI (Perugia)

III CLASS. VERNACOLO

Brontlèvno i fagióje

Brontlèvno i fagióje ntla pignatta

poggeta su pe l foco ntol camino.

Gni tanto da l caldèo ncon gran rimore

na goccia nto la brègia a murì giva.

Lengue de luce j’acennevno j’occhie

e lia ncle mòje l foco arcutinèva

e ntla cucina buja e mpò nnerita

tutt’i fantasme de la gran balòja

su pî mure muccìveno a chiappasse

e lia che m’arconteva na profèqla

e m’agiusteva i b(o)tón de l sinalino.

I ncon fucello aceso ntol camino

nto l’èria ce facevo j’arzigog(ue)le

disegnanno acussì senz’acapillo

i sùmmie che ntol cor évon riscòste

Brontolavano i fagioli

Brontolavano i fagioli nella pentola di coccio
appoggiata sul fuoco nel camino.
Ogni tanto dal paiolo con grande rumore
una goccia sulla brace a morire andava.
Lingue di luce le accendevano gli occhi
e lei con le molle il fuoco aggiustava
e nella cucina buia e un po’ annerita
tutti i fantasmi della grande fiamma
sulle pareti fuggivano a rincorrersi
e lei che mi raccontava una storia
e mi aggiustava i bottoni del grembiulino.
Io con un piccolo fuscello acceso nel camino
nell’aria facevo gli arzigogoli
disegnando così senza capirlo
i sogni che nel cuore erano nascosti

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MANUELA ANNA GRECO (Milano): in arte Mag, è nata a Milano, dove vive e lavora in un importante Gruppo Editoriale. Con Ennepilibri, Editore di Imperia, a novembre 2007, ha pubblicato il suo primo romanzo "Ma il cuore non si arrende..." e il 21 marzo 2009, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, è uscita la sua prima raccolta di poesie "Su e giù per l'anima."
A maggio 2009, ha vinto il concorso "Incipit da favola. Il racconto lo scrivi tu.", indetto da
ilmiolibro.it e Scuola Holden, con la fiaba "Una rosa per Tea." Grazie al premio ottenuto, ha pubblicato, con Ilmiolibro.it, la raccolta di racconti "Anime perse e no." Il 23 novembre 2009 si è classificata al 3° posto nel concorso Montblanc “A story to tell”, organizzato da Secretary.it, con il racconto “Anima bambina”. Il suo sito è www.manuelagreco.com; e.mail:info@manuelagreco.com

II CLASS. FAVOLA

I SASSI SI SONO MESSI A PARLARE

Era stato un errore chiedere alla nonna di prepararle qualche dolcetto per la festa di Halloween.
La nonna, certe modernità, non le capiva. Alla richiesta di Nina, aveva alzato appena la testa dal lavello, poi ce l'aveva rimessa dentro e aveva ripreso a strofinare una tazzina macchiata di caffè, con una pezza lisa. “No.”, aveva risposto a fior di labbra. Serrate. Nina era tornata a casa. Un motivo fischiettato tra i denti e un calcio ad un sasso per vedere dove andava a finire. “Sul ciglio della strada, nonna cambia idea, nel rigagnolo che ha creato la pioggia, nonna resta sulle sue posizioni.”, aveva scommesso con il sasso. Era un maschiaccio Nina. Pantaloni di fustagno a nascondere i polpacci torniti e un maglione a collo alto nel quale sprofondava il viso, a mo' di sciarpa, nelle giornate di nebbia solida. Il sasso era caduto sul ciglio della strada e Nina l'aveva raccolto. Era tornata indietro, a casa della nonna e l'aveva poggiato sul tavolo della cucina. “Il sasso dice che farai i dolcetti.”, aveva affermato Nina. “I sassi non parlano.”, aveva ribattuto la nonna, senza scomporsi. “Si capisce, nonna, che stai diventando sorda.”, aveva risposto Nina. Le mani sui fianchi e una spavalderia ostentata senza pudori. “Questo può anche essere, ma i sassi, con me, non hanno mai parlato. Neppure quando glielo chiesi, tanti anni fa.”, disse la nonna. “Questo è speciale.”, insistette Nina, decisa a ottenere i suoi dolcetti. Alla mamma, che lavorava come operaia e faceva i turni in fabbrica, non osava nemmeno domandare. Si vedeva che tornava a casa più morta che viva. I piedi stanchi che si trascinavano da una stanza all'altra per tirare su i letti alla meno peggio e le mani rosse che attaccavano mollette sullo stendibiancheria, senza il cervello. Quello era rimasto in fabbrica, attaccato alle macchine da cucire, al lavoro che il capo officina le aveva chiesto di sbrigare entro il giorno dopo. “E cosa avrebbe di tanto speciale questo sasso?”, aveva chiesto la nonna. “Guardalo!”, aveva temporeggiato Nina. La fandonia da imbastire per la nonna doveva architettarsela bene. “Non vedo niente.” “Stai a vedere che dobbiamo andare anche dall'oculista!”, aveva risposto Nina, impertinente. “Eh, sai, Nina, alla mia età, certi disturbi sono normali, purtroppo.” “Uffa!”, aveva sbuffato Nina. “Sarai pur stata una bambina anche tu!”, aveva sbottato, sconfitta. “Oh, sì! Certo! Ai miei tempi, però, alla festa dei morti, si andava solo al Cimitero.”
“I tempi cambiano.” Quella frase, Nina, l'aveva sentita dire dalla panettiera quando aveva venduto una zucca, ripiena di cioccolatini, ad una signora che aveva fatto la stessa osservazione della nonna.

La signora era rimasta senza parole, quindi quella frase doveva fare un certo effetto sugli adulti. “I tempi cambiano, Nina, hai ragione. Ai miei tempi i morti non si festeggiavano con dolcetti e zucche illuminate. Però c'è da dire che anche i sassi non parlavano. E questo è un grande cambiamento.” Nina si chiese se la nonna la stesse prendendo in giro, ma, per una volta, preferì tacere. “Avevo dieci anni. La guerra tuonava sulle nostre teste e quando suonava la sirena, il babbo ci faceva scendere in cantina, per ripararci dalle incursioni aeree. Mia madre si appuntava sotto il seno una bustina di stoffa con dentro i pochi risparmi e le fedi che, per miracolo, erano scampate alla famosa donazione alla patria. Io mi portavo sempre dietro la Ninetta e una coperta di lana.” “Chi...?” La nonna abbassò le palpebre e mi parlò con gli occhi della memoria. “La Ninetta era la mia bambola e... sì! Si chiamava proprio come te. Aveva uno sguardo triste perso nei minuscoli occhi grigi, la bocca piccola e il nasino appena accennato. Sulla testolina, aveva un bel caschetto di capelli biondi con una coroncina di fiori bianchi appuntati. Indossava una camiciola bianca leggera leggera e mutandine ricamate.” La nonna sospirò e si passò un mano sugli occhi umidi. “Faceva freddo laggiù. Vuoi per l'ambiente malsano, vuoi per la paura di finire schiacciati come i topi. Per quello che mi portavo la coperta di lana. Mi ci avvolgevo dentro con la Ninetta e la paura, piano piano, passava.” Nina ascoltava, in silenzio, mentre Milù, la gatta soriana dal pelo fulvo, miagolava in cerca di una mano disposta a far carezze. “Quel tardo pomeriggio di novembre, del due novembre, per la precisione ci trovavamo al Cimitero. Io e la mamma. E la Ninetta, avvolta in una sacca che mi aveva fatto la nonna e che io legavo attorno alla vita. All'improvviso la sirena aveva preso a suonare come una forsennata. Non avevamo molta strada da fare, ma bastavano poche decine di metri per morire sotto le bombe che cadevano dal cielo.” “E cosa avete fatto?”, aveva chiesto Nina con una certa apprensione. “La mamma mi strattonò dalla tomba del nonno su cui ero piegata a mettere un fiore. E mi fece correre, lungo le strade del Cimitero Monumentale. E' grande il Monumentale, sai?” Nina assentì con il capo. “Per una bambina è un labirinto infinito di tombe e lapidi. La mamma correva e mi trascinava. E io trascinavo la Ninetta che mi guardava con i suoi occhietti tristi da quel port-enfant improvvisato. E' l'ultimo ricordo che conservo di lei. Della mia unica bambola.” “Perché?” “Durante la corsa disperata al rifugio, la Ninetta scivolò fuori dalla sacca, ma io me ne accorsi solo una volta giunti a casa.” “E allora?” “Volevo uscire dalla cantina, ritornare al Cimitero, andare a cercare la Ninetta che era là fuori a patire un cielo di bombe e cattiveria umana, ma, come puoi ben immaginare, mia madre non me lo permise. Tornammo il giorno dopo, ma della Ninetta non c'era più alcuna traccia.” La nonna trasse nuovamente un lungo respiro. “E allora domandai ai sassi. Loro erano gli unici testimoni del mio passaggio. Ma non ottenni risposta. Lo chiesi ai sassi del Cimitero e ai sassi delle macerie che il nuovo bombardamento aveva prodotto. Ma non ci fu nemmeno un sasso che mi degnasse di una risposta. Finì la guerra. Gli americani ci portarono i viveri e regalarono ai piccini qualche giocattolo, ma io mi guardai bene dall'accettare bambole. Anch'io avevo la mia vittima di guerra da piangere, la mia Ninetta e nessuna altra bambola avrebbe potuto sostituirla.” La nonna mi fissò e per un attimo tacque. “Ora, perché il tuo sasso dovrebbe aver rotto il silenzio per dirmi una cosa tanto stupida?” Nina abbassò lo sguardo, imbarazzata, raccolse il sasso e, in silenzio, si avviò verso casa. Cosa ne poteva sapere lei di quella storia tanto triste? Con rabbia, scagliò il sasso oltre il ponte del Naviglio. Ma il sasso non finì in acqua. “Maleducati!”, disse la voce di una donna. Nina si coprì il volto con il collo del maglione e si sporse oltre il ponte. Una donna armeggiava intorno ad un banchetto pieno di cianfrusaglie e articoli di robivecchi: lampade in ferro battuto, porcellane e chincaglierie, centrini fatti a mano e qualche disco in vinile, forse 78 giri, oltre a stampe vecchie e cartoline. “Cosa le è successo?”, chiese Nina. Sfacciatamente bugiarda. “Qualche giovinastro si è divertito a tirare un sasso sul mio banchetto. Non faccio male a nessuno, io! Sono solo una povera vecchia. E per di più, il sasso ha colpito la mia bambola, l'unica che mi sia rimasta, ormai. Fortuna che non si è rovinata!” La curiosità spinse Nina ad avvicinarsi alla donna. Una bambolina con un caschetto di capelli biondo cenere, coi piedini paffuti e le dita delle mani un po' smangiucchiate, la fissava dal fondo dei suoi occhietti grigi. Nina indietreggiò, come se avesse avuto davanti un fantasma. La bambola sembrava proprio quella della descrizione della nonna! “E' in vendita questa bambola?” “Sì...”, “Purtroppo”, aggiunse la donna. “Quanto vuole?”, chiese Nina, frugando nei pantaloni. “Posso fare... venti euro.” “Ne ho solo quindici...”, disse Nina, vuotando le tasche sul banchetto. “Sarebbe per una bambina di tanti anni fa. L'ha perduta durante un bombardamento.” La donna si commosse. “E va bene!”, concesse. “Anche a me ha tenuto compagnia per molti anni. Chissà mai che sia la stessa bambola!” “Mia nonna l'aveva chiamata Ninetta. Proprio come me.” “E allora non far aspettare la nonna! Portale subito la sua Ninetta.” “Mi scusi, signora, ancora una cosa. Non è che mi darebbe anche il sasso che ha colpito la bambola?” La donna strabuzzò gli occhi. “Cosa te ne fai?”, chiese insospettita. “Voglio dimostrare a mia nonna che i sassi sanno parlare. E che il mio sasso è davvero speciale!” “Allora sei stata tu?”, la aggredì la donna. Nina arrossì e scappando con Ninetta tra le braccia, le urlò contro:
“E' una lunga storia!” La casa della nonna non distava molto dai Navigli e Nina si scapicollò per fare in fretta. L'uscio era aperto: la nonna era china sul gas e dal forno usciva lo squisito profumo dei suoi buonissimi biscotti allo zenzero. “Nonna!”, esclamò Nina, col fiato corto. “Ho deciso di accontentarti. I biscotti sono in forno.”, rispose la nonna senza voltarsi. “Nonna...”, insistette la bambina con la voce rotta dall'emozione. La nonna si girò di scatto. C'era Nina e c'era Ninetta: entrambe le tendevano le braccia. “Il sasso mi ha detto dove trovare la tua Ninetta. Mi devi credere, nonna!” Sulle guance della nonna rotolarono due grosse lacrime di commozione. “Certo che ti credo! I tempi cambiano e i sassi, per fortuna, si sono messi a parlare!”

SEGNALAZIONE DI MERITO POESIA A TEMA L’AMORE

CHE T’AMO

Che t'amo

lo sa il mare,

quando

alla riva

si offre

rimedio e conforto

al tuo piede stanco.

Che t'amo

lo sa il sasso,

su cui,

nel borgo antico,

hai posato il piede.

Felice

di camminarmi accanto.

Che t'amo

lo sa il mattino,

quando il fiato è avido

del sogno.

E tu non chiami più mamma.

Che t'amo

lo sa la sera,

quando il sole

fa all'amore col mare.

Che t'amo

la sa la notte

quando le stelle

si accendono.

Tutte.

Perché il cielo che ci sta sopra

è lo stesso.

Anche lontano.

Che t'amo

lo sa il mio passato

troppo prossimo

per non essere futuro.


POESIA A TEMA LIBERO

TORNA E RITORNA

E' caldo l'asfalto.

Persino nel porto battuto dal vento.

Siedi sulla bitta

e attendi.

L'onda benevola,

il mare che torna e ritorna

in un dolce amplesso.

E' una strana estate.

Questa.

Della vita.

Che non torna e ritorna.

Incroci le gambe

come quando eri un bambino

e attendi.

Tempo ce n'è.

Lo dice il pescatore

che si porta le rughe appresso. Come uno stendardo.

E attende.

Il mare propizio.

L'ora per uscire con la barca.

E riportare indietro

il mare

che torna e ritorna

in un dolce amplesso.

Scotta l'asfalto. E la bitta. E la tua voce,

che dice e non dice.

E attende.

Un'altra voce

che non torna, che non ritorna.

Si tende la cima.

Piange la sua nenia strozzata,

ma non conosce altra libertà

della schiavitù dell'ormeggio.

Mentre il mare

torna e ritorna

nel suo dolce amplesso.

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MICHELE FIORENZA (Castellamare G., TP)

II CLASS. RACCONTO GIALLO

DENTE PER DENTE

Il vecchio guardò le cime dei monti lontani, a est: era già l’alba, dopo una notte intensa, e da quella vetta l’inizio del giorno si annunciava col suo fascino sottile, quasi preludio a una nuova vita. Mentre si allontanava, si voltò a guardare quella coperta nuova che nascondeva un corpo immobile, e sentì che il suo vecchio cuore malato poteva finalmente acquietarsi, battere più lentamente, senza che scariche di adrenalina e di collera lo accelerassero e lo affaticassero. Erano stati necessari anni, prima di speranza, poi di attesa e preparazione, ma finalmente giustizia, quella vera, era fatta; e quell’energumeno non avrebbe più potuto nuocere, con le sue manacce. Risalì sulla Panda e si avviò per la stretta strada di montagna, scendendo a motore spento, per gravità: era restio ad accendere il motore. Forse inconsciamente temeva di essere udito da qualcuno, ma questo era assurdo, lì, a mille metri di quota, in quell’inizio d’autunno, a quell’ora. Probabilmente non si sentiva di violare quel silenzio arcano; ma alla prima curva dovette accendere. Avvertiva in sé una grande pace e un senso di refrigerio. Anzi sentì il bisogno di chiudere il finestrino e accendere il riscaldamento. La strada era piuttosto lunga e ancora buia, poi avrebbe riconsegnato l’automobile, e con i mezzi pubblici sarebbe rientrato al congresso, dal quale si era allontanato soltanto il pomeriggio precedente. Non avvertiva né sonno né stanchezza, forse perché aveva dormito qualche ora in auto, in attesa della sua preda. Quel fucile da caccia, che era stato di suo padre, gli era tornato comodo, a distanza di tanti anni. Era di ottima marca e gli dispiaceva disfarsene, ma quella era una rinuncia necessaria, nel timore che potessero risalire a lui. In realtà non credeva affatto a quella eventualità. Soltanto un investigatore da telefilm o da romanzo giallo sarebbe stato forse capace di metterlo in relazione col capolavoro che aveva realizzato, alla sua età! Per sicurezza quel pomeriggio al congresso avrebbe firmato il foglio di presenza giornaliera. Il suo cellulare era rimasto in camera, dopo una telefonata a casa. Ne avrebbe fatta un’altra appena arrivato, per rinforzare l’alibi. Si era tenuto appartato, durante il congresso, per passare inosservato, ma adesso avrebbe fatto domande e interventi e avrebbe socializzato con gli altri medici. Ricordava ancora il preciso colpo inferto alla mano destra del suo nemico, quando questi a sua volta stava per sparare alla sua prima preda giornaliera. Ricordava la meraviglia dell’altro quando gli si era avvicinato mascherato e armato, e quando lo aveva costretto a ingoiare quelle pillole, tremando come forse mai nella sua vita. - Mi stai avvelenando? Perché? – aveva chiesto terrorizzato. Ma le aveva ingoiate, temendo di essere finito con un colpo ravvicinato. Leo entrò in autostrada e accelerò notevolmente, per non porre altro tempo in mezzo alla completa acquisizione del suo alibi, del quale, era certo, non avrebbe comunque avuto alcun bisogno.
Il mio amico avvocato, nonché frequente intermediario per i miei incarichi professionali, mi ricevette poco dopo le nove di un mattino piovoso. - Come va, Eugenio? - Abbastanza bene, grazie. E tu? - Non mi lamento. Ho un incarico non facile, da affidarti. Dovresti rintracciare una persona che la polizia non è riuscita a trovare, in diciotto mesi.- Mio malgrado emisi un fischio: - Ormai sarà lontano migliaia di chilometri! - Non è detto, forse ormai sarà certo di essere al sicuro e magari si starà scoprendo. - Che cosa ha commesso? - Ha ferito la vittima mentre era a caccia, ma saprai tutto da lui, che aspettiamo a momenti. - Se la vittima è viva, non dovrebbe essere un caso difficile. A differenza di me, gli inquirenti non s’impegnano, perché percepiscono lo stipendio anche se non risolvono, o risolvono malamente, i casi.- La giovane collega dell’avvocato aprì la porta e annunciò il nuovo arrivato: un uomo alto e robusto di circa trentacinque anni. - Eugenio, ti presento il signor Guido Tedeschi.- Il nuovo venuto mi porse una sinistra impacciata. Osservai la destra e mi accorsi che era leggermente deformata, con la pelle deturpata. Dopo che il tizio si fu accomodato e mentre mi guardava con curiosità, Toti spiegò: - Il signor Tedeschi è stato vittima, un anno e mezzo fa, di un’aggressione, e vorrebbe che fosse trovato il colpevole e assicurato alla giustizia. Ho qui per te copia di tutti gli atti che riguardano, anche indirettamente, il caso. Lui stesso ti racconterà i particolari. - Ho perso l’uso della mano destra e ho perso anche il lavoro. Per questo voglio giustizia! - Era a caccia quel mattino? - Sì, come tutti i mercoledì di quel periodo, perché era il mio giorno libero. - Che lavoro faceva, signor Tedeschi? - Il buttafuori, in un locale notturno. - Allora le sarà accaduto di farsi dei nemici. E’ stato mai denunciato, diciamo per eccesso di zelo? - Tre volte, nell’arco di otto anni, ma alla fine sono stato sempre assolto. Veramente una volta ho patteggiato un mese, trasformato in pena pecuniaria. - Anche questo è nel carteggio. – precisò Toti. - Vorrei sapere anche quanto mi costerà. L’avvocato mi ha fatto un po’ spaventare. - Sa, io vivo di questo lavoro; poi ci sono le spese e devo anche ungere i funzionari per avere notizie riservate. Però ogni quindici giorni le farò una relazione dettagliata e lei può togliermi l’incarico quando vuole. In caso di successo mi accontenterò di un premio esiguo.- Accettò le mie condizioni, mi raccontò in breve l’accaduto, poi ci salutammo.
Ci volle un po’ di tempo per leggere tutto il carteggio. Dei tre casi giudiziari in cui era stato imputato di lesioni volontarie, uno era molto vecchio e banale, per avere attinenza con l’aggressione. Il secondo era quello concluso col patteggiamento: in quell’occasione c’era andato duro, il buttafuori, ma anche quel caso era un po’ stagionato. L’ultimo era troppo fresco, per i miei gusti. Una vendetta troppo rapida mette facilmente in relazione i due fatti: “la vendetta è un piatto che va consumato freddo”, dovrebbero saperlo tutti. Il caso principale lo riguardava in veste di vittima: Guido Tedeschi era stato ritrovato in cima a un monte, dove si era recato per cacciare, alle prime luci dell’alba. Verso le dieci del mattino era stato notato da due fungaioli, mentre dormiva sotto una coperta, accanto al suo fucile da caccia insanguinato. La polizia aveva poi scoperto che le sue mani erano ferite, la destra gravemente. Le indagini non avevano dato alcun esito, in quanto i suoi potenziali nemici avevano tutti un alibi. Inoltre non si trattava di omicidio, quindi né il questore né i giornali avevano fatto pressioni, dirette o indirette, sugli inquirenti, per risolvere presto il caso. Ero rimasto colpito dal fatto che, dopo il ferimento, Tedeschi fosse stato costretto dal suo aggressore a prendere un sonnifero. A che serviva? Evidentemente l’altro voleva allontanarsi con calma, evitando di legarlo per non macchiarsi di sangue, oltre che per evitare il rischio che morisse. Telefonai al buttafuori e gli posi sei o sette domande mirate. Tra l’altro risultò che si era addormentato subito, mentre alle dieci era già sveglio e lui stesso aveva chiamato aiuto, quando si era accorto che c’era gente nelle vicinanze: un sonnifero rapido, ma dall’effetto breve. Opera di un medico o di un farmacista, secondo me. Era il momento delle verifiche, e riesaminai con calma tutti e tre i casi precedenti, facendo attenzione se fra i testimoni ci fosse uno di quei professionisti. Nel secondo, e soltanto in quello, c’era un medico, il padre di …, che aveva testimoniato, in quanto quella notte aveva visto rientrare il figlio gonfio e sanguinante, dopo il pestaggio. Anch’io ero da alcuni anni padre, quindi non mi fu difficile immaginare la reazione emotiva del sig. … Rivissi tutte le sue emozioni, capii che si era fatto forza per non medicare subito il figlio, ma che lo aveva portato al pronto soccorso per prepararsi a una querela. Immaginai la delusione provata all’esito del processo, il potente impulso che gli aveva fatto desiderare di rovinare quelle mani che avevano colpito il figlio. Intuii i pedinamenti, i camuffamenti, i preparativi per la vendetta. Tedeschi non aveva saputo descrivere l’aggressore, tranne la presenza di un berretto, una mascherina da carnevale e un pizzo. Studiai con attenzione la pratica Tedeschi e gli accertamenti effettuati dopo la denuncia: tutti gli indiziati avevano un alibi, compreso il medico, che si trovava a parecchie centinaia di chilometri, a un congresso. Nessuno aveva il porto d’armi, nessuno andava a caccia. La lussuosa automobile del dottore non era stata prelevata dal parcheggio, i tabulati telefonici stabilivano che il suo cellulare non si era mosso dall’albergo e i fogli di presenza assicuravano la sua partecipazione al congresso; persino in televisione si era visto un suo intervento, nel pomeriggio del giorno dell’aggressione. Tuttavia non ero convinto, per via del sonnifero e anche per esclusione. Tentai d’immaginare che cosa avrei fatto al suo posto: un fucile a pallini si può avere in casa o in soffitta semplicemente perché utilizzato da un parente poi deceduto. Sapevo che in questi casi nessuno s’interessava di richiedere l’arma non più legittimamente detenuta, rimettendone l’onere agli eredi; ma sapevo anche che per pigrizia molti conservavano quelle armi finché non arrugginivano. Il medico poteva essere andato al congresso, da solo, poi il martedì pomeriggio si era allontanato con mezzi pubblici, aveva affittato un’autovettura e si era recato nella zona di caccia preferita dal Tedeschi, lo aveva atteso e al momento giusto gli aveva sparato, rendendo inutilizzabili contemporaneamente le sue mani e il suo fucile. Sotto la minaccia del proprio lo aveva costretto a prendere il sonnifero, coronando la vendetta con la paura del Tedeschi di avvelenarsi con le proprie mani. Appena la vittima si era addormentata, il medico era andato via alla chetichella, nascondendo alla buona, nel portabagagli, il proprio fucile e la mascherina, per gettarli poi altrove, separatamente (un fiume, un dirupo). Aveva riconsegnato l’auto, poi era rientrato in albergo, si era tolto il pizzo e si era recato al congresso, firmando la presenza al sorriso compiacente di una giovane hostess. Quindi aveva cominciato a fare frequenti interventi per farsi notare. Bene, ricostruzione perfetta, ma ci volevano prove, per guadagnarsi il meritato premio… Il punto centrale era la vettura: ci vuole una carta di credito, per prenderla in affitto. Telefonai a un collega che si occupava di quel tipo di accertamenti. - Dovresti controllare se un certo dottor Leonardo … il giorno 23 Settembre ha preso in affitto una macchina; controlla le tre o quattro compagnie più grosse. - Ti costerà cento pezzi a compagnia, più un sostanzioso premio se l’esito è positivo. - Ti darò cinquecento euro se l’esito è positivo, la metà se è negativo. - Soltanto perché sei un amico, accetto.- In attesa della risposta mi preparai con calma un cremoso caffè casalingo, pensando che in caso positivo avrei potuto accertare in dettaglio i comportamenti del dottore al congresso e anche informarmi meglio se aveva dormito lì ogni notte (le persone che rifanno le camere sono maestre nel capire ciò che è successo nelle stesse). Avevo appena bevuto una seconda tazza di caffè, guardando i nuvoloni grigi dalla finestra del soggiorno, quando il telefono squillò: - Se vuoi la risposta subito, mi devi sganciare seicento pezzi, altrimenti ti richiamo domani. - Sei un lestofante, ma bravino: accetto. - Ha preso una Panda all’aeroporto di … alle 18,30 e l’ha riportata il giorno dopo alle 12,45, dopo aver percorso cinquecentoventiquattro chilometri. Inoltre era piuttosto impolverata. - Ok, grazie, ti manderò il bonifico. - Grazie a te, e se hai ancora bisogno, getta un fischio e correrò ai tuoi piedi.- Rimaneva un accertamento importante da fare, quindi lasciai le ricerche di dettaglio a mia moglie Claretta e uscii. Mi fermò sull’uscio: - Voglio il trenta per cento.- Per quanto riguarda gli affari, siamo soltanto soci. Così le risposi: - Ti darò il venticinque e sto prendendo la tua Volkswagen: ci vediamo stasera.- Mi recai all’aeroporto indicatomi, azzerai il contachilometri parziale e presi la strada per monte …, il luogo del misfatto. Impiegai quattro ore e percorsi duecentosessantacinque chilometri, ma il posto descrittomi dall’ex buttafuori sembrava quello. Esaminai le fotografie della pratica, che confermarono la mia impressione. Avevo percorso tre chilometri in più, poco più dell’un per cento in più; ma era possibile che il dottore conoscesse meglio la strada, o che l’auto di mia moglie avesse le ruote un po’ sgonfie (le donne!). Al ritorno mi fermai al primo distributore a fare il pieno di benzina, per non sentir brontolare Claretta, e per controllare la pressione dei pneumatici. - Com’erano? - chiesi - Direi che avevano bisogno.- All’arrivo guardai il contachilometri: duecentosessanta. Complessivamente avevo percorso cinquecentoventicinque chilometri, appena uno in più della Panda affittata dal caro dottore. Questa poteva essere un’ottima testimonianza. Per completare l’opera chiesi un certificato di residenza del medico aggressore. Non fu molto facile ottenerlo e rimasi un po’ stupito del risultato, ma la vita è così, imprevedibile. Nello studio di Toti il mio cliente mi pagò senza batter ciglio. Mi diede anche il premio stabilito per aver individuato l’aggressore: - Per quanto riguarda il premio previsto per le prove che lo condanneranno, attenderò la prima udienza. Quando lei si presenterà a testimoniare, la pagherò con piacere, e sin da ora la ringrazio: lei è molto capace. - Non pensi a quel premio: ci rinuncio, perché il lavoro non è stato troppo faticoso. - Perché lei è bravo; ma si presenterà? - Se ci sarà un processo, non mancherà per me.- Guido uscì in strada felice. L’investigatore aveva intuito bene: non ci sarebbe stato alcun processo, perché non intendeva attendere tanto. Prese l’automobile e andò dritto all’indirizzo ricevuto, che gli era vagamente familiare. Parcheggiò all’inizio della strada, quindi inserì nella mano sinistra quell’aggeggio metallico e sopra calzò un guanto. Poi si avviò a piedi verso la fine della strada. “Non c’è numero civico, ma è l’ultimo cancello a destra” aveva detto l’investigatore, mentre l’avvocato lo guardava in maniera strana. Avrebbe bussato e con una scusa lo avrebbe fatto uscire sul marciapiedi. A quel punto botte, come quelle che aveva dato al figlio. E poi… poi eventualmente avrebbe patteggiato: la giustizia italiana vuole soltanto due cose, confessione e pentimento. Ma intanto… Era ormai il crepuscolo, perché non era ancora iniziata l’ora legale, però gli sembrava ugualmente di aver percorso qualche altra volta quella strada di periferia, così tranquilla, deserta e silenziosa. Notò in lontananza una grande villa alberata, ma c’era poca luce. Meglio. Percorse le ultime decine di metri sempre più perplesso, guardando quegli strani alberi, poi si fermò davanti a un sontuoso cancello sovrastato da un grande arco in cemento, sul quale, alla debole luce del giorno che finiva, riuscì a leggere…

“Cimitero comunale”!

Michele Fiorenza, n. 20.04.1948 a Palermo, residente a 91014 Castellammare G. (TP) via Duchessa 31,

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ASSUNTA FENOGLIO (Torino): tuttora impiegata come Commissario di Polizia Municipale presso la città di Torino, è sposata, madre e nonna di tre piccole pesti. Da tempo immemore coltiva la passione per la scrittura, ma si è sempre cimentata con la poesia e solo occasionalmente ha scritto racconti, raggiungendo risultati più che soddisfacenti. Negli ultimi mesi ha tentato, infine, la via delle favole e dei racconti per i piccini, stimolata dall'esperienza nuova e fantastica dell'essere nonna, grazie soprattutto all'ispirazione dettata dall'incontro quotidiano con l'ingenuità e la spontaneità dei bambini.

III CLASS. FAVOLA

IL MISTERO DEL DITO RUGOSO

Tempo fa, alla periferia di una piccola città, viveva Mariolino, un bimbo di tre anni molto grazioso che, timido e solitario, non riusciva a stringere amicizia con i suoi coetanei, sia a causa del lavoro dei genitori, che a causa della sua indole. La mamma cuciva e riparava abiti: un’attività tornata alla ribalta ora che la crisi economica avanzava e molti residenti del quartiere erano rimasti senza occupazione. Anche in casa di Mariolino non c’era di che scialare. Il papà rientrava sempre molto tardi la sera perché, pur di guadagnare qualcosa in più, si fermava volentieri per qualche straordinario nel cantiere edile presso cui lavorava e la mamma intanto, in casa, rammendava, stringeva, allargava abiti e gonne, imbastiva orli, sostituiva cerniere e, a volte, interrompendo tutto questo fervore, parlava al suo bimbo, intrattenendolo, così da farlo sentire meno solo. Mariolino apparentemente era sereno, ma gli sarebbe piaciuto andare ai giardini che vedeva dalla finestra per incontrare altri bimbi o anche solo per guardarli più da vicino e…forse chissà? qualcuno di loro gli avrebbe parlato e lo avrebbe invitato ad unirsi ai loro giochi. Egli sedeva tranquillo sul pavimento di casa, circondato da orsacchiotti, automobiline e libri e, inventando sempre nuove avventure, sognava gli incontri con i suoi coetanei. Un mattino però, mentre faceva correre il trenino, notò che il pollice della sua mano destra era tutto rugoso: lo avvicinò al viso, lo ispezionò attentamente, lo toccò, ma non riuscì a capirne la ragione. Gli sembrava il suo dito di sempre, eppure era così diverso, così bianco e ruvido, anche se non gli faceva male. Per non far preoccupare la mamma, sempre indaffarata, non le confidò il cambiamento che aveva notato e che un pochino lo impensieriva. A dire il vero, Mariolino aveva constatato che le rughe erano molto profonde di mattina mentre, dopo un po’ di tempo, andavano affievolendosi fino a scomparire del tutto. Questo non lo rassicurava completamente perché non gli era chiaro se la malattia fosse più grave della febbre che ogni tanto costringe a letto i bambini o se, come gli aveva spiegato la mamma quando lo zio Piero non era più venuto a trovarlo, avrebbe raggiunto anche lui gli angioletti come lo zio che, adesso, da lassù poteva vedere tutti, ma non poteva più essere visto. Insomma tutte le mattine, con un pizzico d’ansia, Mariolino ispezionava la sua manina e…il pollice era sempre rugoso! Il suo malessere però, ben presto, non passò inosservato all’occhio attento della mamma che, premurosa come sempre, gli chiese se ci fosse qualcosa che lo preoccupava. Il bimbo negò, ma di lì a qualche giorno, cominciò a svegliarsi la notte piangendo e in preda ad una paura sconosciuta. Certo, i suoi genitori correvano a consolarlo, ma il problema restava irrisolto e la mattina…il pollice aveva sempre quell’aspetto malaticcio! Sempre più spesso un fondo di tristezza velava gli occhi del nostro piccolo protagonista, così papà e mamma, parlando tra di loro una sera in cui Mariolino già dormiva, considerarono che un po’ di compagnia avrebbe fatto bene al loro bambino e decisero di provare a iscriverlo alla scuola materna. Sicuramente sarebbe stato un ulteriore sacrificio per la famiglia, ma forse avrebbe potuto rappresentare la soluzione giusta per il loro bimbo: contarono e ricontarono le spese e, infine, constatarono che con qualche accorgimento di quelli che solo le mamme, vere esperte di economia, sanno escogitare, si sarebbe riusciti a salvare il bilancio famigliare e ad iniziare la grande avventura dell’asilo. Rimaneva solo da consultare l’interessato per vedere che effetto gli avrebbe fatto la proposta. Il giorno successivo, durante la cena, il papà espresse a Mariolino l’idea che era stata pensata per lui e il piccolo, dapprima un po’ intimorito dalla novità, gli rivolse alcune timide domande poi, man mano, rasserenato dalle risposte ottenute, il suo entusiasmo cominciò a crescere e gli occhi presero a brillargli per l’emozione. Finalmente avrebbe potuto giocare con altri bimbi senza dover tornare in fretta a casa! Un po’ gli dispiaceva lasciare la mamma sola, ma lei lo rassicurò dicendogli che sarebbe stata contenta di saperlo al sicuro in classe e che lo avrebbe atteso all’uscita per ascoltare le avventure che lui avrebbe avuto da raccontarle. Mariolino iniziò quindi la sua nuova vita e già dal primo giorno di scuola si accorse che, appena alzato, il suo pollice non era più rugoso. La cosa lo sorprese un pochino, ma durante le ore trascorse con i suoi compagni, non badò più al suo dito. Il mattino successivo, scese veloce dal letto ed esaminò con cura la sua mano destra…il pollice era liscio e aveva un aspetto decisamente sano! E così fu per i giorni seguenti. Intanto, i genitori si accorsero che Mariolino era diventato estroverso: chiacchierava volentieri e amava raccontare gli avvenimenti che lo coinvolgevano, stringeva amicizia con tutti gli altri bambini e la sua timidezza era solo più un ricordo. Fu così che, dopo circa un mese, il nostro protagonista, decise di raccontare alla mamma, mentre questa lo accompagnava a scuola, il mistero che tanto lo aveva angustiato e di come fosse miracolosamente guarito dalla malattia. La mamma, che già si era accorta del fatto che il suo bambino succhiava il pollice nel sonno ed aveva compreso come questa abitudine fosse dovuta alla solitudine, abbracciò forte il suo piccolo e gli disse che era un po’ dispiaciuta che avesse dovuto portare un simile peso nel cuore, poi lo esortò a confidare sempre le pene e i dispiaceri che avrebbe potuto provare perché, anche se i genitori non sono dotati di poteri magici, cercano sempre di aiutare i figli a trovare la soluzione ai loro problemi e li affiancano per caricarsi i loro fardelli quando questi sono troppo pesanti per delle spalle ancora fragili. Mariolino si sentì al caldo, avvolto nell’amore dei suoi genitori e capì che più nessun “dito rugoso” gli avrebbe fatto paura.

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MASSIMO DE CIECHI (Bernate Ticino, MI): poeta e cantautore, classe 1965, coltiva sin dall’adolescenza la passione per la musica e la scrittura in versi, attività che svolge con costanza, durante il tempo libero, accanto al suo lavoro quotidiano di impiegato e ai suoi impegni famigliari. Alternanza e fusione di situazioni musicali e letterarie diventano negli anni la caratteristica peculiare del suo percorso artistico. Dopo le prime pubblicazioni poetiche giovanili, per lo più ad opera di giornali locali o inserite in brevi antologie, si propone musicalmente, nel 1986, con l’album “ Quando la vita è amore “, dieci brani a tematica religiosa di cui è autore e compositore. La prima vera opera in silloge, edita da Ibiskos Editrice di Antonietta Risolo, è del 2005. “Ritratti e tratteggi di improvvisi smarrimenti pendolari” - questo il titolo - rappresenta il primo tentativo di fissare i propri criteri compositivi, basati sulla ricerca di un linguaggio slegato dai tipici canoni metrici e orientato alla centralità di un verso sviluppato senza interpunzioni. La raccolta viene presentata alla Fiera Internazionale del Libro di Torino e alcune poesie vengono lette e interpretate alla Biennale di Verona tra le opere finaliste. Del 2007 è il nuovo progetto musicale “Questo strano viaggio”, tredici brani che spaziano dal folk-cantautoriale al pop-acustico e accompagnano l’ascoltatore in uno strano e affascinante viaggio di vita. La recente silloge, edita nel 2009 sempre da Ibiskos Editrice Risolo, “All’angolo nascosto del nostro silenzioso e dedicato incontro” è il nuovo approdo poetico dell’autore, che, fedele al percorso letterario intrapreso, arricchisce di immagini e situazioni emotive il proprio modo di scrivere e comunicare. L’opera ha già raccolto diversi consensi classificandosi al 1° Posto del Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Insieme nel mondo” città di Savona, al 3° Posto del Premio di Poesia Terzo Millennio di Roma, al 3° Posto del Concorso “pennacalamaio@zacem.it” di Savona, al 4° Posto del Premio Nazionale di Poesia Val di Magra di Aulla (MS), Finalista al Premio Nazionale di Poesia Borgo Ligure di La Spezia e ricevendo Menzione d’onore al Premio Nazionale di Poesia Narrativa e Vernacolo Roberto Magni di Rivalto (PI).

III CLASS
LIBRO EDITO DI POESIA “all’angolo nascosto del nostro silenzioso e dedicato incontro” IBISKOS EDITRICE RISOLO
Le seguenti liriche sono tratte dal libro premiato.

IMPOTENZA

Ti vedo piangere io che resto a vivere

Che resto la notte a contare i pensieri incollati al soffitto a disegnare nel buio bianchi dolori con gessi di bimbo

Mordi la vita accarezzata dal vento mentre risento tenermi sul braccio e assicurarmi seduto io sulla canna tu sulla sella

Tu ed io

Vene dello stesso sangue gocce dello stesso sudore brandelli della stessa eternità

IL SENSO

Dirti questa vita cosa sia è intento assai difficile per me

Guardo questo mondo con gli occhi di chi ha visto troppo poco per dire della terra e dei misteri che racchiude

Visi che ho incontrato dolori che il mio cuore hanno straziato gioie che ho sentito palpitare pagine del tempo

Un tempo fuoco una vita legno l’uno brucia i giorni e non resta che la brace cenere alla terra muta agli umori del vento

Dire pensare scrivere parole doni che la vita mi ha portato

E libertà

Libertà sapore fresco libertà sapore dolce libertà luce fioca libertà favola roca

Il mio cuore è motore instancabile di sogni fa sorgere passioni per divellere barriere

La ragione è gentil mano che accompagna che strade indica e sentieri da seguire e rupi da scalare

E tu anche tu un giorno scriverai parole raccoglierai tristezze e passi alterni

Anche tu dirai addio alla tua bambola di pezza chiuderai cassetti stringerai chiavi sul cuore

I sorrisi muteranno intensità mascherando l’espressione e i giorni svolgeranno in moto eguale

Nulla da spiegare nulla a prevedere passato è passato e futuro ci attende

E all’istante presente si fa girotondo per tornare in assenza di traccia o tesoro nascosto

Ed è tardi più tardi voltare lo sguardo

Scopriamo di un sogno rincorso per via e poi ritrovato soltanto in noi stessi nell’essere quello che siamo e nulla di più

Attendo una nube all’imbrunire per non concedere spazio al dolore

Vivo pellicole di film che mi è impossibile tagliare

Poco veramente poco riesco a sceneggiare

Resto a consolarmi tuttavia degli eventi straordinari che noi siamo

Giorni di routine storie mai perdute tra i solchi dell’età

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ILARIA CERRUTI (Savona): nata a Savona il 15 luglio 1993, qui vive con la sua famiglia. Frequenta il Liceo Classico G. Chiabrera. E' appassionata di pallavolo ed ha giocato a livelli agonistici fino alla scorsa stagione. E' anche appassionata di musica, ed ha imparato a suonare la chitarra da autodidatta. Ama leggere, uscire con gli amici e viaggiare. A scuola ama studiare i classici e la matematica; infatti ha partecipato con successo a qualche edizione delle Olimpiadi della matematica.

SEZIONE SCUOLE SUPERIORI

I CLASS. RACCONTO

UNA GIORNATA NEL MEDIOEVO
<< Carlo, puoi andare nel bosco a raccogliere alcune castagne? Servono alla mamma per fare la farina da scambiare con l’artigiano del paese, perché ha bisogno di un paio di giare per conservare il grano che abbiamo raccolto.>> << Va bene, papà.>> Vado a prendere due cestini e mi incammino sulla strada che porta al bosco. Preferirei che mio padre mi accompagnasse, ma so che non ha tempo: deve occuparsi dei nostri campi, che in questo periodo producono davvero poco, come d’altronde quelli di tutti gli altri contadini. Vorrei riuscire a trovare qualche castagna in più, delle bacche e qualche erba commestibili perché, in momenti di improduttività come questo, qualsiasi cosa si possa mettere sotto i denti è ben accetta, per integrare gli scarsi raccolti, che devono bastarci per mangiare e da scambiare con altri prodotti di prima necessità. La mia famiglia è molto povera: prima che io nascessi vivevano in città e mio padre faceva l’artigiano guadagnando discretamente, ma quando sono iniziate le invasioni, i barbari hanno bruciato la sua bottega e la sua casa, saccheggiandolo di ogni avere. Così, come molte altre persone, è stato costretto a trasferirsi in campagna insieme a mia madre ed abituarsi alla dura vita agreste. E’ da un paio d’ore che mi addentro sempre più nel bosco e sono riuscito a riempire un cesto di castagne; sono stato molto fortunato: con tutte le persone che battono questi sentieri è un’impresa riuscire a trovarne. Continuerò a cercare, sperando che la buona sorte non mi abbandoni proprio adesso. Ecco, là intravedo un mucchietto di castagne cadute a terra… ehi! Mi pare di sentire il galoppo di un cavallo! Sarà meglio che mi nasconda tra quei cespugli, non si sa mai. Speriamo che non mi veda! Ho molta paura. Chi sarà mai? Eccolo che arriva… Ma… è un cavaliere! Meno male, ora sono più tranquillo. Ops, ho rovesciato il mio cestino e le castagne stanno scivolando nella sua direzione! Adesso mi scopre! << Chi va là? C’è qualcuno dietro quei cespugli? Fatevi avanti, alzatevi! Altrimenti…>> e mentre lo dice sguaina la spada << …verrò a scovarvi io stesso con questa!>> Ho troppa paura, è meglio che mi alzi: se viene davvero sono nei guai. Mi alzo e per la paura mi inciampo e mi sbuccio gomiti e ginocchia. << Ahi! Che male!>> << Ah, sei solo un bambino! Scusami, ti avrò messo paura, ma sai di questi tempi… temevo di incontrare qualche bandito! Ne ho già incontrati molti durante il mio lungo viaggio, che ormai ogni rumore o movimento sospetto mi mette sul chi va là. Aspetta, ti do una mano a rialzarti e a raccogliere le castagne che ti sono cadute.>> e così dicendo scende da cavallo. Nel chinarsi a terra la sua armatura lucente brilla sotto i radi raggi di sole che filtrano tra i fitti rami degli alberi. Che bello sarebbe essere un cavaliere: forte e coraggioso, essere considerato un eroe e poter viaggiare all’avventura… che vita affascinante!

<< Sai, anche a me piacerebbe diventare un cavaliere. Come si fa?>> << Dunque, prima di tutto devi essere figlio cadetto di qualche nobile. Infatti solo al primogenito maschio vanno i possedimenti terrieri ed è l’unico figlio che può diventare feudatario. Agli altri maschi si prospetta un futuro religioso o da cavaliere>> << Oh, allora io non ho proprio possibilità: sono figlio di due contadini, purtroppo. Ma per favore, raccontami dell’investitura! Ne ho sentito parlare, ma non so di cosa si tratti.>> lo supplico. << E’ una solenne cerimonia con cui un giovane che ha assistito come scudiero un cavaliere, viene a sua volta nominato a cavaliere. Il giovane che giura fedeltà al signore e si impegna a combattere in suo nome in caso di necessità. Dopo questa promessa di fedeltà, il signore appoggia la sua spada sulla spada destra del ragazzo e lo nomina cavaliere. Si tratta di un impegno di grande responsabilità, bisogna anche vigilare sui feudi del signore in modo da mantenere l’ordine. Proprio per questo motivo ho intrapreso questo lungo e spossante viaggio, tra strade malridotte e ponti crollati, col pericolo dei malviventi sempre in agguato. Ho dovuto combattere contro di loro già diverse volte e ora sono proprio stanco. Devo trovare un posto dove mangiare qualcosa di caldo e riposare un po’. Mi puoi aiutare?>> << Ma certo! Puoi passare la notte a casa mia! Non abito molto lontano dal bosco e la mia mamma sarà ben felice di offrirti un piatto di zuppa. Sarà un grande onore averti come ospite. Dai, continua il tuo racconto, per piacere; stavi parlando delle strade. Sono davvero così mal tenute come dici?>> << Sali a cavallo e indicami la strada: così faremo prima.>> << Davvero posso?>> << Certo!>> Così gli indico la strada, saliamo sul cavallo, che si avvia al galoppo e il cavaliere riprende a narrare: << Sì, da quando è caduto l’impero romano in seguito alle invasioni barbariche nessuno si è più occupato di curare le strade, una volta così funzionali ai tempi del glorioso impero, così come anche ponti e acquedotti sono caduti in rovina. I viaggi si sono fatti davvero difficili e pericolosi. Ecco, siamo arrivati. Quella è casa tua, non è vero? Dove posso lasciare il cavallo?>> Nonostante le ristrettezze in cui viviamo, i miei genitori sono contenti di dividere un piatto di minestra con il cavaliere e di farsi raccontare le sue avventure. Ma è davvero stanco e il racconto non prosegue per molto. Peccato, non avremo più modo di ascoltarle, perché domani mattina all’alba dovrà partire per riprendere il suo viaggio. Stanco, vado a letto anche io, sognando sempre di diventare un giorno un valoroso cavaliere come lui e ripensando alla giornata più emozionante della mia vita.

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FABIANO BRACCINI (Milano): nato in Toscana, da tempo vive e opera a Milano. Cavaliere della Repubblica, è Senatore della italo-greca “Accademia dei Micenei di Belle Arti, Lettere e Scienze”, Membro della “Accademia dei Ritrovati” di Pistoia e di molti altri Enti Culturali e Sociali. È presente negli Albi dei Poeti italiani e in svariate Antologie e Riviste del settore. Suoi brani hanno conseguito negli anni numerose vittorie, attestati e premi in diversi e prestigiosi concorsi e manifestazioni I suoi libri di poesia “Un sentiero di spine e fiori” -7 ristampe- e “Un’emozione, un soffio, …un niente” (già alla seconda edizione) hanno riscosso e continuano a ottenere il favore della critica e un notevolissimo consenso di pubblico, così come le recenti composizioni presentate in vari consessi e pubblicate in più occasioni. “…L’apprezzamento e il successo accompagnano il progressivo affinamento di questo sensibile Autore –scrive il prof. P.L. Guardigli su “Vivere Milano” E.D.B. Edizioni- che riesce a sublimare i comuni sentimenti e gli stati d’animo più riposti, fino a tradurli nell’alto respiro lirico di quella ‘vera Poesia’ capace di suscitare profonda partecipazione emotiva e totale coinvolgimento.” Di imminente uscita la nuova raccolta “Come foglie e fronde siamo a ogni vento”.

I CLASS. POESIA A TEMA L’AMORE

QUANDO

Quando mi guardi

-e lo fai spesso come estasiata e persa-

sono viaggi che mai ho viaggiato,

melodie che non ho mai ascoltato,

immagini di neve rilucente al sole.

E sogni in ogni notte soavi da sognare.

Quando sciogli i capelli

-e lo fai con una grazia tua particolare-

sono ruscelli che scendono a valle,

brezze leggere a increspare il mare,

vele di seta dispiegate ai venti.

E corse frementi nella libertà dei prati.



Quando ti spogli per me

-e lo fai con tanta innocente sensualità-

sono papaveri e gigli allo sbocciare,

tigli nei viali profumati a primavera,

voli di rondoni a disegnare il cielo.

E arcobaleni di colore dopo i temporali.

Quando lentamente ti risvegli

-e lo fai abbracciata a me con tenerezza-

sono brividi di carezza delicati,

emozioni che sublimano in ricordi,

palpiti del cuore in trepidante attesa.

E tepore d’una fiamma accesa per la vita.

III CLASS. POESIA A TEMA LIBERO

DI UNA PRESENZA LE EFFIMERE TRACCE

Sul libro

ancora l’impressione delle dita

che lentamente sfogliano

le pagine

e la delicata immagine

del suo sguardo assorto

che su una frase

si sofferma più a lungo, raccolto.

Nel caffè della mattina

pare aggiungere

-con i soliti gesti misurati-

quel poco di zucchero che basta

e con soffio leggero

sembra poi

volerne stemperare il bollore.

Del contatto di labbra

rimane solo un’effimera traccia

sul margine della tazzina.

A ogni pur pallido raggio di sole

traspare nella stanza

la linea d’ombra del suo profilo

e le orme dei passi

sul velo di polvere del pavimento

illudono per un attimo

che sia soltanto provvisoria

la sua assenza.

LA BELLEZZA

E’ TURBAMENTO PROFONDO

(con gli occhi di Stendhal)

Estasiato

ti osservo assorto e smarrisco.

Perso come ape nel profumo dei fiori

mi pervado di te:

non oso toccarti tanto delicata sei

e non vorrei contaminare

quell’impalpabile velo di purezza

che dona al tuo viso

un ineffabile tratto di mistero.

Talvolta mi pare di scorgere perfino

un leggero muovere di labbra,

quasi nell’atto di proferir parola.

Di quando in quando

l’espressione maliziosa di un sorriso

appena accennato,

rivela un atteggiamento intrigante

che via via mi coinvolge,

mi fa partecipe e complice

dei tuoi segreti,

prigioniero di una strana malìa

a cui non so -né voglio- sfuggire.

Con desiderio, trepidazione,

e languore profondo,

nel silenzio di questa penombra

starei a guardarti incantato per ore,

per giorni, per anni.

Per il tempo forse della vita intera.

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SALVATORE AVELLINO (Foligno, PG): poeta, saggista e favolista, ha ottenuto molti premi e riconoscimenti in prestigiosi Concorsi nazionali e internazionali. Laureato in Economia e Commercio, dirigente dell’Amministrazione finanziaria in pensione, Cavaliere al merito della Repubblica Italiana, membro di prestigiose Accademie letterarie, ha pubblicato diverse raccolte di poesie. “‘O rusario è San Giuseppe” è uno dei suoi nobili volumi su tema religioso, gli altri due sono: “A via crucis” e “‘O rusario”.


III CLASS. RACCONTO CON “RICORDO D'INFANZIA”

II CLASS LIBRO EDITO DI POESIA “‘O RUSARIO E’ SAN GIUSEPPE”

LA FUGA IN EGITTO (tratto dal libro premiato)

Nel quarto mistero si contempla come San Giuseppe, informato da un Angelo che Erode cerca il Bambino per ucciderlo, fugge in Egitto con Gesù e sua Madre. “...Alzati, prendi con te il Bambino e sua Madre e fuggi in Egitto. Erode sta cercando il Bambino per ucciderlo... Giuseppe si alzò, di notte prese con sé il Bambino e sua Madre e si rifugiò in Egitto...” (Matteo 2, 13, 14)

Glorioso San Giuseppe, tu che hai conosciuto la durezza dell’esilio e che la pietà cristiana ti invoca come Protettore degli emigranti, infondi nel cuore di chi ospita la disponibilità a concedere asilo, ad accettare l’emigrante come fratello, a non far mancare la solidarietà affinché anche lui, memore, possa ringraziare la Divina Provvidenza.


Saputo o fatto purtentoso,

chiammaje e Re Magge Erode:

“Facìteme sapè addò sto ninno sta

pecchè pure io o voglio salutà”.

Ma chille facettero recchie da mercante!

Sapenno a nfamità e chillo Rre,

mannaje Dio na mmasciata a Peppe

e n’angelo de corza se partette.

“Pe’, scétate, vatténne, fuje,

spìcciate, piglie mamma e creatura

parte pe na terra cchiù sicura”.

E Peppe into a nuttata, de pressa,

ca sposa spaventata e o figlio,

a cavallo a nu ciuccio

in Egitto annascuso se ne jette.

‘O saje Giusè che me passa p’a capa?

Senza terra, casa, amice e patria

Fuste o primmo e chella gente

Ca ogge “CLANDESTINO”nuje chiammammo,

o, senza rispetto, “EXTRACOMUNITARIO”!

A storia è longa e sempe a stessa,

e allora? ... Lassamme sta

ca sule e Dio ce putimmo fidà.

Saputo il fatto miracoloso, / Erode convocò i Re Magi: / “Fatemi sapere dove questo Bimbo sta / perché anche io voglio salutarlo”. / Ma quelli fecero orecchie da mercante. / Conoscendo l’infamità di quel re / Dio mandò un messaggio a Giuseppe / e un Angelo di corsa si partì / “Giuseppe, svegliati, vattene, fuggi, / presto prendi mamma e bambino / e parti per una terra più sicura”. / E Giuseppe nella notte, in fretta / con la sposa spaventata e il figlio / a cavallo di un asino / in Egitto di nascosto se ne andò. / Lo sai Giuseppe cosa mi passa per la testa? / Senza terra, casa, amici e patria / fosti il primo di quella gente / che oggi “CLANDESTINO” noi chiamiamo / o, senza rispetto, “EXTRACOMUNITARIO”! / La storia è lunga e sempre la stessa, / e allora? ... Lasciamo

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ANTONIACASAGRANDE                                                                          

II CLASS. LIBRO EDITO

La scrittura di Antonia Casagrande riesce a rendere pulsante la storia e i personaggi inseriti nelle vicende del giovane protagonista, ne esalta la dimensione interiore, la genuinità, l’autenticità nel comportamento e nei sentimenti. La narrazione si alimenta delle esperienze esistenziali sempre raccontate con mano decisa e costantemente attenta a coglierne le sfumature, le sfaccettature, le contraddizioni, mai indugiando più del dovuto su determinate situazioni. Ne emerge l’estrema attenzione nel riportare le emozioni, l’evoluzione della sfera affettiva e sentimentale, le fragilità e le speranze, ampliando ancor più la visione e la capacità di “guardarsi dentro”.
MASSIMO BARILE
Capitolo 1

I primi anni della mia infanzia li ho trascorsi sereni, con due genitori ed un nonno adorabili, e tanti, tanti amici. Ricordo il periodo dell’asilo, la maestra che idolatravo, e tutte le mamme a cui mi ero affezionato e con cui condividevo le esperienze di gioco. La scuola materna era abbastanza distante da casa. Mamma mi metteva nello zainetto il pane con burro e marmellata e mi accompagnava alla fermata dello scuolabus.

Crebbi senza troppe privazioni. Papà faceva l’operaio e la sua retribuzione non era fra le più alte, non essendo specializzato, ma mamma provvedeva a far quadrare il bilancio con un’attività sartoriale. Aveva imparato a cucire dalla nonna e adesso quell’arte le era tornata utile per effettuare piccole riparazioni, tipo allungare gli orli delle gonne o stringere qualche vestito. Era conosciuta in tutto il paese come “la Sartina”, anche se a lei questo soprannome non piaceva e avrebbe voluto essere chiamata solo Serena. Abitavamo in un caseggiato a fianco della strada ferrata, ai limiti del paese. Di treni ne passavano pochi, quattro al giorno, tutti frequentati esclusivamente da pendolari. Di notte si poteva dormire tranquilli, il silenzio regnava assoluto. Come vi ho detto, non mi mancava nulla, o quasi. Quello che mi mancava, sapevo di non poterlo avere. Volevo un cane, lo desideravo con tutto me stesso, ma papà era inflessibile al riguardo: nessuna bestia in casa, nemmeno un pesce rosso. E non perché odiasse gli animali, tutt’altro. Non voleva legami, nulla che lo costringesse a rivedere i suoi piani, in particolar modo per quanto riguardava le ferie estive. Per lui erano una cosa irrinunciabile, dopo un anno di lavoro massacrante, e non voleva essere condizionato nei suoi spostamenti dalla presenza di un cane. Della pensione neanche a parlarne, troppo cara per le nostre finanze. Così, non avendo nessuno a cui lasciarlo, avremmo dovuto portarcelo appresso dappertutto, con tutti i disagi che questo comporta. Per noi infatti le ferie non significavano relax, ma ci piaceva viaggiare alla scoperta di mondi nuovi ed un animale avrebbe condizionato non di poco i nostri spostamenti. Mi ero rassegnato all’idea di farne a meno, finché un giorno accadde una cosa a dir poco…straordinaria. Papà era appena uscito dal lavoro e si stava recando alla fermata dell’autobus, che sopraggiungeva a velocità sostenuta. D’improvviso un terrier si piazzò nel mezzo della carreggiata; sarebbe stato sicuramente investito se mio padre, adottando una straordinaria prontezza di riflessi, non lo avesse afferrato e tolto dalla strada. Lo portò con sé in corriera, fino al capolinea dove io ero solito attenderlo, come ogni giorno. Quel mastodontico mezzo di trasporto che mi sfiorò, mi mise paura come sempre; poi si arrestò bruscamente, vicino al cartello indicatore. Il conducente, che era sempre lo stesso tutti i giorni, si divertiva a spaventarmi e rideva a crepapelle. Alle sei del pomeriggio il sole scottava ancora, in quel luglio caldo e afoso. Mio padre scese dal mezzo e mi corse incontro. Era grondante di sudore e la maglietta verde, tutta bagnata, lasciava scoperte due braccia muscolose ed irsute. Fra quelle braccia spuntava il muso spaventato del cucciolo: «L’ho trovato in mezzo all’asfalto bollente, se non ci fossi stato io probabilmente avrebbe fatto una brutta fine.» «Lo teniamo, papà?», fu la mia risposta immediata. Lui mi guardava e non sapeva cosa dire. «E vada, hai vinto tu», disse dopo qualche istante. Non se la sentiva di abbandonare quella bestiola, già abbastanza provata. «Trovagli un nome», mi disse. «Ti va Tobia?», risposi. «Se va bene a te , sì. Voglio che sia tu a sceglierlo.» Da quel giorno il cucciolo ed io diventammo inseparabili e lui fu il compagno silenzioso e fedele delle mie giornate.

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ANNA SANTARELLI è nata il 7 agosto 1966, è docente di scuola primaria e vive a Rieti. Ha insegnato per alcuni anni nelle scuole dell’infanzia e primarie, tra Lombardia e Lazio. Attualmente è utilizzata nell’amministrazione scolastica. Ha svolto negli anni scorsi attività di pubblicista; ama l’arte, il viaggio, inteso come esperienza dell’anima, e la scrittura nelle diverse forme. Dal 2006 ha partecipato a diversi concorsi letterari ed ha ottenuto significativi riconoscimenti. Nel 2008 ha pubblicato il primo libro di poesia: “Sulle Orme di Dio” – Edizioni Penna d’Autore, Torino.

III CLASS. POESIA A TEMA L’ARTE

I DUE SALTIMBANCHI

(Testo ispirato all’opera omonima di Pablo Picasso)

Gli sguardi persi

nel vuoto

dissolti

in un mondo di silenzi

ombre cupe

si affastellano……..

interrogativi amari

affiorano dal nulla

di un tempo sospeso.

Vicini eppur lontani

estranei

l’uno all’altra

il dramma del vivere

recitano

due saltimbanchi.

All’unisono cantano

la solitudine dell’anima

incerta e smarrita

lo stesso struggimento

svelano su questo

palcoscenico triste

- senza parole –

è il destino dell’uomo

in ogni tempo.

Teatro del dolore

stempera nel blu

gli affanni del mondo

custodisce nell’ombra

gli slanci del cuore.

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GIUSEPPINA ZUPI (Roma)

III CLASS. RACCOLTA DI RACCONTI INEDITI

OSCURI PRESAGI
Era una notte dell’agosto del’43, il cielo basso e lattiginoso era ovattato e privo di stelle. Il calore aveva assunto una consistenza solida, inglobando uomini, animali, terreni riarsi. L’afa pesava come un macigno
che impediva la normale espansione del respiro. Il Tenente Marchi era insonne, sia per la responsabilità dei trecento avieri, sia perché meditava con amarezza sulla precarietà dell’esistenza che poteva disgregarsi dopo un rombo di motori divenendo uno degli infiniti buchi neri del cosmo, parte del mistero dell’infinito.
Quella notte, contrariamente al solito, nessun ricognitore attraversava il cielo sovrastante l’aeroporto militare di Crotone. Una calma irreale impregnata di oscuri presagi dominava la base dell’aereonautica militare. Il tenente Marchi aveva come un presentimento che non gli consentiva di restare disteso e fermo dentro la sua branda. Si alzò, si diresse verso la sala radio e chiamò il Comando Generale di Bari. Comunicò che per tutto il giorno non si erano sentiti ricognitori nemici, forse stavano preparando un attacco militare contro l’aeroporto, forse era prudente spostarsi altrove. La risposta fu perentoria e metallica: “Tenente lasci perdere le fantasie, non ci sono segnalazioni di pericolo e gli ordini sono di resistere fino all’ultimo aviere. Ha capito bene?” Prima della risposta la comunicazione era già terminata. Mentre Marchi ritornava verso la sua branda, un aviere piccolino, biondino, pallido con l’aspetto da adolescente lo avvicinò: “Signor Tenente mi sono svegliato di soprassalto… ho sognato che veniva una delegazione del Comando Generale da Bari e chiedeva: “ Chi sono i superstiti?” Rispondevo: “Solo io” e loro: “Si tolga di torno non vede che è solo un cadavere” .”Un gruppetto di avieri bisbigliava sommessamente; uno di loro, vedendolo, alzò la voce di una tonalità e disse con forte inflessione sarda: ”Tenente escono sempre le stesse carte: la morte e la strada.”
“Ragazzi restate calmi gli ordini sono ordini”. Marchi si distese sulla brandina, troppo stretta, troppo corta; si calò il lenzuolo sugli occhi per nascondere la luce violetta e implacabile che proveniva dalle sirene spente.
In semidelirio di sonno, stanchezza e lucidità passò mentalmente in rassegna i ragazzi: in un diverso frangente potevano essere gli studenti di un liceo, poco più adulti dei suoi fratelli rimasti a casa. Avrebbero fatto qualsiasi cosa gli avesse chiesto, all’Accademia erano stati formati per questo….resistere fino all’ultimo aviere! Immaginò le loro vite spezzate e incompiute, provò rabbia pensando al nonsenso di ordini formali che mettevano a repentaglio la vita, seminando inutilmente dolore e lutto. Immaginò polverizzate le loro matricole, i registri con i loro nomi, sarebbero stati classificati sotto la dicitura periti e/o dispersi, nessuno avrebbe mai saputo quanti erano: tre, trenta o trecento. Non restava che aspettare. Spinto da una scossa di adrenalina incontenibile, sostenuto da una lucidità mai provata in vita sua, balzò dal letto, accese l’interruttore generale, diede l’ordine di staccare il telegrafo e il ponte radio, di caricare tutte le camionette disponibili, di svuotare completamente l’aeroporto, di riempire tutte le casse di armi, munizioni, documenti cifrati, apparecchi radio e partire entro due ore al massimo. Concluse dicendo: “Mi assumo personalmente ogni responsabilità di questa scelta.” Una colonna di trenta camionette stracolme di avieri, casse, zaini, materiali di ogni genere avanzava lentamente in direzione Isola Capo Rizzuto, attraversando immense distese agricole dove i pochi alberi avvolti dalla notte apparivano come scheletri che allungavano le loro ossa scarnificate verso l’infinito. Gli avieri osservavano attoniti il paesaggio lugubre, incapaci di formulare pensieri, come ombre che avevano già oltrepassato le soglie dell’esistenza. Striature arancioni iniziarono ad intervallare il buio, un refolo d’aria risvegliò i pensieri anestetizzati. In lontananza si scorgevano casupole, fienili sparsi e un campanile che interrompevano la pianura riarsa. In prossimità del campanile il Tenente Marchi ordinò l’alt alla colonna di camionette. Scese, scavalcò una siepe, bussò ad un convento. Dopo un tempo che agli avieri sembrò infinito tornò, ordinò di sistemarsi alla meglio in un campo prospiciente la chiesa e di riposare qualche ora. Il pomeriggio di quel giorno il Tenente venne chiamato per un colloquio riservato dal superiore dei frati, figura simile ad un eremita, pareva la raffigurazione di S: Girolamo: lunga barba bianca, occhi profondi e incavati, saio logoro e sberciato. L’aeroporto di Crotone, avvistato giorni addietro a causa della pista illuminata per un atterraggio di emergenza, era stato bombardato, completamente distrutto, cancellato dalla geografia militare. Molti piansero, il Tenente serrò la mascella e rimase pietrificato. Gli avieri marconisti crearono un collegamento tramite ponte radio con il comando generale di Bari. La voce metallica e gracchiante: “Tenente siamo stupiti di sentirla! Quanti i superstiti? Tutti. Si tenga a disposizione, non si allontani”.

………………..

Marchi insieme al giovane nipote, aprì la porta e fece accomodare con cortesia Donna Rosaria. Ogni volta che la vedeva provava una stretta al cuore e ritornava indietro in un tempo lontano, in una dimensione di malinconia sconfinata. I suoi occhi così azzurri erano gli stessi del figlio che Marchi, anche dopo aver rivisto ormai adulto, ricordava ancora come aviere: piccolino, biondino, pallido, con un aspetto da adolescente ma con un guizzo di vitalità nello sguardo capace di cambiare il corso del destino. Donna Rosaria era vestita di nero, con la crocchia di capelli argentati, trattenuti da forcine di osso, una ragnatela di rughe, illuminata da laghi azzurri. Era una creatura antica, una figura biblica incontaminata dal veloce scorrere della vita. Era venuta ad esprimere, in dialetto, con gli occhi, con la mimica tutta la sua gratitudine e riconoscenza. “ Se non fosse stato per voi non avrei il mio unico figlio e tutti i nipoti.” E con ironia aggiungeva: “Ora sono così vecchia che metto paura pure al Padreterno che non mi chiama e mi lascia come un rudere su questa terra.” Congedandosi Donna Rosaria porse a Marchi un involucro che conteneva due galline con le zampe unite da un elastico. Marchi disse: ”Portate le uova fresche ai vostri nipoti.” Poi velocemente aprì la porta e liberò per le scale i volatili, accertandosi, subito dopo, che fossero stati recuperati, cosa che avvenne. Il giovane ragazzo, con affetto disse: “ Forse dovevi accettare le galline di Donna Rosaria”.



GRAN FINALE

Il suo volto era una ragnatela di rughe nella quale si aprivano due profonde fessure grigio verde, talvolta accese da un sorriso largo che vagamente riconduceva ad una splendida ragazza di tanti anni addietro. La Signora Ersilia tra nuvole di fumo neutralizzate da condizionatori dall’aria glaciale e vassoi colmi di alcolici straripanti di cubetti di ghiaccio, leggeva le carte alle amiche, dissipando il velo del futuro.Con dita lunghe e sottili, appesantite da troppi e troppo grossi anelli, divideva il mazzo di carte in tre mazzetti che gettava sul tavolo verde e più volte ricomponeva, in un vortice istantaneo, nell’unico mazzo. A Roberto capitava, per motivi di lavoro, suo malgrado,di frequentare quel luccicante contenitore vuoto, per verificare gli umori, valutare le presenze significative, cogliere le nuove tendenze.

Aveva sviluppato, tuttavia, una sorta di immunità: riusciva a fluttuare nel marasma senza un coinvolgimento e con l’anima blindata a differenza di altri colleghi che, ingenuamente, si fingevano squali tra gli squali veri. Unica precauzione era l’astinenza periodica da quel pianeta dell’effimero. Si sentì chiamare con una voce delicata ma decisa:”Venga dottorino le leggo il futuro”. “Veramente non sono interessato alla cartomanzia”. “Non esiti, si avvicini, questa sera sento le carte reattive, non chieda nulla, parleranno loro”. “Non incroci le gambe, stia fermo e concentrato”. Re di spade, fante di coppe, cavallo di bastoni, quattro di spade. Ersilia svolgeva il rituale dei tre mazzetti e delle carte gettate sul tavolo. Queste carte erano uscite, tre volte consecutive, anche se in posizioni diverse, dai tre mazzetti gettati sul tappeto verde. Ersilia trascorse alcuni istanti in un silenzio totalizzante e immateriale. Sembrava che il suo spirito si fosse distaccato dal corpo per entrare nella dimensione della conoscenza. Poi tornò in sé.

Con fare sbrigativo disse: “Gliele leggerò un’altra volta, ora vedo confusione e negatività.”. Roberto di rimando: “E no cara Signora, mi ha provocato lei, ora abbia il coraggio di dirmi quello che ha visto.” “Ebbene come vuole. Dottorino il suo cuore verrà lacerato perché le strapperanno un bene molto prezioso. Starà a lei scegliere la strada giusta, quella che le darà pace e non quella del rancore, dell’odio e del dolore. Questo dicono le carte” ed Ersilia non parlò più. Roberto ebbe la sensazione che qualcosa scendesse dalla sua mano destra con la quale stringeva forte un bicchierino di cognac. Aprì lentamente le dita: il bicchiere era frantumato e la sua mano completamente ricoperta di sangue. Ebbe un brutto presentimento, improvvisamente sentì dolore. …………………………..

Roberto e Giulia si amavano da sempre. Roberto non ricordava neanche come e quando si erano conosciuti, ricordava solo che in un pomeriggio estivo, arroventato da un sole smagliante, era annegato nei suoi occhi nocciola scintillanti e affollati di pagliuzze d’oro. Quel ricordo lo accompagnò per tutta la vita. Tra loro bastava uno sguardo per comprendersi, entrare in sintonia e fondersi in un’entità unica. Erano amici, complici e appassionati. Roberto a volte temeva questa felicità, percepiva che…”gli dei ne provavano invidia”. E non solo loro. Ebbe una proposta di lavoro inaspettata: trascorrere alcuni mesi come inviato speciale in Kosovo. Giulia inizialmente ne provò dolore, non si erano mai separati in tutta la loro vita ma, non era offerta da poter rifiutare, in quanto avrebbe potuto cambiare loro la vita, come in effetti avvenne. Dopo un anno di lavoro e di lontananza Roberto rientrava. Andarono a prenderlo all’aereoporto di Ciampino Giulia e Andrea il suo migliore amico, il compagno delle partite di pallone, delle sfide, degli scherzi. Andrea, come sempre, era cordiale, estroverso brillante. Non rivelò nulla. Giulia, piangendo, gli disse che era finita. Aspettava un bambino da Andrea. Le pagliuzze d’oro erano scomparse per sempre dai suoi occhi nocciola coperti di lacrime. Roberto avrebbe voluto stramazzare al suolo, urlare, imprecare, distruggere tutto ma soprattutto avrebbe voluto dire:” Non importa, voglio te, voglio il bambino.” Tramortito, con la bocca riarsa, con il cuore che gli stava esplodendo nel petto, non riuscì ad emettere neppure un suono e, con la camicia madida di sudore, appiccicata addosso come una seconda pelle, silenziosamente, scomparve dalla loro vita. Trascorsi i primi tempi, uscì fuori la parte peggiore di Andrea, egoista e infantile. Con Giulia divenne prepotente e arrogante, la tradiva e umiliava in tutti i modi. Le addebitava, come unica colpevole, tutti i suoi errori. Aveva tradito l’amicizia e la fiducia di Roberto portandogli via, in un momento di debolezza, la donna per la quale avrebbe dato la vita ma questo gli aveva provocato tanta infelicità e tanta rabbia che riversava su di lei. Non era neppure in grado di apprezzare quello che comunque aveva non sapeva dare e non sapeva prendere, tra le sue mani, tutto si sgretolava distruggendosi. Roberto si chiedeva perché Giulia non andasse via, forse lo amava? Roberto si sentiva sempre più eroso da quell’immenso cancro che è il dolore. Talvolta l’amarezza era una marea che saliva, saliva sempre più fino a togliergli il fiato e a sfinirlo. “E’ troppo, è troppo, non ce la faccio”. A volte guardava Luigino, il figlio del panettiere sotto casa, un dolcissimo e affettuoso bambino dow dagli occhi azzurri. I suoi genitori non avevano certo chiesto al Padreterno di avere una creatura così “diversa”, forse quando l’aveva visto per la prima volta anche la sua mamma avrà pensato: “E’ troppo non ce la faccio” ma poi lo aveva accettato, accolto e amato immensamente. Questi pensieri gli regalavano delle pause di serenità. Gli anni trascorrevano, così come la vita di Roberto che raccoglieva soddisfazioni e successi professionali ma la sua anima era desertificata.

…………………..

Era una gelida domenica di novembre dal cielo cobalto, nell’aria si percepiva l’imminenza del prossimo Natale, magia di speranze e di promesse mai realizzate. Roberto rigirava tra le mani la busta bianca affrancata con posta prioritaria.

Non aveva ancora del tutto dimenticato quella calligrafia rotonda, piena, un po’ infantile. Da molto tempo ormai non provava emozioni, non conosceva più né gioia né dolore, la desertificazione lo proteggeva e gli consentiva di vivere.

Un breve biglietto nel quale Giulia gli comunicava che Andrea era gravemente ammalato, non gli restava molto tempo e aveva desiderio di vederlo. Roberto frantumò in mille pezzettini la lettera, aprì la finestra entrò una boccata di aria gelida e un forte vento risucchiò i frammenti di carta. Provò una sensazione liberatoria, gli sembrò di avere sparso e disperso per sempre le ceneri sue e di tutti quelli che aveva amato e che lo avevano tradito. Trascorsero alcuni mesi. Telegramma. “Non riesce a staccarsi da questa vita senza il tuo perdono. Giulia”. Roberto appallottolò il telegramma, pensando che il perdono doveva chiederlo al suo Dio perché umanamente vi sono piaghe che non rimarginano mai

……..

Il corpo aveva la consistenza della carta velina e l’inconfondibile pallore della morte, la mascherina verde dell’ossigeno si alzava e scendeva ritmicamente. Roberto prese tra le sue la mano di Andrea, chiuse gli occhi e in pochi attimi tornò indietro, in un tempo perduto, in un mondo lontano anni luce, dove rivide due ragazzi, due amici, rivide il compagno delle partite di pallone, delle sfide ,degli scherzi. La mano ormai priva di consistenza di Andrea, sprigionò una stretta dalla forza inspiegabile. Roberto percepì leggere goccioline d’acqua che scendevano nel blocco desertificato della sua anima e, mentre Giulia lo accompagnava alla porta, rivide le pagliuzze d’oro che affollavano i suoi occhi nocciola,

Scendendo velocemente le scale per non essere travolto da emozioni ormai dimenticate, sentì o gli sembrò di sentire la voce delicata ma decisa di Ersilia. “Dottore ha sprecato molto tempo e gran parte della sua vita ma finalmente ha scelto la strada giusta”.


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ENZO FORTINI (Fano, PU): “bolognese di nascita, -scrive di sé- laureato in Lettere classiche presso l’Università di Bologna ed insegnante di italiano e di latino al Liceo Classico di Cento, dopo i trent’anni mi sono trasferito nella vicina Ferrara, continuando ad insegnare materie letterarie in Istituti d’istruzione secondaria, per poi stabilirmi definitivamente nelle Marche settentrionali, e precisamente a Fano, passando dall’insegnamento alla presidenza in un Istituto magistrale, dove ho terminato la mia carriera scolastica. Ho assecondato fin dalla prima giovinezza una decisa propensione per la pagina scritta, che mi ha poi accompagnato per tutta la mia esistenza e che mi ha condotto in questi ultimi tempi a pubblicare una raccolta di racconti presso la Pendragon di Bologna, intitolata “Frammenti del passato” e legata alle mie prime esperienze di vita in una comunità agricola delle campagne bolognesi; ed ho ottenuto in seguito diversi riconoscimenti per opere a tutt’oggi inedite, tanto nel campo della prosa, quanto in quello della poesia e del teatro. Ho coltivato altresì, ad intermittenza, anche interessi d’altro genere, come il ripristino di biblioteche e di archivi pubblici e privati e ricerche su alcuni aspetti della vita sociale della mia terra d’origine, in parte pubblicati a livello locale.”

II CLASS. ROMANZO INEDITO

ARGUZIA DI PAESE

PARTE PRIMA

I

Che non pochi dei suoi compaesani fossero tanto superficiali e sprovveduti da essere presi sul serio, o magari troppo bricconi per meritare il suo rispetto, il vecchio cordiale ed arzillo, forte della sua implacabile arguzia, l’aveva sempre ritenuto, per la singolare facoltà di scoprire immancabilmente in coloro che avvicinava un risvolto comico, spesso mascherato in modo così maldestro da sconfinare nel grottesco e da scatenare la sua estrosa perspicacia. La sua tenace memoria era un inventario di figure comiche, di ogni età e di ogni estrazione sociale, sorprese dal suo acutissimo spirito di osservazione magari proprio quando ritenevano di stare sostenendo la loro parte con ogni merito, interpretandola con quell’ingenuo sussiego che tanto spesso prestava il fianco al suo giudizio ironico e

sorridente, assecondato dal suo occhio tanto attento da riuscire quasi infallibile. Era comunque una persona semplice e di buon cuore,capace di comprensione e di simpatia, che riversava con benevolenza cordiale sulle sue vittime più semplici ed ingenue, sapendo nascondere quella sua inclinazione sotto il volto impassibile ed astuto. Per il resto, malgrado i baffi vistosi, folti e candidi, non era in nulla diverso da tanti dei compaesani, nelle abitudini e nella condizione di piccolo possidente, che sapeva ricavare dal suo minuscolo appezzamento di terra quanto bastava a lui ed alla sua vecchia. Il modo di vestire era invece piuttosto trasandato, tanto che era diventato proverbiale per il suo inseparabile tabarro dalle larghe falde ormai sfilacciate. Passava accanto a tutti sul piccolo carro trainato dal suo asino, o a piedi, con l’immancabile carriola, sapendo sempre trovare per ognuno una battuta scherzosa o una parola d’incoraggiamento, con la più grande semplicità, disinvolto ed affabile al tempo stesso e sempre pronto ad assecondare la sua bonaria ironia. Non teneva in alcun conto le differenze sociali e si comportava verso tutti nella medesima maniera, dicendo che un uomo non cambiava sè stesso col mutar d’abito. Aveva frequentato per poco tempo la scuola imparando a far di conto ed a leggere e scrivere quel tanto che gli bastava, ma riteneva che esistesse, per chi sapeva leggerlo, un grande libro diverso dagli altri, sempre aperto e sempre disponibile, il libro della vita, che offriva la possibilità di conoscere e di valutare le cose meglio di qualsiasi libro scritto. E per questo guardava con sospetto e con noncuranza le facili ed astruse esibizioni di una cultura che non insegnasse a vivere. Cauto e prudente, preferiva ascoltare e fare domande, piuttosto che parlare di cose di cui non aveva buona conoscenza, ritenendo che molti diventassero sempre meno credibili quanto più si affannavano a parlare. Proprio per questo i suoi giudizi, precisi e taglienti, esposti, quando fossero richiesti, con assoluta chiarezza, lo facevano oggetto di ammirazione per molti e di apprensione e di sospetto per altri.

Malgrado tutto, però, preferiva evitare i contrasti con i pochi, ed adeguarsi alla vita della stragrande maggioranza della gente, di cui sentiva di far parte, ed amava quello che amavano tutti, godeva, accanto alla sua vecchia buona e mite, i piccoli piaceri di cui godevano tutti, non aveva aspirazioni che andassero oltre i confini del suo piccolo mondo, contento di sé e felice di appartenere ad una comunità in cui si trovava perfettamente a suo agio. Ascoltava con pazienza ed interesse le confidenze altrui, anche le più segrete, ma per conto suo, pur avendo avuto ed avendo ancora, come tutti, le sue pene, evitava di manifestarle agli altri, specialmente, come diceva, per non importunarli, perché se si fosse messo a parlare di sé, magari per sfogarsi, forse non avrebbe più finito di lamentarsi della sua sorte. Sentendosi talvolta ormai in qualche modo prigioniero di quella sua popolarità a buon mercato, mascherate accuratamente le sue opinioni sotto gli enormi baffi bianchi, andava in giro a regalare le sue battute scherzose a getto continuo, sapendo che la gente da lui non si aspettava altro. Esse, sempre improvvisate, passavano di bocca in bocca, diventando a volte quasi proverbiali. In realtà, fra quella gente semplice ed ingenua, si sentiva talvolta a disagio, e dubitava spesso che fosse veramente gran merito saper cogliere il lato caricaturale e divertente delle cose, quello che sfuggiva agli altri, forse perché, assorbiti completamente dai problemi di ogni giorno, erano portati a cercarne il lato serio e grave. E gli pareva di poter essere visto da loro quasi come uno sfaticato, sempre in giro fuori di casa appena gli fosse possibile, per quella sua benedetta necessità di vedere e di farsi vedere, di parlare e di ascoltare. Ma la spontanea simpatia di cui si vedeva sempre circondato lo gratificava e lo confortava, in quanto quel suo comportamento gli permetteva anche di dimenticare. Ma in altri casi quel suo estro,che obbediva solamente al suo istinto, sapeva condirsi di malizia e di ironia, quando qualcosa lo urtava e scatenava la sua ribellione: ed allora diveniva un’arma veramente acuminata. Si era trovato a sfoderarla in diverse occasioni, in passato, perché poteva sfogarvi in piena libertà tutta la sua rabbia repressa. L’aveva esercitato con sottile ostinazione quando, per oltre venti anni, aveva assistito al ridicolo dispiegarsi delle aspirazioni e degli entusiasmi frenetici di un manipolo di esaltati, nel ristretto campo d’azione cui le ridotte dimensioni del paese li costringevano.

Stava vendemmiando l’uva che ricavava dal suo campicello, accanto alla vecchia abitazione. L’aiutava un nipote, un giovanotto che gli si era affezionato e che egli trattava come un figlio – il suo gli era morto appena uscito dalla fanciullezza. Proveniva da un paese oltre il vicino fiume, e l’aiutava in ogni occorrenza, per la vinazione nella minuscola cantina, per la macellazione del maiale o per la mietitura. Chiacchierando con lui come sempre, gli stava parlando in quel momento di alcune sue vicissitudini del passato che l’avevano divertito ed amareggiato al tempo stesso, mentre stavano raccogliendo l’uva in alcuni panieri che poi il nipote andava a versare in un piccolo mastello nel cortile. Riusciva a confidarsi con lui con un abbandono di cui si stupiva, forse perché gli pareva di avere accanto il suo povero figliolo.

“Vedi quell’ometto che sta incitando il gruppo delle vendemmiatrici, e gesticola in continuazione?”, diceva al nipote indicando il grosso podere accanto al suo, oltre la siepe divisoria. “Era un piccolo gerarca del passato regime, uno che si vantava d’aver partecipato alla marcia su Roma, e che faceva pesare la sua presenza ovunque... Alla resa dei conti se l’è cavata con qualche paio di schiaffi e qualche buon rabbuffo,dopo essere rimasto, per diverso tempo, tappato in casa, quella lì che vedi in mezzo agli alberi. Io l’ho spiato diverse volte mentre percorreva furtivo, avanti e indietro, quasi a passo di corsa, il piccolo sentiero sotto la siepe divisoria. Che cosa gli è passato per la mente? Pensava forse alle marce forsennate di cui è sempre stato il protagonista?” Certa gente non ha proprio il senso del ridicolo... E sogghignava ironico e quasi cattivo sotto i suoi baffoni. Il nipote si era di nuovo allontanato con i panieri colmi d’uva, e, quando ritornò, egli riprese a parlare, stavolta quasi con animosità. Quel fortuito richiamo al passato l’aveva indotto a riandare nel ricordo alle occasioni in cui più lo avevano infastidito le esibizioni del suo vicino di casa.

“Era in una stupida ricorrenza annuale che faceva particolare sfoggio di tutta la sua ridicola vanità. Io mi trovavo sempre in prima fila, muto ed impassibile, ma col cuore in tempesta, divorato da un senso di rabbia e di fastidio al tempo stesso, che quasi mi impediva di cogliere il lato comico di una sceneggiata caotica e maldestra, che si ripeteva puntualmente, anno dopo anno, sempre identica. Il mio era lo sconforto che poteva covare dentro un incorreggibile idealista, un socialista vecchia maniera, sorpreso non tanto dal precipitare degli eventi, ma dalla incredibile stupidità di chi aveva avuto modo di intervenire per tempo, ad evitare il peggio, e non lo aveva fatto. Si intendeva celebrare, in quell’occasione, proprio l’anniversario della marcia su Roma, con una sfilata di cui non c’era traccia nei dintorni, da dove provenivano comunque diversi dei partecipanti, e che nemmeno l’autunno avanzato con le sue nebbie e le sue piogge aveva mai potuto ostacolare. Lo scopo in primo luogo era evidentemente quello di mettere ogni volta in bella mostra le tante benemerenze di chi ti indicavo poco fa. Davanti a tutti, egli ostentava sempre le sue vistose onorificenze, a testa alta ed a petto in fuori come si usava nelle grandi occasioni, col corteggio degli altri due eroi locali, un grasso barbiere ed un allampanato pecoraio, che a quella marcia giuravano di aver anch’essi partecipato di persona, anche se non si è mai potuto sapere con precisione a fare che cosa, e che ora si godevano un po’ spaesati ma soddisfatti la loro razione di applausi. Mettendo in mostra il loro non impeccabile passo romano, spettava a quei tre ogni volta l’onore di aprire la manifestazione. Era una caotica messinscena, dove ognuno recitava svogliato e per semplice disciplina di partito il suo ruolo, con uno zelo che tentava invano di celare la noia che traspariva dall’atteggiamento di tutti.” Tutto preso dall’argomento, nell’eccitazione, aveva quasi interrotto il suo lavoro, mentre il nipote lo seguiva visibilmente divertito e di tanto in tanto volgeva l’occhio a quell’ometto che ora gli sembrava così poco marziale, goffo e gonfio com’era, ma sempre intento a sbraitare. A sua volta, forse sospettando che si stesse parlando di lui, quello li osservava con insistenza. “Seguiva i tre eroi il manipolo dei veterani della primissima ora, che, come da copione, roteavano attorno gli occhi sbarrati con la ostentata durezza del loro onnipresente modello, mostrando a tutti un ceffo che aveva la fissità di una maschera. Tutti vantavano in giro prodezze tanto esagerate, da appartenere, almeno in buona misura, lo pensavano in molti, solo alla loro fervida immaginazione ed all’esigenza di giustificare in qualche modo i loro tanti privilegi.” A questo punto,sogghignando ancora, ricordava che agli applausi frenetici, più per obbligo che per scelta, dei presenti, egli rispondeva ogni volta estraendo il suo fazzolettone rosso e soffiandosi rumorosamente il naso. “Dopo di loro, sfilavano le massaie rurali. Non molte, ma una bella compagnia davvero! Sembrava che se ne andassero a spasso, con il vistoso grembiulone nero, e più che marciare stessero recandosi alla fiera. Ma tutto veniva loro perdonato, per la fede fanatica nell’idea, che portavano in giro con la faccia più provocatoria e petulante di questo mondo.” Continuando quella sua rievocazione, presentava ora al nipote la sfilata di coloro in cui erano riposte le speranze del regime, cioè gli avanguardisti e le giovani italiane. “Una speranza mal riposta. Fra quei baldi giovanotti, nelle loro

sgargianti uniformi, alcuni erano noti soltanto per le loro bravate, mentre le ragazzotte che li seguivano, poco portate per quella guerresca manifestazione, procedevano imbarazzate entro quelle loro divise troppo ruvide, con una gran voglia di finirla al più presto. Avessi visto poi che spettacolo, quando passavano, intruppati alla bell’e meglio e tenuti sotto stretto controllo dai loro preoccupatissimi maestri, i ragazzini delle scuole elementari, cui avevano appioppato il nome balordo di balilla. Si godevano beatamente quel giorno di vacanza e stavano volentieri al gioco, con l’espressione più divertita e scanzonata di questo mondo. Ma le scolarette, tenendo il broncio per l’emozione, guardavano davanti a sé con la fissità di tante bambole dagli occhi spalancati, senza muovere minimamente le testoline, per la soddisfazione delle loro zelantissime insegnanti. Anche i commenti degli spettatori erano invariabilmente gli stessi, come voleva il più finto e tedioso dei copioni, quasi fossero tramandati a memoria da un anno all’altro.” Il sole stava sfiorando ormai gli alberi, ma il loro lavoro era quasi terminato e il piccolo mastello sul cortile si presentava più colmo del solito. Il che lo metteva ancor più di buon umore. Aveva rivissuto alcuni momenti del suo passato con una evidenza che li aveva come trascinati nel presente. E si sorprendeva, sorridendone, a cercare con lo sguardo il suo vicino, sudato e scamiciato, quasi lo rivedesse ancora tronfio nella sua uniforme nera. “Chiudevano quella sfilata, che pareva ogni volta non dover finire mai, con i gagliardetti che sventolavano da ogni parte e gli inni, i soliti inni, intonati dalla banda e cantati a squarciagola, i figli della lupa, pensa un po’, e le loro piccolissime compagne. I bimbi dell’asilo, insomma, fino ai più piccoli, in continua lite fra di loro e più curiosi che sgomenti nel vedersi attorno tanta gente; e quelle adorabili e rosee bimbette,sempre pronte ad uscire dalla fila per riunirsi ai genitori, invano rincorse dalle loro malcapitate accompagnatrici d’occasione... Era a quei piccoli che ogni volta io auguravo un futuro migliore. Poi tutti ritornavano alle loro occupazioni, e per un anno di quella pagliacciata non si parlava più. Ma se ne scriveva sui giornalucoli locali, che finivano immancabilmente sui tavoli delle osterie, accolti dall’indifferenza generale.” I due stavano ormai rientrando in casa, soddisfatti del buon lavoro compiuto. Era l’ora di cena.

II

Quella notte non aveva quasi chiuso occhio. Cenando e, più tardi, uscendo sul cortile a godersi il fresco della sera, il nipote, quel ragazzo sveglio e curioso, gli aveva rivolto le più inaspettate domande su vicende che lo avevano appena sfiorato. E tutto questo aveva finito per coinvolgerlo in un doloroso ritorno alla fine tragica di quel periodo, fino ad immedesimarsi con i vari tristissimi momenti di quelle vicende, vissute da lui in prima persona. Passando nel dormiveglia da un avvenimento all’altro, aveva poi finito per soffermarsi sui loro ultimi sviluppi, che gli si presentavano ancora, ormai a distanza di qualche anno, nella loro cupa drammaticità. Le cose precipitarono senza rimedio per tutti, mentre quei protagonisti incontrastati della vita paesana, il cui ricordo gli aveva occupato l’intero pomeriggio, ed ai quali una guerra condotta sbagliando alleato e che andava di male in peggio non aveva tolto la voglia puntigliosa di continuare quelle loro isteriche celebrazioni di cose ormai prive di senso, sempre più squallide e disertate, ad un certo punto erano svaniti nel nulla, come il loro capo. Per poi ripresentarsi quasi d’incanto, e ritrovarsi subito in nuove angustie, lasciando le fiammanti camicie nere per indossare anonime uniformi militari, riciclati alla stessa maniera del loro disanimato condottiero, ricomparso come per miracolo. Smarriti ed increduli di fronte ad un tracollo che li aveva colti assolutamente di sorpresa, adesso erano riapparsi, uno dopo l’altro, anche gli eroi di un tempo; e fra di essi non aveva potuto mancare di ritrovarsi in prima fila il suo vicino, che, dopo averlo evitato in precedenza in tutte le maniere, per calcolo o per imbarazzo, era tornato ora alla sua antica arroganza nei suoi confronti, anche nel semplice scambio di un saluto. S’era messo a capo dei pochi che, contro ogni evidenza, avevano voluto illudersi ancora che il passato potesse ritornare, anche per vendicarsi delle sfrenate manifestazioni di gioia per la loro disfatta e delle irrisioni di cui eran stati fatti bersaglio. Egli li aveva seguiti con attenzione e con dispetto, e li aveva visti spadroneggiare di nuovo, boriosi e sconsiderati nei loro atteggiamenti provocatori, sotto l’onnipresente protezione dei tedeschi, da alleati divenuti loro padroni: come quando, fuori paese, quasi se ne vergognassero, avevano ridotto le loro trionfanti parate a sporadiche e stonate rievocazioni canore delle lugubri canzonacce del tempo del primo furore, che scatenavano in lui le antiche rabbie. Si rigirava ancora nel letto: i ricordi si presentavano alla sua memoria uno dopo l’altro come fitte dolorose che gli scuotevano i nervi. Aveva provato al contrario più disprezzo che rabbia per alcuni poveri diavoli finiti in quel drappello di illusi senza troppa convinzione, lasciandosi trascinare dalle circostanze, in preda ora ad angustie che non sarebbero stati più in grado di mascherare, prevedendo le conseguenze forse irreparabili della loro scelta inconsulta. Poi la forza inarrestabile degli eventi li aveva spazzati via tutti, senza scampo. Ora con il ricordo riandava al momento in cui eran stati costretti a fuggire alla spicciolata ed a nascondersi, sotto l’incalzare ormai incontrastato dei vincitori, nel pieno del turbinare del vento d’aprile, levatosi improvviso e violentissimo, a sollevare al suo passaggio nugoli di polvere che coprivano ad ondate successive tutta la campagna. Barricato nella sua cantina assieme alla moglie in pianto, sbirciando da una finestrella, aveva seguito quello scatenarsi degli elementi. Nella sua immaginazione quel vento che soffiava senza trovare ostacoli era il vento della libertà, che infuriava contro gli invasori, i veri invasori, in piena ritirata, a spazzarli via, sempre più lontano, scompaginando anche i rimasugli dei loro ridicoli alleati,ormai nascosti chissà dove, tremanti anche nei loro segreti nascondigli. Seguiva eccitato le folate impetuose che piegavano gli alberi davanti a lui, incurante degli ultimi feroci corpo a corpo, prima del totale sbandamento degli sconfitti,che il vento sembrò inseguire, per spegnersi poi improvviso com’era giunto. E si trovò lui, stavolta, a cantare a squarciagola. A questo punto si girò per l’ultima volta nel letto addormentandosi di colpo.


III

Sedeva ora sotto il pergolato di una osteria di campagna, che frequentava di tanto in tanto. Gli stava di fronte un amico che non aveva più rivisto da alcuni anni. Veniva dal vicino borgo, ma era dovuto emigrare per sfuggire a quelle che poi si sarebbero chiamate persecuzioni razziali, una delle tante follie del regime, che l’aveva irritato per la sua oltraggiosa ingiustizia. Appena ritornato, era stato lui a cercarlo, nella sua casa in campagna alle porte del paese, ricordandosi delle lunghe discussioni in una appartata osteria del borgo, a voce bassa, davanti ad una bottiglia. Aveva opinioni politiche non molto lontane dalle sue, anche se spesso eran giunti fra di loro fino all’aperto contrasto e ad alzare anche la voce, terminando sempre però con una risata pacificatrice e con un nuovo bicchiere di vino che si versavano vicendevolmente. Il pomeriggio precedente, seduto con lui nel cortile davanti a casa sua, l’aveva intrattenuto a lungo sull’avventurosa partenza e sulle non poche difficoltà che aveva dovuto affrontare per inserirsi in un ambiente al quale fin dall’inizio si era sentito estraneo. Com’era naturale tra amici che si erano appena ritrovati, avevano parlato delle cose che si sarebbero detti se quel lungo intervallo non li avesse tenuti inesorabilmente lontani l’uno dall’altro, delle tante delusioni e delle tante irritazioni patite, di quanto di rischioso avevano ambedue dovuto affrontare, congratulandosi a vicenda di aver potuto ritrovarsi. Ora egli desiderava che gli spiegasse come erano effettivamente trascorsi i tempi in cui era stato assente, isolato e senza notizie attendibili, sembrandogli che avessero lasciato strascichi, di cui notava gli effetti anche attorno a lui, nel borgo. E si erano accordati fin dal pomeriggio precedente per quell’incontro. “Il drappello di esaltati di cui ti dicevo ieri si è ancora una volta sciolto come neve al sole. Questo nelle campagne. Nel borgo le cose non sono andate molto diversamente, anche se, come avrai saputo, lì la resa dei conti è costata la vita a diversi. Da noi ci si è limitati invece a qualche rivalsa sporadica e senza conseguenze, come è avvenuto anche ad un mio vicino di casa. Dalla loro riapparizione alla definitiva scomparsa sono trascorsi quasi due anni. Una riapparizione rumorosa e provocatoria, ma passata fra la indifferenza generale. Sempre più avviliti per l’andamento catastrofico della guerra, si sono illusi di poter mascherare le loro crescenti preoccupazioni con la solita sciocca arroganza, ma, passando loro accanto, ho potuto cogliere, sui loro volti sempre più contratti, la consapevolezza di una rovina ormai inarrestabile. Gli altri, i partigiani, quelli veri, dei quali avrai senz’altro sentito parlare, qui da noi non si sono mai fatti vedere. Soltanto a guerra finita si son visti sfilare sulla piazza cortei a bandiere spiegate, dove figuravano in prima fila alcuni giovanotti del paese che fino a quel momento avevano sempre lavorato nei campi come tutti gli altri, e dormito nel proprio letto come tutti gli altri. Li seguivo con attenzione, conoscendo ognuno di loro di persona. Essi guardavano i pochi passanti con buffa spavalderia, con l’aria di attendersi di essere accolti come eroi, convinti evidentemente di

recitare la parte dei liberatori e di essere arrivati al momento opportuno per metter finalmente le cose a posto... Destinati anch’essi a passare, senza lasciare traccia alcuna.”

Attorno il silenzio era assoluto. Il sole sembrava indugiare, ancora abbastanza alto nel cielo. Ma si era levata una leggera brezza, che muoveva le foglie del pergolato e spirava gradevole a mitigare il caldo del primo pomeriggio.

“Nei mesi che hanno preceduto il passaggio del fronte la vita non è mutata gran che. La guerra si stava avvicinando sempre di più, e le case si riempivano di sfollati dalla città, ma fino all’ultimo, a parte i fascisti sempre più abbacchiati ed i pochi soldati della guarnigione tedesca, in realtà quasi tutti austriaci, boemi o polacchi, male armati ed ormai rassegnati al peggio,l’unica vera presenza della guerra, nella nostra plaga fuori mano, era un ricognitore che passava ogni notte sempre alla medesima ora, con una puntualità disarmante, come un guardiano notturno che svolgesse il suo compito orologio alla mano. Che andasse cercando in aperta campagna è difficile dirlo: probabilmente la sua missione era quella di tenere sotto controllo le grandi strade di comunicazione e gli scali ferroviari, passando sopra le nostre teste senza la minima intenzione ostile. Ma anche per la presenza di tanti sfollati dai nervi ancora scossi quell’innocuo ricognitore ed il suo sconosciuto pilota erano divenuti quasi un incubo. Veniva atteso con impazienza, ed al suo passaggio era cercato invano nel buio. Al suo avvicinarsi, con l’inconfondibile ronzio che riempiva il silenzio della notte, quasi per una tacita ma ferrea intesa cui davan voce allarmatissimi gli sfollati dalla città, ogni luce doveva venire frettolosamente spenta e quasi si evitava di parlare se non a bassa voce, come se un semplice lume di candela od un richiamo potessero attirare l’attenzione del pilota e provocare magari l’intervento di una squadriglia di bombardieri, per buttare all’aria, così, in aperta campagna, nel buio della notte, qualche fienile. Ti sembrerà impossibile, eppure quell’innocuo ricognitore ed il suo inconsapevole pilota spaventavano la gente più delle massicce formazioni di quadrimotori che passavano in pieno giorno, altissimi, col loro micidiale carico di morte. Quando il suo ronzio svaniva nella notte, devi credermi, tutti tiravano un sospiro di sollievo.” A questo punto, accortosi che la bottiglia era ormai vuota, chiamò l’oste che non si fece attendere e approfittò dell’occasione per portare qualcosa ad una giovane coppia che intanto si era seduta all’altro tavolo sotto il pergolato. C’era ancora tempo sufficiente, in quel bel pomeriggio autunnale, e si poteva dunque prolungare quell’incontro.

“Io mi chiedevo come avrebbe reagito quella gente così apprensiva quando la guerra fosse arrivata davvero. E quando è arrivata, è stato tutto un affannoso correre nei rifugi improvvisati, scavati da tempo in mezzo ai campi. Ma essa ci è passata sulla testa, velocissima, come se chi fuggiva e chi inseguiva si fossero ormai mescolati assieme. Così è passato il fronte qui da noi. Dopo, incontrandosi, era tutto un congratularsi a vicenda per averla scampata bella ed un rinchiudersi presto in casa, per evitare sorprese di qualsiasi genere. Non per tutti del resto le incognite potevano risolversi con il passaggio del fronte. C’era anzi chi cominciava proprio allora a trovarsi nei guai. Non potrai mai immaginare chi ho intravisto, fra gli altri... Non volevo credere ai miei occhi, ma si trattava proprio del mio vicino di casa, quello di cui ti ho già parlato ieri, che si attribuiva ad ogni occasione il vanto di aver partecipato alla marcia su Roma. Sostavo tranquillo nel cortile di casa, il mattino successivo, all’albeggiare, e fra gli arbusti della siepe divisoria l’ho intravisto procedere cauto fra gli alberi, per nascondersi alla vista e prendere poi la rincorsa per raggiungere al più presto la porta di casa, guardandosi attorno, con la barba lunga di una settimana. Non si era ancora sbarazzato di una sottana e di un fazzolettone di quelli che usano le vecchie donne per coprirsi il capo – in quei casi certe precauzioni non sono mai superflue - e, così conciato, aveva trascorso da eroe il pomeriggio precedente e tutta la notte nel suo robustissimo rifugio. Qui è dunque finita nel modo migliore, a parte il grande spavento provato da molti.



IV

La giovane coppia si era allontanata. Attorno, i lavori nei campi erano ormai cessati. Calava lenta la sera. Intanto avevano rumorosamente preso posto al tavolo vicino quattro giovanotti, braccianti dei dintorni, che avevan preso a brindare ironicamente all’indirizzo di alcuni possidenti della zona e che, intonando una popolare filastrocca, sull’aria di una canzonetta allora molto in voga, proclamavano con passione l’urgente intervento dei cosiddetti “capi del lavoro” del periodo. “Costoro stan forzando la mano alle loro guide politiche,” così dicendo gli si rivolse l’amico con un gesto di fastidio, “e rischiano di intorbidare troppo le acque, con il risultato che a pescare alla fine invece di loro potrebbero essere altri... Anche nel borgo l’aria è piena di questa sciocca nenia. Che cosa sta esattamente avvenendo?” “Una cosa che ha dell’incredibile... Gente come questa,” e accennava ai quattro nuovi arrivati, “non solo si vanta d’aver vinto la guerra, e magari qualcuno di costoro faceva parte del curioso corteo di cui ti dicevo, in realtà passando il tempo a zappare e a vangare; ma, sobillata da un istrione di un paese vicino, a cui l’idea della rivoluzione deve aver dato alla testa, coltiva il sogno più balzano che si possa immaginare.” Si lisciava i folti baffi, sogghignando. “C’è chi ha rischiato la vita per una rivoluzione, ma costoro intendono ottenere tutto non rischiando nulla.” Quell’inatteso e rumoroso intermezzo li aveva riportati alla realtà ed ai problemi del momento. “Dopo il voto ormai imminente, in queste che figureranno come le prime vere elezioni politiche dall’avvento del fascismo, e dopo la loro immancabile vittoria, come per un tocco di bacchetta magica, salteranno tutte le differenze sociali, palazzi e catapecchie si scambieranno gli occupanti, mentre i camicioni dei campagnoli rivestiranno chi fino ad ora è andato in giro in giacca e cravatta, e viceversa, naturalmente... Come se niente fosse... E sono tanto avventati da fare della loro congiura l’argomento che è sulla bocca di tutti. Cose che possono avvenire soltanto in questo nostro curioso paese. Senza contare che se lo sono ritagliati come fosse un coriandolo, isolandolo da tutto il resto, senza riflettere sul fatto che occorrerebbe almeno prendere in considerazione quel che nel frattempo può accadere attorno.”

I due decisero che era il momento di lasciare l’osteria sul carretto trainato dal suo asino. Volgevano attorno l’occhio a salutare i pochi passanti, ed intanto egli riprendeva, fra il sarcastico ed il divertito: “Pensa agli sberleffi senza fine sotto i quali finirà sepolta quella fazione di sconsiderati, ognuno dei quali si sta assegnando, con tanto anticipo fra l’altro, nientemeno che i palazzi e le terre dei ricchi della nostra zona. Come se potessero appropriarsene con un tocco di bacchetta magica. E giungono addirittura ad accapigliarsi fra di loro, mettendo reciprocamente in campo benemerenze di ogni genere, anche le più assurde. Tutto questo poi in piena campagna elettorale. Perché, fra l’altro, non c’è modo migliore per costringere anche i più riluttanti a coalizzarsi per ostacolarli, allarmati dalle possibili conseguenze di questo incredibile proposito. Come se una rivoluzione di questa portata si potesse realizzare a chiacchiere, essi, chissà perché, sono così sicuri della vittoria che non prendono nemmeno in considerazione la possibilità di fallire nel loro scopo. Ed intanto tutti, fra l’incredulo e l’allarmato, sanno ormai quale potrebbe diventare il nuovo volto del paese. Tu ti starai chiedendo che cosa ne pensano nei villaggi circostanti: in genere si è tanto lontani dal dare credito alla cosa, che i più la ritengono la trovata di un branco di burloni. Ma c’è anche chi non ha dimenticato che questo nostro è stato anche il paese delle ridicole parate di cui ti dicevo. Il paese dei castelli in aria, dove ci deve sempre essere qualcuno che perde il senso della misura.” Ci fu una pausa. L’amico si era fatto pensoso e sembrava inseguire qualche suo sgradevole ricordo. Egli invece indugiava ancora sul lato comico ed al tempo stesso assurdo di quella situazione. Eppure era portato a concludere che non avrebbe poi visto con dispiacere certuni gonfi di boria finire su un campo con una vanga in mano. E si spingeva fino ad immaginare il loro maldestro affannarsi e la gran brutta figura che non avrebbero potuto evitare. Passava proprio in quel momento davanti ad una di quelle palazzine sparse fra i campi, che facevano tanta gola. Vi abitava un poco di buono, che fra donne, gioco e grandi cene ci sarebbe arrivato prestissimo anche da solo a lasciarla ad altri, quella palazzina. Del resto, sempre per assurdo, gli sarebbe ugualmente piaciuto vedere certi contadinotti e certi braccianti andare in giro con vestiti di gran taglio addosso: con qual fare disinvolto era facile immaginarlo, così come si potevano facilmente prevedere gli effetti pratici sulla condotta degli affari lasciati alla loro incompetenza.

Il sole era vicino al tramonto. Fra non molto la campagna sarebbe lentamente sprofondata nell’oscurità e sarebbero apparse, ai piani bassi delle case, appena avvertibili, le prime luci. Si chiedeva ora chi fosse veramente disposto a prendere sul serio quella rumorosa ragazzata di un gruppo di acchiappanuvole, fra i compagni di partito. C’era di certo, fra di loro, chi nutriva profondi e lontani rancori tenacemente covati. Ne conosceva diversi e con alcuni aveva spesso lavorato. Ricordava ancora le minacce sibilate fra i denti all’indirizzo di qualche tronfio padrone, passando nei pressi di uno degli arcigni palazzotti costruiti in mezzo alle campagne, protetti da robuste cancellate e difesi da feroci cani da guardia. Paragonava quei sibili dolenti e soffocati, una segreta ma aperta sfida, lontani nel tempo e che sentiva ancora nell’orecchio, alle canzonacce urlate a squarciagola per le campagne da quegli sciocchi, molto più buffe che minacciose. Ormai superati dagli eventi ed isolati, essi, ascoltandole, scuotevano il capo delusi. Intervenne l’amico, per chiedergli se almeno ci fossero state delle resistenze nel partito contro quel balzano colpo di testa. “Non mi crederai, ma non pochi di essi si sono lasciati irretire da quelle allettanti prospettive che danzano come folletti davanti alla loro accesa immaginazione. E con incauto fervore parteggiano per quel manipolo avventuroso, sognando che dal polverone sollevato con tanto schiamazzo qualcosa possa venirne. Inutile dire che però si guardano bene dal muovere anche un sol dito. Accostandomi a certi crocchi all’osteria, dove il vino apre alle confidenze anche i più riluttanti, spesso ho colto, fra una partita di carte e l’altra, frasi appena abbozzate in mezzo a silenzi più eloquenti di ogni discorso: quei conciliaboli diventano però sempre meno reticenti quanto più ci si avvicina al gran giorno. E mi stupisco ogni volta che gente in fondo buona ed abbastanza ragionevole in condizioni normali, con cui mi sono tante volte piacevolmente intrattenuto, possa arrivare a nutrire sogni che farebbero invidia al più arrabbiato dei rivoluzionari. Alcuni, addirittura, li vedo poi aggirarsi sempre più chiusi in sé, fissi sui loro segreti propositi, e mi sembrano la caricatura di una setta di congiurati.” “E quegli infatuati aspiranti rivoluzionari si rendono almeno conto di essere mandati allo sbaraglio?” “Imbaldanziti da quegli appoggi indiretti ma non certo lesinati, ritenendosi gli eroi del momento, li vedo ancora aggirarsi per le campagne e, incontrandosi, scambiarsi eloquenti occhiate d’intesa, mangiandosi nel contempo con gli occhi,li vedessi, le più ambite prede, quelle che, come cosa già fatta, ritengono ormai loro proprietà, con la ridicola spavalderia di chi prende per rivoluzione una chiassosa bravata di contrada. E nemmeno sembra loro che sia il caso di cavillare sul fatto che i padroni, ed in generale i ricchi, per essere tali debbono per forza essere in pochi, anzi in pochissimi. Ma nel loro entusiasmo incontrollato si lasciano sfuggire anche altre cose che sarebbero di assoluta evidenza e delle quali, in condizioni diverse, anch’essi non potrebbero non rendersi conto: sono insomma in preda ad una solenne ubriacatura di idee male trasmesse e peggio assimilate.”

Si era alzato un gradevole venticello, in quella stagione solitamente vespertino, che attraversava radente l’aperta campagna muovendo appena ai bordi della strada i ciuffi d’erba ancor folti. “Ed alla casa del popolo che cosa se ne pensa?” “Non è che la frequenti tanto. Da qualche tempo anzi non vi metto più piede... Lì l’euforia regna sovrana e mi amareggia quel tripudio che per me non ha alcuna ragion d’essere. Ma vi passo davanti di proposito ogni giorno, col mio fare sornione: è aperta ad ogni ora, in un continuo andirivieni di iscritti, di simpatizzanti, di alleati compiacenti, di nuovi arrivati sempre diversi. Mi sembra di essere tornato ai giorni che son seguiti alla fine della guerra. E a volte, cercando di non dare troppo nell’occhio, mi soffermo per vedervi circolare, con la faccia tosta e con la immutabile baldanza di un tempo, quelli che vi sono stati furbescamente accolti per ingrossare le fila, senza guardare troppo per il sottile: uomini ed anche donne che tanto più calpestano il loro passato, quanto più hanno colpe da farsi perdonare, o accorrono dove appare più sicura la possibilità di spartirsi il bottino. Come se il partito, in questa circostanza straordinaria, senza guardar troppo per il sottile, si fosse trasformato in un munifico ente di beneficenza disposto a future elargizioni di ogni sorta per tutti. Una allegra spregiudicatezza, non so dirti fino a che punto calcolata, che, almeno in apparenza,non si cura più di tanto di certe iniziative isolate, che là dentro non sembrano preoccupare nessuno. Ogni giorno più vi colgo un’aria di sciocco e cieco ottimismo. Lì ogni forma di prudente attesa degli eventi viene ormai interpretata come una mancanza di fede nella vittoria sempre più vicina, e bollata come disfattismo. Ma mi ricordo che questa sicurezza senza ombra alcuna di dubbio l’avevo già conosciuta altre volte in passato ed ho anche appreso che essa usa giocare gran brutti scherzi, in particolare a chi vi si affida con tanta ingenuità. Perché l’eccesso di fiducia, come anche tu ben sai, induce inevitabilmente a chiudere gli occhi anche di fronte al pericolo più evidente. Mi rendo infatti conto ogni giorno più che quell’atteggiamento, per il quale non trovo una spiegazione, sta incredibilmente rendendo possibile quello che all’inizio, a buona ragione, mi era sembrato invece impossibile: e non soltanto per colpa di tutto quel fastidioso fracasso che riempie ancora le campagne e che a me sembra talvolta voluto addirittura da un qualche provocatore per mettere in allarme anche i più disattenti e pigri degli elettori...” Riprese, dopo un attimo di pausa, con un tono di voce che, dietro il sarcasmo, lasciava trasparire il disappunto. “Dall’altra parte infatti, dove tutto era sembrato fino a poco tempo fa perduto senza rimedio, quel polverone ha indotto e quasi costretto a coalizzarsi, in alleanze spesso forzate, tutti quelli che, a ragione o a torto, possono avere qualche motivo per temere quei propositi urlati ai quattro venti, che, nella loro stupida spavalderia, fanno intendere di voler colpire alla cieca cose ed idee, minacciando tutti.” Qui, dando di gomito all’amico, gli indicava con la mano, al centro del paese ormai vicino, la facciata un po’ tetra dell’ex casa del fascio, dove era issata la nuova bandiera. “Ma delle conseguenze che ne possono derivare,” aggiungeva, “anche se non sembra possibile, non si curano nemmeno coloro che pure ne avrebbero tutta la convenienza. Si ostinano al contrario a ritenere un inutile tentativo di avversari ridotti alla disperazione quegli incontri quasi furtivi nel silenzio di locali poco in vista, come anche le insolite visite, nelle ore meno frequentate, ai caseggiati più dispersi della campagna,o la presenza di sconosciuti che fanno tutto il possibile per passare inosservati. Son tutte cose di cui non possono non essere a conoscenza. Ma ritengono assolutamente scontato che, con i maldestri tentativi di mascherare le loro riunioni all’ombra del campanile e le insistenti visite dei loro attivisti nelle campagne, finiranno soltanto per aggiungere al danno le beffe. Non tutti fra di loro sono però dello stesso avviso: ma rappresentano una minoranza che oltretutto si lascia trascinare e non osa alzare la voce, rassegnata al peggio. Ne conosco diversi, tutti sinceramente legati al partito fin dal primo dopoguerra, ed alcuni si sono anche confidati con me... Nella speranza di aver torto, attendono impazienti ed al tempo stesso ansiosi l’avvicinarsi delle elezioni, sempre più preoccupati per quanto avviene sotto i loro occhi.” In quel momento stava seguendo con l’occhio qualcuno, fermo sulla porta di casa, che aveva tutta l’aria di essere sulle spine, borbottando contro un forestiero che circolava nei paraggi e passava di casa in casa, come avveniva ormai ogni giorno. Additò la scena all’amico, che intervenne dicendo, con un sorriso ironico sulle labbra: “Sembra allora che la favoletta della cicala e della formica, di cui ci hanno parlato a scuola, talvolta possa rasentare la realtà.” Ormai stavano raggiungendo le prime case del paese, che non avrebbero attraversato. Poco più avanti una deviazione li avrebbe condotti, su di una traccia sterrata, fino a casa. Il suo compagno di viaggio, evidentemente non abituato a quei lunghi tragitti su di un mezzo per lui insolito, in preda ad un momento di stanchezza, si stava assopendo. L’asino procedeva ora con estrema lentezza, e quasi con circospezione, come era solito fare in quel tratto di strada. Passava ora davanti ad un esiguo gruppo di case di una certa pretesa, ormai fuori del paese, abitate da piccoli commercianti e da qualche impiegato. Alle loro spalle si intravedeva, a poca distanza, un palazzo padronale.

Sogguardò appena in quella direzione. Non vi appariva alcun segno di vita. Sembrava abbandonato. ‘Lì per ora ci si barrica in casa,’ pensava intanto. ‘E’ gente come quella che vi abita che si sente più direttamente minacciata. Attendono le elezioni san solo loro con quanta ansia. Difficile vederli in giro, e quando lo fanno, con molta circospezione, salutano i passanti con inattesa cortesia. Alcuni salutano anche me, come non succedeva da tanto tempo. Questa loro improvvisa cordialità significa soltanto, come è già avvenuto, che si sentono in pericolo più di quanto non lascino apparire. E che si rendono conto che conviene loro cautelarsi, tendendo la mano e mettendo senza lesinare il fornitissimo portafogli a disposizione di tutti quelli che posson tornare loro utili, facendo buon viso a cattivo gioco. Li frequentano sempre più spesso alcuni con i quali fino a poco tempo fa hanno avuto ben poco in comune e che ora offrono un valido appoggio per toglierli dalle loro angustiose previsioni in cambio di quanto risulta sempre più indispensabile per le spese di ogni genere che qualcuno deve pure accollarsi.’

E conteggiava sulle dita con intenzione: ‘Gente che viene da fuori e soggiorna qui da tempo, manifesti che vanno in cerca di ogni spazio libero, volantini di propaganda spicciola sempre diversi, e quant’altro ancora. Facendo insomma tutto quanto è possibile per rendersi propizio il futuro e rovesciare una buona volta un pronostico che continua a dar loro torto... Stando le cose come stanno, possono esser certi di non fallire,’ e qui scuoteva il capo, ‘anche se più per dabbenaggine altrui che per meriti propri. E costoro potranno riprendere a spalancare finestre e balconi, più belli e spocchiosi di prima. Ed a presentarsi in pubblico dritti come fusi e di nuovo tronfi ed impettiti come se attorno a loro non esistesse nessuno degno di attenzione.’ Si lasciava ormai alle spalle il paese e si inoltrava di nuovo fra i campi.

L’asino, sentendo ormai vicina la stalla, aveva allungato il passo, ma anche lui avvertiva il bisogno della riposante quiete della casa. Stava oltrepassando il piccolo spaccio isolato, che serviva anche da ritrovo per quelli che abitavano come lui fuori del paese, per due chiacchiere scambiate fra un bicchiere e l’altro. Aveva preso da tempo l’abitudine di sostarvi, talvolta a lungo, per seguire le interminabili discussioni che vi si tenevano, complice il buon vino: al solito, castelli in aria, troppe parole e troppa inutile eccitazione. Non se l’era mai sentita di intervenire: in realtà si annoiava, sembrandogli che ci si limitasse a recitare un copione che non cambiava mai.

Erano finalmente giunti nel minuscolo cortile sul quale si affacciava, modesta, la sua casa, ormai avvolta nella penombra. La sua vecchia, come sempre, aveva già acceso la piccola lampada a petrolio in cucina, anche per rimediare all’incipiente cecità. L’avrebbe trovata sulla solita sedia, in paziente attesa. Questo contribuì a distrarlo dai suoi pensieri. Messo piede a terra, s’adoperò per liberare dai rozzi finimenti l’asino che già scalpitava, impaziente ed affamato. L’amico intanto, risvegliato dal torpore dal brusco arrestarsi del barroccio, gli si era avvicinato per ringraziarlo con calore del buon pomeriggio passato assieme; e con un frettoloso cenno di saluto, inforcata la bicicletta, si avviava già per raggiungere al più presto il borgo. Doveva ora affrettarsi a sistemare l’animale nella stalla, ed a rifornirlo di biada, povera bestia. Entrò finalmente in cucina. Su di un lato del tavolo, in bella mostra, figuravano due larghi fogli, l’uno stampato e l’altro battuto a macchina, con vistosi titoli chiaramente propagandistici. La moglie glieli aveva additati,chiarendo che a consegnarli era stato un giovanotto molto educato e gentile. Ne scorse le righe, diviso fra l’interesse ed il fastidio: gli passava sotto gli occhi, nel primo, in mezzo alle solite convenzionali frasi fatte con lo scopo di ingraziarsi l’elettore, l’invito pressante a non trascurare il diritto di ogni cittadino al voto. Il secondo, un attento resoconto della conferenza tenuta da un noto uomo politico venuto dalla città, l’aveva colpito per la sua durezza. Vi si parlava senza mezzi termini di “raggelante sentore di tirannia” e della “locale canagliesca rimasticatura di velleità rivoluzionarie ingiuriose quanto allarmanti”, frasi che avevano attirato tutta la sua attenzione. Prese fra le mani quei due fogli e, in un impeto d’ira, li stracciò. Dunque avevano cercato anche lui: era un gesto di sfida, o non era piuttosto una furbesca strizzatina d’occhi? Chi aveva progettato di fargli pervenire quell’avviso e quell’ammonimento provocatorio sapeva quel che faceva. Non poteva essersi trattato di un errore, e forse l’aveva seguito con ogni attenzione in quel suo presentarsi, apparentemente svagato e casuale com’era sua abitudine, nei luoghi e nelle circostanze più impensate. Qualsiasi cosa si pensasse di lui in quegli ambienti e per qualsiasi ragione comunque gli fossero stati fatti pervenire quei due fogli, egli si chiedeva, fra il divertito e l’irritato, se non fosse stato per caso ritenuto un loro simpatizzante. O scambiato addirittura per uno che, stanco di assistere impotente alle follie di quelli che tutti conoscevano come vicini alle sue idee politiche, con quella gran rabbia addosso non aveva potuto far altro che rispondervi con il suo sarcasmo e con la sua benedetta propensione all’ironia, pronta per ogni circostanza e sempre in agguato, e destinata inevitabilmente a finire sulla bocca di tutti, al punto di farlo ritenere addirittura un rinnegato. Per tutta la serata non l’abbandonò un diffuso senso di disappunto e come un turbamento, che non prometteva nulla di buono.

Buona parte di quella notte la trascorse in un interminabile dormiveglia, assalito da ricordi in cui si riaffacciavano le emozioni del lungo pomeriggio passato all’osteria, in aperta campagna, e le appassionate discussioni che l’avevano accompagnato durante il rientro. Essi si accavallavano, nella sua mente, senza ordine alcuno, saldandosi con particolari momenti del suo passato a cui li collegava la memoria, mentre egli continuava a rigirarsi nel letto. Era come se la sua camera angusta si andasse via via riempiendo di ombre, che si inseguivano e si sostituivano di continuo, a gruppi o alla spicciolata, come giocassero fra di loro a rimpiattino. E quando prese sonno, ecco cortei senza fine sfociati in parole senza fine,o interminabili parate finite in velleitarie ed inutili rivincite; o anche enfatici propositi di rivalsa proletaria, dettati dal vino nel frastuono dell’osteria; o la gelida voce di uno sconosciuto, che, con frasi spezzate, in un silenzio assoluto, parlava, calcando con intenzione sulle parole, di tirannia e di velleità rivoluzionarie in agguato. E lui, in ogni occasione, costretto ad assistere come spettatore, a malapena tollerato, con la voce che gli moriva in gola per la oscura consapevolezza della inutilità di ogni suo intervento. Poi la scena cambiò di colpo: ed ora gli pareva di ritrovarsi in un ambiente del tutto sconosciuto, il giorno successivo alle elezioni, fissato con insistenza nella semioscurità da occhi ostili,mentre qualcuno, puntandogli contro il dito quasi a minacciarlo, gli intimava di confessare di esser lui il responsabile della sconfitta. Ed egli replicava, con una eloquenza di cui era sbalordito lui stesso, abbandonandosi ad una lunga ed appassionata difesa del proprio operato, avendo in ogni occasione trovato davanti a sé un muro di diffidenza e di sospetto, scambiato per un perdigiorno in vena di battute troppo sincere da chi faceva della reticenza e dell’ambiguità la regola della propria condotta. Messo in disparte e tenuto lontano, egli aveva salvaguardato la propria libertà d’opinione colorendola semmai degli umori e delle parole che gli venivano di volta in volta più naturali e spontanee, non potendo evitare di fronte a se stesso di opporsi ad ogni specie di stupidità e di fanatismo, da qualsiasi parte essa provenisse. Addolorato per la inevitabile sconfitta, ma contento al tempo stesso di aver saputo evitare di lasciarsi coinvolgere nell’ostinazione negli errori che l’avevano provocata. A quelle sue ultime parole seguì inaspettato uno scrosciante applauso. Si svegliò quando la prima incerta luce iniziava a filtrare dalle imposte, sollevato come da un peso che si portava dentro da tanto tempo, quasi fosse stata la sua coscienza a liberarlo da ogni accusa, e si riaddormentò di colpo.

E venne il giorno del voto. Uscito dal seggio, si mise a tener d’occhio i capannelli che si formavano nei pressi ed il movimento frenetico che accompagnava di tanto in tanto l’arrivo di qualcuno, incaricato evidentemente di raccogliere in qualche modo informazioni sull’andamento dello spoglio delle schede. Ebbe presto l’impressione dell’esattezza delle sue previsioni. Ora gli passavano accanto allibiti, frementi, incapaci di accettare quanto stava distruggendo tutti i loro sogni,molti di quelli che troppo presto avevan cantato vittoria. Andavano in cerca di una risposta alla loro disperazione... Avrebbero sentito parlare di una congiura della reazione e di chissà quali manomissioni nel conteggio dei voti. Per conto suo lo indispettiva il fatto che ci si fosse dati tanto da fare per renderla più efficiente e determinata quella reazione, che ora poteva cantar vittoria, con un successo di tali dimensioni da lasciare increduli anche i più ottimisti. Le finestre della sede del partito vennero all’improvviso sbarrate ermeticamente.

Il mattino dopo, mentre la vita tendeva a riprendere il suo andamento normale, e solo gli sconfitti continuavano a mordersi le mani e a dannarsi l’anima, avrebbe voluto andare attorno con la sua brava carriola e un gran sacco: e a chi gliene avesse chiesto la ragione,avrebbe risposto che andava in giro a raccogliere i “magoni”, cioè i frantumi di quelle tante illusioni svanite nel nulla. Ma non ne ebbe il cuore.



V

Era da qualche tempo seduto ancora una volta al tavolo consueto, sistemato sotto l’ampio pergolato, sul fondo del quale si apriva la porta dell’osteria di campagna. All’interno, nella penombra, sulla nuda e scabra parete, si intravedevano ancora le lunghe file di bottiglie allineate sugli scaffali in legno grezzo,mentre attorno si spandeva gradevole un intenso odor di vino. Nulla vi era cambiato. Sulla traccia erbosa, che fiancheggiava il caseggiato, era fermo il barroccio, tirato dal suo vecchio asinello, che alzava ed abbassava alternativamente la testa e tendeva l’orecchio ad ogni rumore, in paziente attesa che il padrone lasciasse il pergolato e gli si avvicinasse. Vi sostava ormai di frequente, nei luminosi e tiepidi pomeriggi di quel settembre da ricordare, senza una sola nube in cielo, da quando aveva per sempre lasciato l’osteria di paese, quella che era stata per tanto tempo la sua osteria, dove eran cambiati quasi tutti gli avventori. Quando ancora la frequentava, essa gli era sembrata ogni volta sempre più irriconoscibile: per le nuove esigenze, era stata smontata e buttata via la grande lampada a petrolio, che aveva regalato per tanti anni, in quell’ambiente stipato, la sua rossa fiamma che nelle lunghe serate d’inverno ondeggiava coi suoi curiosi giochi di luci e di ombre sulle ampie e nude pareti. Ora la sostituivano alcune pallide lampade al neon, fissate al soffitto imbiancato, e si era fatto spazio anche ad una enorme macchina per il caffè sempre in funzione, che troneggiava al centro del locale, ampliato e con le pareti verniciate a nuovo. Il vino era stato relegato in un canto, e sugli scaffali rifatti facevano ora bella mostra di sé bottigliette di liquori aromatici dalle forme più impensate o curiose bevande in recipienti di plastica. I nuovi tavolini rotondi, in ferro battuto, ostentavano bicchieri a calice sopra candide tovaglie. Insomma, anche la sua vecchia osteria, adeguandosi ai tempi, si era trasformata in un bar. Egli stava fissando, davanti a sé, sul filo dell’orizzonte, il paesaggio ormai tanto diverso, con le fitte piantagioni intensive di alberi da frutto, e, sul fondo, fra le case del paese, la mole lucida e massiccia del nuovo mulino. A poca distanza si elevava un primo vasto caseggiato a più piani, seminascosto dietro la familiare e snella sagoma del campanile. Più lontano, si intravedevano, fra gli alberi, le torri e le cuspidi del borgo.

Era arrivato, in pochi anni, il benessere; e, in alcuni casi, anche la ricchezza. Gruppi di case sorti dal nulla, ormai assediati dalla densa e compatta macchia verde dei frutteti, si allineavano sempre più fitti sui rettifili che contornavano il paese, collegati fra di loro da alcuni tratti asfaltati e da viottoli dal fondo completamente rinnovato. L’area su cui sostava in quel momento, una sorta di cintura esterna, era invece ancora coltivata a grano ed a canapa, e percorsa da filari di vecchi olmi a sostegno dei viticci. Scarse di numero e sepolte fra i campi le abitazioni, alcune semiabbandonate. Seguiva attento, in direzione della vicina grande strada asfaltata che collegava fra di loro i più importanti borghi dei dintorni, il rombo smorzato delle automobili che vi transitavano. Sul tavolino quadrato, di rozzo legno di noce, c’era una bottiglia semivuota con due bicchieri rotondi, di quelli di sempre. Gli aveva tenuto compagnia un vecchio amico, che si era allontanato da poco. Ma si era trattato di un addio. Sempre assieme fin dalla lontana giovinezza, eran diventati famosi a quei tempi per i loro scherzi a getto continuo dettati da un incontenibile buonumore. Con i giovani della loro età usavano visitare in animatissimi incontri le più rinomate osterie del borgo, quando glielo permettesse il lavoro e magari anche il denaro, non tirandosi mai da parte davanti agli invitanti orcioli deposti in bella mostra sul grande tavolo centrale.

Il periodo successivo, lungo e tormentato, che aveva a più riprese sconvolto la vita un po’ a tutti, li aveva poi divisi. Per l’ingenuo ed incauto comportamento, il suo amico ne era uscito con le ossa rotte, ed era ancora malvisto da molti. E proprio di quelle sue travagliate vicende gli aveva parlato a lungo, evidentemente per cercarvi uno sfogo, ora che si erano finalmente ritrovati. Con lui poteva confidarsi a cuor leggero. Nel suo eloquio immaginoso e pittoresco di sempre, le paragonava a quella maledetta nuvolaglia, che, nel pieno dell’estate, scende talora fin quasi a rasentare gli alberi, grigia ed opaca, e s’addensa immobile ed incombente sulle cose per interminabili giornate. E quando finalmente s’allontana, rimane ferma sull’orizzonte, ancora minacciosa. Era riandato, in forza della dimestichezza che li aveva sempre legati, al lungo periodo che era stato costretto a trascorrere in un campo per internati politici, fra interminabili interrogatori, tempestosi confronti e snervanti discussioni. Aveva preso la decisione, una volta uscito, di allontanarsi per sempre da tutto e da tutti, per rifarsi una vita dove a nessuno avesse dovuto render conto del suo passato e dove fosse stato accettato per quello che era. Ma, parlando con lui in particolare, non intendeva passare sotto silenzio il comportamento dei tanti che avevano fatto dell’incoerenza, e

non solo in passato ma anche nelle vicende più recenti, il punto di partenza per la loro recuperata onorabilità. Determinato a pagare di persona, per quanto alto potesse essere il prezzo. Aveva sicuramente sbagliato, lo riconosceva, ma aveva preferito, anche nei momenti più difficili, la coerenza pur nell’errore a certi comodi e spudorati voltafaccia dell’ultimo istante.

Si era alzato dalla sedia e passeggiava nel breve spazio fra i tavolini. Taceva e pareva aspettare che fosse lui ora ad intervenire. Egli lo aveva seguito con grande attenzione ed aveva apprezzato in particolare quella sua serietà di propositi. Non aveva riconosciuto quasi più il giovanotto di un tempo lontano, svagato e burlone. La vita, tanto dura con lui, gli aveva insegnato molte cose. Quella fedeltà quasi eroica ai suoi principi gli aveva riportato alla memoria una delle più clamorose manifestazioni di superficialità in campo politico degli ultimi tempi, che era quasi riuscita a scandalizzarlo. “Ti voglio parlare, per restare in qualche modo in argomento, di una novità qui in paese di cui forse non hai avuto notizia, quella delle ‘feste di partito’, a dimostrazione di quanto andavi dicendo sulla faciloneria politica di certi atteggiamenti, dove superficialità ed incoerenza vanno a braccetto.” L’amico si era di nuovo seduto.

“Del tutto identiche fra di loro, a parte l’inno finale e qualche bandiera di colore ogni volta diverso, issata in bell’evidenza all’ingresso di quello squallido deposito abbandonato, nelle adiacenze del vecchio mulino, che le ospita tutte. Una dopo l’altra, nel corso di un mese all’inizio della primavera. Se intendessi cambiare idea e restare fra di noi, potresti rendertene conto di persona. In quell’occasione, quel rudere tenuto in piedi a forza di restauri, si trasforma in una vecchia baldracca tutta infiocchettata che si abbandona alle sue rituali bisbocce a scadenze fisse settimanali, sempre di domenica, quando viene invaso da una moltitudine rumorosa e divertita, dal pomeriggio fino a tarda sera, quelle sere così belle qui da noi nei mesi buoni. Ci sarebbe da divertirsi assieme. Io, da sempre condannato ad interessarmi di più dei fatti altrui che dei miei, non manco certo un’occasione così succosa e, abbigliato come richiede il momento, senza nemmeno varcare il portone d’ingresso – quello che mi si presenterebbe riesco ad immaginarmelo da solo – seguo a mio agio con l’occhio tutti quanti vi entrano, avvicinato da molti ai quali tasto senza darlo a vedere il polso, e riesco a farmi ogni volta un’opinione su quello che avviene attorno a me. Vengono anche da fuori per l’occasione, approfittando del curioso modo di far politica di questo benedetto paese, dove l’ideologia cede regolarmente il passo alla buona tavola; e dove una semplice novità ormai diffusasi un po’ ovunque diventa un impegno che non ammette deroga, una vera gara a suon di forchette alla quale si assegna molta più importanza che ad un dibattito politico, che dovrebbe costituire il tema principale della giornata, confinato invece nelle ore morte del tardo mattino e frequentato solo dai propagandisti di partito. E molti vanno orgogliosi di questa loro popolarità guadagnata a così poco prezzo... Io li difendo ogni volta che ne ho l’occasione, perché ne conosco le tante virtù, ma hanno fama presso i forestieri di essere meritevoli di ammirazione per la loro intraprendenza, ma anche un po’ stravaganti, come se per loro il mondo debba finire dove terminano le loro campagne, pensa un po’, e capaci di dare più importanza ad una semplice lite fra due vicini che, addirittura, ad una guerra civile,” aggiunse sogghignando. L’altro lo guardò, sorpreso ed al tempo stesso divertito per quel

paradossale accostamento, ed annuì sorridendo. Versò da bere ad entrambi e riprese: “Quel colorito alveare umano passa con assoluta indifferenza da una festa di partito all’altra, a tutto suo agio, in un allegro e disinvolto vociare, incurante anche degli interventi cautamente ideologici di un altoparlante, inseriti con calcolata intermittenza fra la valanga di canzonette che esso continua a vomitare senza interruzione. A parte il rituale e rimbombante inno del partito, che costituisce il pezzo forte finale, come il gran botto al termine dei fuochi d’artificio. E tieni presente che le posizioni ideologiche ufficialmente sbandierate sono più o meno ferme ancora ai violenti contrasti di cui tutti i

presenti fingono di ignorare anche l’esistenza, a comprova, se ce ne fosse ancora bisogno, delle irresistibili attrattive della buona tavola. Io stesso stento a credere ai miei occhi: a brevissima distanza gli uni dagli altri, atteggiando il volto al sorriso, mi passano davanti ogni volta, come se quel casermone malridotto fosse divenuto l’arca di Noè, tanti di quelli che mai avrei immaginato disposti a sedere attorno allo stesso tavolo, magari a stretto contatto di gomito nella gran ressa. Quando in altre occasioni, incontrandosi, si sarebbero presi a schiaffi ed a spintoni. Perché, a distanza ormai di qualche anno, non è che quanto ha reso incandescente le ultime elezioni sia stato superato. Normalmente ci si continua a guardare in cagnesco, c’è ancora chi gira nei dintorni mostrando il muso duro e chi ancora lancia maledizioni. Ma se la politica ha un significato, e se le contrapposizioni fra le varie ideologie contano qualcosa, in quelle occasioni tutto ciò si riduce ad una burla, o piuttosto ad un affronto per quelli, pochi o molti che siano, che per pudore o per altre ragioni a quelle farse non si prestano.” Nelle campagne circostanti da qualche tempo erano ripresi i lavori, dopo la sosta meridiana. L’amico gli fece capire che era giunto per lui il momento di lasciarlo. Una lunga stretta di mano, con gli occhi lucidi per l’emozione, fu il loro addio. Alcuni giorni dopo, sarebbe scomparso per sempre, rifugiandosi nell’anonimato di una grande città del nord.

Non si sarebbero più rivisti.



PARTE SECONDA

I

Si sentiva più solo, ora, dopo quell’incontro e quegli ultimi fervidi saluti, di quelli che non si dimenticano più. Riprese ad osservare la distesa delle campagne coltivate che gli si presentava da ogni lato e, occhieggiante sul fondo, il paese rifatto a nuovo, dietro la densa e verde cortina dei frutteti, che continuavano a nascere come funghi. Era come se si accorgesse per la prima volta della grande distanza che ormai lo divideva da quella realtà del tutto nuova: lui fermo al suo passato mentre quella, inseguendo il miraggio del benessere, dietro il quale ci si illudeva di poter risolvere ogni problema, correva all’impazzata. Nella sua attività di mediatore, aveva avuto modo di imparare a conoscere bene gli animali, specialmente quelli da tiro, a cui era interessato per la loro compravendita. Ricordava che quando,dopo essere state rinchiuse troppo a lungo nelle loro stalle per i rigori dell’inverno, le giovani puledre potevano precipitarsi all’aperto, esse correvano e correvano, nitrivano, si impennavano,e, raggiunta la staccionata che chiudeva lo spiazzo, iniziavano a costeggiarla. Continuavano la loro corsa come se dovesse condurle chissà dove, nella illusione della libertà, e invece si ritrovavano continuamente al punto di partenza. Se poi qualcuna riusciva a distanziarsi e altre perdevano il passo, ecco che quel loro rincorrersi in cerchio faceva sì che le prime ad un certo punto diventassero le ultime, tanto che il loro sforzo appariva sempre più inutile: la illusoria ricerca della libertà si era mutata per quelle povere bestie in una rissosa e vana gara a rincorrersi, in cui le vincenti e le perdenti si scambiavano sempre le posizioni. Non sapeva dire in quale esatta maniera, ma sentiva che quella sterile rincorsa aveva molto in comune con quanto stava avvenendo davanti ai suoi occhi. Alla sua gente continuava a riconoscere il grande impegno nelle iniziative intraprese. Si limitava a giudicare negativamente quel loro affannarsi per raggiungere un qualsiasi miglioramento economico, col rischio di finire per ritenerlo il principale scopo della vita, a cui diventa lecito sacrificare tutto. Questo li porta ad abbandonarsi ad atteggiamenti ostentati e fin spavaldi, che rischiano ogni volta di sconfinare nel ridicolo e nel grottesco, di cui oltretutto non sono sempre in grado di rendersi conto. Perdendo in questo modo ogni possibilità di confronto con il proprio passato.

Gli sedeva ora accanto il padre dell’oste, un omone piuttosto avanti in età. Da giovane era stato anche lui contadino, sempre fra i campi dall’alba al tramonto,poi un malanno dovuto alle intemperie l’aveva costretto a cambiar mestiere. Ma riconosceva ancora ogni albero ed ogni sterpo della terra che si stendeva libera ed aperta al sole attorno a quella sua casa da tanto tempo divenuta un’osteria. Anche lui stava osservando quel paesaggio in continua trasformazione e scuoteva il capo, aguzzando lo sguardo. Più che un miracolo quella totale distruzione di tutto un mondo, il suo mondo,gli sembrava semplicemente uno sproposito. Gliene aveva parlato altre volte. Prese la parola quasi stizzito:

“Qui attorno a noi la campagna ci fa ancora sentire il suo respiro, le sue paure e le sue gioie che si accompagnano al respiro, alle paure ed alle gioie dell’uomo. La terra va trattata con pazienza e con affetto, ed accettata per quello che è e per quello che ti può dare, e non sfruttata senza scrupolo e ingozzata con intrugli malsani, come quando si ingrassa a forza l’oca per le feste, al solo scopo di costringerla a rendere sempre di più, senza curarsi delle sue sofferenze. In quell’intrico inestricabile di piante d’ogni genere che ti vedi davanti e che le impediscono anche di godersi il sole, come puoi sentir giungere fino a te il suo respiro? Tutto questo darsi da fare per cambiare le cose ad ogni costo, mi fa pensare a chi si illude, correndo a perdifiato, di superare la luna che gli pende sul capo, col suo faccione indolente, e che sembra fissarlo sorniona per invitarlo a gareggiare con lei. Più va avanti, e più quella sembra spostarsi con lui, rallentando se rallenta e riprendendo velocità quando lui si rimette a correre. Perchè l’opinione che ognuno per conto suo si fa del benessere è come un miraggio,di quelli che dicono presentarsi nei deserti, che s’allontana e s’allontana quanto più tu cerchi di raggiungerlo.” Per i pochi che in quel momento transitavano sulla strada adiacente - questo nel frattempo egli stava pensando – essi dovevano sembrare due vecchi perdigiorno che, davanti ad una bottiglia semivuota, andavano rivangando il loro passato, innocui e patetici. Ma quelle parole erano invece graffianti, e potevano riguardare anche loro e le loro commiserazioni. “La vecchiaia mi isola,” riprese il padre dell’oste, “ma rimane in me una chiarezza che mi conforta, anche se è negata a questi miei poveri occhi. Proprio stamattina,” e così dicendo si volse verso di lui, “proprio stamattina s’è tenuto il mercato in paese. Ai nostri tempi la cosa capitava qualche volta all’anno, in occasione delle grandi ricorrenze; ed ora da mensile è giunto ormai ad essere settimanale, addirittura. Qualcuno si vanta del fatto che questo avviene soltanto nel borgo... Mi ci ha portato mio figlio, raccomandandomi di non allontanarmi troppo. Doveva sbrigare soltanto alcune faccende e non avrebbe tardato molto... Ma non ho saputo resistere. Anche stavolta non sono però riuscito a comperare nulla, perché continuo a non sentirne il bisogno. Di quanto mi buttan quasi fra le mani, cercando in tutti i modi di attirare la mia attenzione, non saprei che farmene. Vado per vedere, per mescolarmi con quell’andirivieni continuo... Si viene ormai sempre di più anche dalle contrade vicine,dai piccoli paesi dei dintorni, in una gran confusione... Ma vado specialmente per capire, e anche per non sentirmi del tutto come un sopravvissuto, uno che non è più in grado di restare al passo coi tempi... Non acquisto nulla perché quel poco che mi serve posso trovarlo in un negozio dove tutto è rimasto come prima, un negozio fuori mano, com’è quest’osteria, del resto... Non mi rifiuto per partito preso. Ma quando mi trovo in mezzo a quella marea di bancarelle che sta invadendo anche le vie laterali del paese, dove tutti urlano a squarciagola per rubarsi i clienti a vicenda, mi sento a disagio quando vedo accostati in gran disordine un venditore di pesce fritto e uno di frattaglie, uno di pasta di ogni forma ed uno di interi vassoi di dolciumi; poi più in là uno di carni di tutti i generi ed uno di formaggi; ed infine, appartati, quello che vende latte e quello che vende frutta e verdura. Più in là poi, come accatastate per mancanza di spazio, confezioni per uomo e per donna e ancora tute e pigiami e calzature per ogni richiesta. Tanto che ogni volta mi pare di esser finito nel paese della cuccagna, dove però ti conviene tener sempre la mano sui pochi soldi che hai in tasca, che non fan gola soltanto a quelli che continuano ad urlarti dietro per richiamare la tua attenzione, come se morissero dalla voglia di regalarti tutto quello che hanno fra le mani.” Mentre l’altro taceva, sorseggiando l’ennesimo bicchiere, facendo capire di ritenere ormai esaurito il suo intervento, prese lui la parola: “E la fiera annuale del paese, nella piazza gremita – anche quella un putiferio? E stavolta dall’alba a notte alta, per la gran gioia di tutti i dirimpettai? Dopo il noioso intervento ufficiale del solito ex vice direttore della scuola elementare – sempre lui da quanto tempo? – hanno proceduto, come ogni anno, alla distribuzione di riconoscimenti vari – come pezzo forte anche un cavalierato – da parte stavolta del vice sindaco venuto appositamente dal borgo. E la gente che applaudiva e applaudiva, come al mercato parlava e parlava... Tutti riconoscimenti al merito del lavoro, con le motivazioni più impensate e stravaganti: ad uno, quello che abita fuori mano in quel suo frutteto sulla strada, dopo gli infiniti insuccessi, che l’hanno così a lungo fatto oggetto della irrisione generale, per avere indovinato – finalmente! - l’innesto giusto. Abita invece in quella casa di cui anche di qua si vede il curioso comignolo, quell’altro che è riuscito ad ottenere una nuova variazione di colore in un fiore molto comune, che di colori ne ha già tanti per conto suo. Riconosciute anche le benemerenze sociali di quel giovanotto mezzo scapestrato che continua a dar lavoro a domicilio ad un piccolo esercito di sartine improvvisate, di cui tutti conoscono il ridicolo salario; e di quell’altro ancora che si dà tanto da fare nel campo degli imballaggi per la frutta, che del resto gli stanno procurando una vera fortuna. E di quel sarto piccolo e grasso, dal volto untuoso, che ha invece disegnato le nuove divise della banda locale, che molti hanno criticato perché troppo simili a quelle odiose dei tedeschi. Un uomo di mezza età quest’ultimo, che forse hai conosciuto anche tu quand’era ancora un ragazzino. Per ultima è venuta quella fioraia di paese che ha fatto fortuna improvvisandosi, con notevole faccia tosta, addirittura parrucchiera per signore anziane, finendo per diventarne l’idolo...” Si interruppe per un istante. Poi riprese con un’ombra di amarezza nella voce: “Ed io, nel frattempo, mi son guardato attorno cercando con gli occhi quelli che del lavoro conoscono l’aspetto più vero, la fatica. Se ne stavano lì a guardare, come assenti, confinati nella parte riservata ai semplici spettatori, sapendo bene di non doversi attendere alcun riconoscimento da parte di nessuno.”



II

A questo punto si era ricordato del suo povero asinello, paziente e rassegnato come non mai, anche per la compagnia che a modo suo gli teneva quel sornione del gatto dell’osteria, raggomitolato a debita distanza sotto l’ombra protettiva della siepe, che interrompeva di tanto in tanto i profondi sonni per occhieggiare di sfuggita quello strano compagno dei suoi ozi sempre fermo sulle quattro lunghissime zampe. Con una delle solite bugie ormai di rito, egli, accarezzandogli il muso, gli aveva sussurrato all’orecchio con tenerezza che sarebbe ritornato presto per andarsene finalmente da lì. L’aveva allevato lui, con ogni cura, dopo che la madre gli era morta sfinita dalle fatiche e dagli acciacchi, abituandolo per tempo a sostituirla. Ma ormai anche il puledro birichino ed infaticabile di un tempo stava invecchiandogli accanto. Ma era destino che in quel pomeriggio ormai avanzato non potesse lasciare ancora il suo tavolino. Stava infatti sopraggiungendo un daziere in pensione, che proveniva dal vicino borgo. Con quell’uomo aveva avuto occasione, anche in passato, di incontrarsi davanti a quell’osteria, che costituiva una delle mete delle sue periodiche escursioni, sempre invariabilmente a piedi. Era capace di camminare spedito per ore, a cercarsi, come gli ripeteva quasi ogni volta, una qualche rivincita sul troppo tempo trascorso seduto dietro la scrivania in ufficio, in attesa di un contribuente con cui litigare, o alle prese con i soliti elenchi sempre uguali. Ed intanto, esibendo la sua pittoresca mimica, puntava il dito sul tavolino: qui una data, e poi la firma in fondo, e, prima della firma, le interminabili colonne di cifre che la pignoleria burocratica esigeva accurate fino al centesimo. E, per chiudere, terminava sbuffando, due righe di annotazioni, più o meno sempre le stesse. Quante volte, seduto accanto a lui, gli aveva parlato delle sue traversie,con quella pittoresca enfasi che in segreto lo induceva al sorriso. Ora si interessava di oggetti d’arte. Una vecchia passione, a cui poteva ora dedicare gran parte del suo tempo. Aveva opinioni tutte sue, al riguardo. Egli lasciava che si sfogasse e gli riferisse le disavventure a cui quella sua nuova attività lo esponeva. E tanto era il calore con cui affrontava l’argomento, che avrebbe quasi finito per coinvolgere anche lui.

Ma egli, in realtà, si sarebbe piuttosto divertito un mondo, e sarebbe riuscito a mantenere il suo solito atteggiamento distaccato, alla ricerca sempre di un aspetto che gli offrisse la possibilità di affidarsi alla sua bonaria ma implacabile e maliziosa inclinazione, senza perdonare nulla a nessuno, nemmeno a quel loquace borghigiano, estroso e stravagante fino alla bizzarria, che gli sedeva di fronte in quel momento. In effetti era molto desideroso di approfondire la conoscenza di quell’uomo, per lui in realtà ancora poco più di uno sconosciuto. Ora se la prendeva con le sfacciate imposture di quegli improvvisati intenditori, che piovevano da ogni dove,riempiendo le fiere di fasulli oggetti d’arte, stipati un po’ ovunque, increduli essi stessi di fronte alla ingenuità dei compratori, che si lasciavano irretire senza difesa alcuna dalle loro ciarle, convinti di concludere affari d’oro. Aveva visitato qualche giorno prima il mercatino d’arte del paese, muovendosi dal borgo di buon mattino, e di quella esperienza ricca di

sorprese gli stava facendo ora un pittoresco resoconto, accettando di buon grado il bicchiere di vino che intanto egli gli aveva offerto. Egli lo seguiva divertito, per quella sua mimica che sembrava in grado di sostituire per la sua efficacia le parole che gli uscivano di bocca senza interruzione; ed intanto si chiedeva se nella vita precedente avesse sempre sostenuto la sua parte in quel modo, dietro la scrivania come ora davanti a lui. Cercava di immaginarlo tuonare, nel pieno delle sue funzioni, con la medesima veemenza di cui ora dava prova, ricordando ad esempio, a destra ed a manca, che le tasse andavano pagate, senza guardare in faccia a nessuno. In tante cose sentiva di pensarla come lui: solo che mentre egli riusciva a sorridere ed a compatire, quando gli sembrava il caso, quello evidentemente era sempre sul piede di guerra. Veniva da un lontano paese del nord, finito lì forse per l’intervento di qualche superiore che aveva voluto liberarsi di lui, spedendolo il più lontano possibile. Da quanto gli risultava, viveva solo, sfuggendo ogni contatto. Quando aveva bisogno di sfogarsi cercava evidentemente, come in quel caso, qualcuno che si dimostrasse disposto ad ascoltarlo. “Mi hanno stupito in particolare i cumuli di mobili definiti in stile, le vistose poltrone accatastate accanto alle sedie strabocchevoli di ninnoli, come si trattasse di cesti di patate. Eppure sono occasione di tentazioni irresistibili, tanto è vero che tutta quella cianfrusaglia finisce inevitabilmente con lo stipare ogni angolo di una casa. E magari si può trattare anche di oggetti per il momento ritenuti inutili; ed in questo caso hanno il preciso scopo di sottrarli, in questa caccia insensata, ad eventuali concorrenti, con il risultato, oltretutto, di rinfocolare invidie e ripicche reciproche, ma segnando così un punto a proprio favore nella reputazione presso il vicinato.” Si era interrotto per bere un sorso di vino. E qui intervenne lui, stupito dalla infinita quantità di quadri che vedeva appesi alle pareti più in vista di certe case, dovunque passasse col suo carretto. L’altro prese la palla al balzo: “E’un’autentica truffa, questa dei quadri... Nel mulino vecchio, alcuni rigattieri autoproclamatisi mercanti d’arte, hanno esposto, in due locali attigui, un’infinità di questi quadri, che essi giurano essere d’autore e che, a loro dire, avrebbero costituito un investimento più che sicuro. Abituati ormai ad individuarli, si rivolgono, con indiscutibile capacità d’osservazione, a quei clienti, ambiziosi ed al tempo stesso sprovveduti, che essi elogiano come lungimiranti: e così, sottobanco, riescono a smerciare a poco a poco tutti i miserevoli residui dei loro fondi di magazzino. E qui la ressa è sempre grande: ed i fortunati acquirenti che riescono a mettere le mani su quei piccoli tesori, se ne escono trionfanti, invidiati da tutti.” “Un’altra faccia del benessere!”, intervenne lui. “Si tratta di quelle vedute orripilanti prodotte in serie, dove quei buoni artigiani hanno prudentemente evitato confronti per loro troppo

impegnativi, riempiendo, anzi costipando il quadro, in genere di dimensioni piuttosto considerevoli, di grandi alberi e di lunghi cespugli, di casipole tutte uguali, come fatte in serie; ed ancora di pastorelle e di pastorelli, con greggi ed armenti che dilagano ovunque. Con un cielo infine percorso da grosse nuvole che non danno scampo al sole,che comunque non compare mai in quadri del genere, in quanto evidentemente potrebbe creare problemi di effetti di luce piuttosto imbarazzanti per quella sorta di imbianchini alquanto presuntuosi e per le loro ambizioni piuttosto arrischiate.” Quasi rintronato da quella voce stentorea che sembrava penetrargli nel cervello, egli andava intanto occhieggiando la sua campagna, quella in cui si riconosceva ancora, sempre uguale a se stessa. Immobile e serena,essa era come assopita, indifferente a tutto. Mentre gli sembrava che il sole, e ne sorrideva divertito fra sè e sè, dopo il suo sonnacchioso ed indolente vagare per il cielo come a cercare una difesa contro quella inarrestabile gragnuola di parole, andasse declinando lentamente verso il tramonto. L’altro intanto continuava imperterrito:

“O di quelle scene, ancora abbandonate al capriccio ed all’imperizia degli autori,dove alle solite anatre a becco spalancato, fluttuanti su di una superficie d’acqua oleosa e mal definibile, fanno da sfondo, sullo stesso piano, con tanti saluti alle più elementari regole della prospettiva, alcune casette accatastate in gran disordine. Tutte crivellate di finestrelle e di feritoie, con alberi su misura per colmare ogni spazio rimasto vuoto. E nell’unico spicchio di cielo,

opaco tanto da sembrare di cartapesta, librati a mezz’aria sulle loro goffe alucce rachitiche, una infinità di uccelli.

A completare il tutto, ecco una indefinibile striscia ondulata, che forse vuole essere una lontana catena di montagne, innevate da cima a fondo.”

Mentre l’altro continuava a gesticolare e quasi a ridisegnare con le dita delle mani i particolari del quadro ai quali si riferiva con le sue parole, egli, del tutto indifferente a quel genere di cose, volgeva d’istinto l’occhio al luminoso paesaggio che gli si stendeva davanti, nella sua spoglia e dolce naturalezza, con i suoi stormi di uccelli, quelli vivi e veri, volteggianti alti nella luce diffusa, mentre continuava a seguire annoiato quel polemico e prolisso resoconto.

“E, come hai notato anche tu, certe case sembrano divenute piccole mostre permanenti. E quei quadri, esposti in bella vista in ambienti dalle finestre sempre spalancate, sembra che vogliano buttarli in faccia ai passanti per farli crepare d’invidia.” A voce smorzata, pronunciando lentamente le parole, come a bearsi di esse, entrava ora in osservazioni ed in dettagli che manifestavano la sua familiarità con quel genere di cose. Egli ne era oltremodo infastidito, anche perché gli riusciva sempre più difficile seguirlo. Per cui, invece che continuare ad ascoltarlo, cominciò a poco a poco, per conto suo, una serie di riflessioni su aspetti che lo toccavano più da vicino, perché ne viveva a contatto ogni giorno. ‘Non si tratta solo di queste tue tele malamente imbrattate’, pensava. ‘Questa ostentazione scervellata si manifesta anche in altri campi. Infatti, e me ne accorgo passando avanti ed indietro con il mio carretto un po’ ovunque, nei vecchi depositi di certe case, ora destinati ad altri usi, è tutto un sognare la fortuna ad occhi aperti ed un continuo lavorar di chiodi e di martello. Così, al posto di erpici e di aratri, di sacchi e di cassette, cresce a non finire lo stuolo delle sedie, delle poltrone, dei divani e delle cassapanche. Senza alcun ordine.

E’ come per la mania del mattone, che fa la fortuna di capomastri piovuti a frotte dal borgo, a cui non sembra vero di poter finalmente realizzare il proprio capolavoro. Una sfida a viso aperto a suon di costruzioni tirate su alla bell’e meglio, spuntate un po’ ovunque come funghi, nella frenesia di arrivare per primi, senza regola nè stile: il cattivo gusto degli uni che va a braccetto con l’ambizione degli altri di lasciare una prova, che resti sotto gli occhi di tutti, della fortuna finalmente afferrata per i capelli. Villette che si fronteggiano a distanza, con i loro colori sempre più vistosi e con il grottesco succedersi di rozze scalinate ad effetto. E con quelle loro ridicole colonnine tutte allineate, simili ad orripilanti file di denti, schiacciate in quegli ammassi di cemento. Sbirciandosi fra gli immancabili boschetti spuntati dal nulla, sembrano sul punto di farsi a vicenda le boccacce, come primedonne invidiose l’una dell’altra.’ E qui aveva accennato ad un ghigno, che poteva quasi sembrare un sorriso. ‘E tutto questo nei pressi dell’antico abitato, che, come colto alla sprovvista, si è ancor più stretto attorno al suo vecchio campanile, quasi a proteggersi da quella scriteriata aggressione. E non basta: perché, dopo le prime costruzioni apparse qua e là nel passato e sempre più numerose di anno in anno, ora, anche in aperta campagna si vanno moltiplicando, ad occhieggiare curiose gli stradelli da tempo rimessi a nuovo, ripuliti e cosparsi di candida ghiaia, abitazioni che, seppur più modeste, fanno ugualmente morire di vergogna le vecchie case contadine. Esse sembrano osservarle a distanza, ed invano nascondono, dietro le poche piante scheletriche che le contornano, i loro tetti sbilenchi e smisurati. La sua malridotta e dimessa bicocca, che l’accoglieva ogni volta a braccia aperte e che egli comunque non avrebbe mai abbandonata, finita ora nel bel mezzo di tutte quelle spocchiose nuove arrivate, doveva per conto suo mettere a diretto confronto quei suoi muri sbrecciati e quelle sue stinte imposte con la villetta nuova di zecca del suo vicino, che sembrava irriderla con le sue ampie finestre orlate di marmo e le vistose imposte color verde cupo.

Smessa la camicia nera ed abbandonate da tempo le poco redditizie colture che pure eran state il fiore all’occhiello del trascorso regime, ora va pavoneggiandosi, sbirciandomi di continuo non appena mi vede, sigaro di ottima marca sempre in bocca, entro impeccabili abiti di buon taglio ,fiero della prosperosa foresta dei suoi alberi da frutto.’ Intanto il daziere estrasse l’orologio da tasca e s’alzò di scatto. Era per lui l’ora del ritorno. S’allontanò, salutandolo con un cenno della mano. Egli lo seguì con lo sguardo finché non si sottrasse alla sua vista alla prima svolta della strada. Era pronto a scommettere che, andandosene, quell’incorreggibile ed accanito paladino di ogni causa persa, avrebbe continuato a gesticolare ed a parlottare, come se lo avesse ancora davanti. Nato evidentemente per non aver mai un attimo di pace, quell’uomo si sentiva in dovere di polemizzare sempre e per qualsiasi ragione, paradossale ed intollerante, sul punto ogni volta di assumere atteggiamenti che francamente lo inducevano alla ilarità: ma era tutt’altro che uno sciocco, e non parlava certo a casaccio. Compariva d’improvviso e d’improvviso si eclissava, incapace di abbandonarsi alla confidenza, forse perché fin dall’inizio si era sentito a disagio nel nuovo ambiente in cui si era trovato a vivere e magari anche mal tollerato per il suo temperamento e per la sua professione. Trascinato dalla propria indole aperta irresistibilmente al motteggio, egli era a questo punto portato a chiedersi, tra il serio ed il

faceto, se quell’enigmatico castigatore dei costumi non avesse avuto mai occasione di sorridere in vita sua, e se la continua tensione con cui affrontava ogni momento delle sue giornate non fosse diventata per lui ormai un’abitudine, anche quando era solo con se stesso. E se fosse un segreto turbamento, una sofferenza nascosta a tutti e tale da costringerlo a cercare di non essere mai solo? In questo caso avrebbe potuto comprenderlo.

III

Quel tardo pomeriggio settembrino, luminoso e trasparente, sembrava fatto apposta per indurlo a ritardare ancora il momento del rientro. E mentre indugiava, incerto sul da farsi, ed intanto andava seguendo le reazioni del suo pazientissimo compagno di viaggio, sempre immobile al suo posto, con le lunghe orecchie ben dritte, attente a cogliere il minimo fruscio, fu distratto da un crescente fragore. Proveniva dalla traccia ghiaiata alle sue spalle, e vi si mescolavano il rombo di un potente motore d’automobile e due voci giovanili piuttosto eccitate. Ora il suo asinello stava scalciando, irrequieto. Era uscito anche l’oste. Si trattava di una comitiva di sconosciuti, una coppia e i due figlioli, una femmina ed un maschio. I due ragazzi guardavano con stupore quel genere di animale, che evidentemente non avevano mai visto. Era gente di città. Indossavano gli abiti di chi compie una gita in campagna.

I due genitori avevano rivolto l’occhio verso il pergolato ma, dato forse che i tipi come lui li avevan sempre sotto gli occhi, seduti davanti alle osterie,nelle strette viuzze della parte vecchia della città, non l’avevan degnato di uno sguardo. Egli, però, li stava osservando con attenzione, pur non dandolo a vedere. Incontri del genere non capitavano tutti i giorni, in quella sperduta osteria di campagna tanto fuori mano. La ragazzetta si era allontanata dai suoi, seguita subito dal fratello, per osservare da vicino l’animale, che, a sua volta, aveva girato il testone verso di lei, squadrandola da capo a piedi: vedendosi fatto oggetto di tanta attenzione, l’alzò fieramente, drizzò le orecchie e si esibì nel raglio più sonoro e prolungato di cui fosse capace, per il divertimento dei due ragazzi di cui divenne subito il beniamino.

Ormai gli conveniva dar tempo al tempo e restarsene seduto in attesa. Il suo interesse intanto si era concentrato sull’abbigliamento di tutta la comitiva, ma in particolare su quello veramente stravagante della ragazzina. Certo non aveva mai visto una creatura conciata in quel modo: la poverina, piuttosto in carne, annegava entro una sorta di sacco di tela, rigido e ruvido, estremamente rigonfio, e portava sul capo, forse per via del sole o per un suo vezzo,un buffo cappellino a larga tesa, tutto infiocchettato. Evidentemente era l’abbigliamento per una gita in campagna. Il fratello intanto stava fissando incuriosito la compatta e verde macchia alberata che cingeva da ogni lato il paese, sul fondo dell’orizzonte. Un paesaggio per lui inconsueto, com’era evidente. Ma tutti e due i ragazzi apparivano spaesati: quel cielo così vasto e quell’aria luminosa non eran loro familiari. Si erano riuniti ai genitori, seduti attorno al tavolo, ai bordi del pergolato. Era stato ordinato qualcosa. Il padre continuava a guardarsi attorno, volgendo l’occhio verso l’aperta campagna, ed ogni tanto confabulava con la moglie. Più tardi si trattenne a lungo con l’oste, all’interno del locale: probabilmente stava cercando qualche vantaggiosa soluzione per l’eventuale acquisto di uno dei casolari dei dintorni, alcuni dei quali erano ormai sul punto di essere abbandonati. La cosa non lo lasciò indifferente:la città, dunque, stava allungando le mani sulla campagna, almeno su quella più esposta alla speculazione. Nei borghi invece e nelle aree rurali meglio avviate, con un astuto sfruttamento della vanità e di segrete ambizioni piccole e grandi, come di una buona dose di ingenuità di chi si trovava fra le mani per la prima volta soldi da spendere, era da essa che da tempo continuavano a giungere, a getto continuo, le novità più svariate e discutibili che stavano sconvolgendo le vecchie abitudini. L’oste intanto s’era avvicinato complimentoso alla famiglia ed aveva steso sul tavolo con studiata eleganza una tovaglia, il consueto pretesto per avviare in qualche modo una conversazione sulle bellezze della campagna e della vita trascorsa all’aria aperta. Era il consueto approccio con clienti, rari del resto, del genere di quelli che stava apprestandosi a servire. Ormai egli, che lo conosceva bene, stava attendendo con una certa malizia la sua abituale esibizione. S’era piantato accanto al tavolo, mentre con ogni premura la moglie e la figlia servivano i clienti, con tutta l’intenzione di non allontanarsi tanto presto, ed era passato ad elogiare, nel suo monologo interrotto soltanto dalle loro esclamazioni e dai loro cenni di assenso, la città da cui essi provenivano e che conosceva bene per avervi prestato il servizio militare. Nel tal quartiere, dopo quella via, in una caserma che s’affacciava su quel piazzale ora adibito a deposito. E così di seguito, fino a giungere allo stupore, provato all’apparire, davanti ai suoi occhi, di quei monumenti tante volte sognati nella sua adolescenza. La città...! Il suo fascino...! La disinvoltura con cui, chi vi era nato, s’aggirava fra le sue bellezze, oggetto di invidia da parte di chi non aveva avuto la stessa fortuna. E quelle ridicole scimmiottature della città che ormai dilagavano nelle plaghe più fortunate della campagna – e qui indicava con intenzione il paese che avevano di fronte – quelle in cui l’improvviso arrivo del benessere aveva fatto perdere alla gente il senso della misura, con l’assurda ambizione di colmare finalmente distanze secolari, ma copiando male atteggiamenti e costumi, come succede sempre a chi si lascia guidare dall’impulso del momento e dalla vanità? Era, quest’ultimo, un tema che non gli aveva mai sentito toccare, e tese l’orecchio, anche perché ripeteva con parole sue quanto egli aveva in precedenza pensato, ma con il calore che gli derivava dal suo temperamento. Del resto era un piacere sentirlo parlare,di qualsiasi cosa si trattasse: sempre in grado di attirare l’attenzione di clienti che forse, in quelle sue animate perorazioni, trovavano un insperato diversivo alla noia che suggeriva tutto quanto li circondava. Fermo sulle gambe sormontate da una vistosa protuberanza che si industriava invano di mascherare, impegnato in quel suo gesticolare appassionato, la luce radente del sole metteva impietosamente in evidenza il suo buffo e rado ciuffetto, issato sul cranio lucido, come fosse la cresta di un enorme gallinaceo. I due ragazzi lo lasciavano dire indifferenti. Ma marito e moglie si scambiavano occhiate d’intesa. Se lo scopo per cui si erano scomodati a lasciare la città era quello che egli aveva previsto fin dal momento del loro arrivo – e presto l’avrebbe saputo – evidentemente avevano trovato chi faceva al loro caso, dato che l’oste si dimostrava tanto disponibile ed era sicuramente un buon conoscitore della zona. Ed egli proseguì, con convinzione: “Per fare un esempio, è certamente da un’usanza riservata fino ad ora alla città che proviene la straripante moda dello scambio di regali fra quelli che abitano qui in paese” – e così dicendo puntava di nuovo l’indice davanti a sè – “diventata una ridicola abitudine... In città le cose non vanno sicuramente in questo modo. Per ogni ricorrenza che appena li giustifichi, battesimi, cresime, prime comunioni, compleanni ed onomastici, sono pronti regali d’ogni sorta, come le solite statuette in gesso colorato e simili cose, o addirittura oggetti di cui non sempre si conosce bene l’uso. E spesso avviene, anche se la cosa può sembrare incredibile, che ci

si veda recapitare come donativo, a notevole distanza di tempo, un oggetto già dato in regalo e che mostra spesso di essere passato per più mani...” Quasi un ripetersi di passate consuetudini, pensava egli intanto, dettate però da condizioni economiche ben diverse. Forse stava esagerando, trasportato dalla foga, ma anche questa volta molte delle cose su cui intratteneva i suoi clienti non erano poi tanto lontane dall’opinione che egli stesso se ne era fatto.

Soltanto che dalle sue parole sembrava trasparire una insospettata vena di sottile invidia, tagliato fuori com’era, pur a così breve distanza dal paese, da quegli sciocchi e spensierati giochi, riservata a persone che non stimava affatto e che non riteneva degne della fortuna che era loro piovuta addosso. Lo conosceva da tempo: spesso si intratteneva con lui nelle sue soste all’osteria e ne aveva ben presenti le abitudini e le debolezze. Era destino del resto che egli si interessasse ad individui di quel genere,che avevano sicuramente molto in comune con lui. Tranne il fatto che erano portati più a parlare che a riflettere. C’è chi conosce l’arte di saper ascoltare e chi invece è trascinato dal temperamento a parlare forse più di quanto sia opportuno. Ed al temperamento non si può comandare. La parte che egli vi sosteneva non gliela aveva imposta od insegnata nessuno: e vi si trovava perfettamente a suo agio. Curioso di ogni novità,anche la più stravagante, aveva comunque l’abitudine di lasciare libero campo alla riflessione e di vagabondare con la memoria,partendo dagli spunti che lo colpivano di volta in volta. A questo proposito,quel pergolato d’osteria tutto sommato accogliente era il luogo più adatto per raggiungere il suo scopo, oltre che un comodo soggiorno ed un ideale ritrovo. Seduto lì, era come se sfogliasse un libro sempre aperto che non finiva mai, perché ogni volta vi si aggiungeva qualche pagina, con frequenti ripetizioni ma anche con qualche novità, quelle che egli era venuto a cercarvi. O meglio, come se assistesse ad una recita destinata a prolungarsi a suo piacimento, fino a che non se ne fosse andato, con attori quasi sempre diversi impegnati a recitare il loro copione. Attento a gustarsi le varianti e gli imprevedibili colpi di scena che non erano poi così rari. Per questo, l’osteria di paese che ora fungeva da bar e che all’ inizio gli era sembrato di non poter lasciare, ora quasi la sfuggiva, o vi tornava soltanto per cercarvi una conferma alla sua scelta: non si prestava più ai suoi scopi, al di là del travisamento che aveva subito e nel quale non riusciva più a ritrovarsi. Lontani i tempi nei quali, appena entrava, veniva subito investito, ed era quanto era andato a cercarvi, dal vociare irritato e scomposto di quelli che, quasi sempre gli stessi, si stavano da ore affrontando

con accanimento: in genere si trattava di politica, come anni prima si era trattato di ricordi della grande guerra. Il tutto condito dal profumo forte del vino e del buon tabacco. L’attenzione di molti,là dentro, era come calamitata da quegli scontri furibondi, in cui ognuno sembrava disposto a tutto pur di non cedere di un sol passo all’avversario. Poi, bevute comuni finali in pieno accordo. Come contorno, lo stizzito bisticciare dei patiti del gioco delle carte: talvolta vi assisteva, anche per accertarsi di persona se la scandalosa parzialità della fortuna potesse trovare talvolta un efficace contrappeso nel sangue freddo e nella memoria di questo o quel giocatore, preferendo, come al solito, godersi lo spettacolo piuttosto che soffrire da protagonista le alterne vicende del gioco. Ora, al suo primo affacciarsi, veniva investito dalle fastidiose e dolciastre zaffate che emanavano dalle innumerevoli tazzine di caffè sistemate un po’ ovunque, e che chiamavano aroma. Nel bel centro del locale, tavolini riservati esclusivamente ai lunghi conciliaboli a mezza voce tra mediatori molto loquaci e venditori molto sospettosi. Conciliaboli a cui assistevano compratori molto interessati piovuti da ogni parte. Si trattava invariabilmente di grosse partite di frutta da vendere al miglior offerente. Il tutto accompagnato - tabacco da pipa e profumati sigari ormai ritenuti merce di scarto - da quell’insipida mistura, che andava sotto il buffo nome di sigaretta – avvolta entro rotoli sottilissimi di carta. Più in là riuscivano a sopravvivere a stento, un po’ spaesati, gli ultimi esemplari di giocatori di carte. E, ultima sorpresa di quell’effimero miracolo economico piovuto così a proposito,ecco un grazioso locale destinato, nella parte interna, ad accogliere con ogni discrezione le nuove baciate dalla fortuna, le signore del lunedì, legittime consorti di quei poveretti che, a pochi passi di distanza, stavano intanto dannandosi l’anima anche per permettere loro quei momenti di rilassante evasione, invidiatissimo segno di distinzione. Accomodate strette strette su di un enorme sofà, parlando di nulla con affettazione e con trasporto, stavano segretamente sognando il giorno in cui sarebbero finalmente state accettate nei salotti del borgo consacrati alla vita di società. Non potevano rendersene conto, ma quella loro ansiosa attesa non aveva alcuna ragion d’essere perché, di fronte alle loro credenziali così convincenti e sostanziose, almeno fino a che avesse continuato a scendere la manna dal cielo, non esisteva per loro porta che non si sarebbe spalancata per accoglierle a braccia aperte. Immaginava ora, che, fra non molto, superata di slancio quella cortina di verde che aveva davanti agli occhi, la foresta di meli e peri e peschi sarebbe dilagata senza rimedio,raggiungendo le aie delle vecchie case contadine tutt’attorno e penetrando sempre di più nel cuore dell’aperta campagna, mantenutasi uguale da sempre. Travolgendo tutto, i filari d’olmi con i loro vitigni ed assieme le rade siepi spinose che serpeggiavano qua e là, l’avrebbero respinta sempre più lontano, fin dove si incontrava con l’orizzonte. Più tardi poi, come era avvenuto in precedenza per altre colture, la cui fortuna era pur sembrata non dover tramontare chissà per quanto tempo,quel momento di gloria sarebbe stato sostituito da qualche altro più allettante miraggio e meleti e pereti e pescheti avrebbero finito per essere sradicati senza tante cerimonie, pur ancor nel pieno del loro vigore, e buttati a far cataste di legna da ardere. Ultimi in ordine di tempo, almeno per ora, essi avevano dato modo di realizzare le aspirazioni di tanti dei suoi compaesani, intraprendenti e mai queti. Stavano sempre all’erta e non appena avevano sentore di una novità, subito la loro immaginazione fervida si metteva in moto e si davano da fare per non lasciarsi sfuggire l’occasione. Non c’era forse stato fra di loro chi aveva cercato di fare anche della politica un affarone? Col tempo, inevitabilmente, quel dilagante esercito di piccoli alberi, contorti e tentacolari, tutti allineati come tanti soldati in marcia, avrebbe certo raggiunto anche lo spiazzo in cui in quel momento stava comodamente seduto, distruggendone ogni ricordo e le sue minuscole e segrete storie. Così avrebbe cessato di vivere anche quell’ultimo rifugio, quell’ultima traccia del passato, dove ogni sera, come gli dicevano, convenivano, trovandovi ancora lo spazio che loro spettava, i giocatori di carte, i buoni bevitori, ed anche coloro che discutevano ancora di politica, magari non sempre in tono pacato: i tempi degli appassionati scontri e dei continui litigi, del resto, erano ormai lontani e sembrava che non potessero tornare più. Era un ritaglio del suo vecchio mondo, sopravissuto quasi per miracolo, al riparo ancora dal fastidioso gracchiare delle radio e fedele al vino ed ai buoni sigari. Ci si abbandonava alle chiacchiere fra amici che trovavano sempre modo di prolungarsi, inframezzate da scambi di vedute sull’andamento della stagione e dei seminati, e sulle promesse che essi offrivano. Con lazzi e battute a fior di labbro, ma con la bocca sempre aperta al sorriso. Come una volta.

L’oste era intanto rientrato, e stava litigando a voce smorzata con le due donne per la scarsa cura con cui avevano servito quegli avventori così diversi dai soliti; ed anche con l’occasionale cuoca, la madre, che replicava però con strilli stizzosi da vecchia gallina. Ora gli avventori potevano mangiare a tutto loro comodo, liberatisi della sua assillante presenza. Per poco, però: perché l’oste li raggiunse di nuovo, sorridente e disinvolto come se nulla fosse successo. Egli si preparava a sorbirsi, rassegnato, la seconda parte del suo ben prevedibile intervento: sapeva per filo e per segno dove sarebbe andato a parare. Gli argomenti erano scontati, ma egli s’aspettava sempre qualche variante improvvisata, confezionata su misura per il tipo di clientela che si trovava di fronte. E pensava, sorridendo, che quei suoi abili monologhi avrebbero magari meritato ben più numeroso uditorio. L’oste riprese subito la parola, come se non si fosse mai allontanato: “Per i matrimoni, in particolare, il fenomeno assume caratteri del tutto incredibili: rinfresco a domicilio, gran pranzo nel ristorante più rinomato del borgo, e per una infinità di convenuti, per giunta. Segno ambito di distinzione, cosa una volta da favola anche per una città... Un giorno si usava contraccambiare con la solita damina di falsa porcellana accanto alla sua carrozza o con il fagiano impagliato quanto gli sposi avevano offerto nel pranzo nuziale – poco più di quel che si usava servire nelle grandi feste – consumato in casa dello sposo, attorno al tavolo di cucina tutto infiocchettato per l’occasione. Ora invece la coppia viene letteralmente sepolta sotto un cumulo di regali uno più appariscente e costoso dell’altro, quasi al solo scopo di guadagnarsi i primissimi posti nella considerazione di tutti. Ed infine la luna di miele. Nel caso della luna di miele, tutto il tempo è dedicato dalla coppia, come avventurosa ultima parte del rituale, ad un viaggio in una città vicina, con tante cartoline spedite in particolare a chi li avrebbe invidiati, ed a passeggiate in piena libertà.” Già. E lui, ai suoi tempi, la luna di miele l’aveva celebrata, con la moglie accanto, a zappare per l’intera settimana, se non altro in un campo fuori paese, l’unica cosa in comune, anche se ben poco avventurosa, con l’ozioso rituale d’oggi. “Ed infine le ferie estive. Chi può permetterselo, per accentuare la propria posizione di privilegio, ha preso l’abitudine di recarsi in villeggiatura, preferibilmente al mare, a godersi le prime resse e le prime scottature; ma poi ultimamente anche in collina, a prendere un po’ d’aria buona; e, per gli incontentabili, ma sono per ora proprio pochi, persino sulle grandi montagne, tanto lontane da qui, a vivere come i camosci, che è quanto si dice più per invidia che per incredulità. Sono comunque le visite alle città, più o meno vicine, alcune dai nomi proverbiali, che, per le meraviglie raccontate al ritorno con insopportabile enfasi, suscitano dapprima interesse e poi una sorta di fastidio per l’insistenza prolungata a dismisura. Con una città come quella che abbiamo tanto a portata di mano, che non ha nulla da invidiare a nessun’altra... Lo posso ben dire anch’io. Tutta gente, questa, che, fino a non molto tempo fa, ti salutava con tanta cortesia e che ora finge di non vederti, le volte in cui mi reco in paese, anche se gli passi sui piedi.” A questo punto l’oste fece chiaramente capire d’aver esaurito l’argomento e si allontanò scusandosi per ritornare in tutta fretta nell’osteria, dov’erano da poco entrati due clienti.

Egli continuò a rimanere seduto al tavolo, bevendo a piccoli sorsi il suo ultimo bicchiere di vino. Quel richiamo alle ferie non poteva non riportare alla sua mente una lontana avventura. Data la stagione ad esse dedicata, le ferie lui le aveva passate al macero, immerso nell’acqua putrida fino al petto, anno dopo anno. Una volta solamente ebbe la sorte di allontanarsi per qualche mese. Per certi lavori, lavori di sterro e di arginatura di un grosso fiume al di là del Po, tutte le nottate fra la domenica e il lunedì le aveva trascorse a percorrere a piedi l’enorme distanza, con gli strumenti di lavoro, una carriola ed un badile, assieme ad una comitiva allegra e spensierata di giovani della sua età. Immersi nel silenzio della notte, paese dopo paese, attraverso campagne che appena emergevano dal buio, arrivavano a destinazione all’albeggiare. Rientravano a fine settimana. Nessuno di loro aveva mai pensato di spedire cartoline, e di città, lungo il loro percorso fuori mano, non ne avevano mai incontrate. Egli comunque, ma per ragioni tutte particolari, aveva avuto modo di scorgere di lontano – senza poterli mai visitare – i monumenti della vicina città quando, di tanto in tanto, vi si recava per incontrarvi un suo nipote, che poteva ben dire d’aver cresciuto in casa sua, divenuto poi arciprete in una parrocchia vicino al centro della città. Li intravedeva ogni volta, come isolati dal resto. Il suo interesse era attirato piuttosto da realtà ben più umili e vicine, in cui riconosceva qualcosa del suo mondo. Uno stridente contrasto.



IV

Il sole stava lentamente scendendo verso l’orizzonte. I due ragazzi, lasciati soli dai genitori entrati nell’osteria, avevano da qualche tempo iniziato a masticare qualcosa con fanciullesca ingordigia, boccheggiando come due pesciolini fuor d’acqua. Egli li osservava incuriosito, pensando alle tante volte in cui forse un ragazzino l’aveva un tempo osservato con la medesima curiosità, mentre masticava il suo ruvido tabacco con la stessa soddisfazione. E si ricordò che quel buffo cerimoniale aveva già attirato la sua attenzione quando, nelle serate domenicali, durante la buona stagione, i giovani del luogo, la generazione a cui egli un tempo aveva augurato un futuro migliore,usava passeggiare avanti e indietro per le due centinaia scarse di metri dello spiazzo sul quale si affollano le case del paese. Mentre, sotto le poche lampadine che a fatica lo rischiaravano tutto, le loro ombre in movimento si allungavano a dismisura, per sparire d’improvviso e ricominciare subito ad allungarsi - in un curioso gioco di luci e di ombre che egli aveva ogni volta osservato, seduto su una delle vecchie panchine poste ai lati - essi, fra i saluti ed i cicalecci, usavano anche loro buttarsi fra i denti qualcosa di appiccicaticcio per masticarselo con la medesima dedizione ed il medesimo impegno. Poi, d’improvviso, i residui, ancora appiccicaticci, venivano sparati via di bocca con straordinaria abilità e con una altrettanto assoluta noncuranza,dove capitava capitava, o raccolti fra le dita e spalmati sugli spigoli delle case o, ancor meglio, fra le liste di legno delle poche panchine sistemate sullo spiazzo.

Con conseguenze che i “beati loro”, come usano definirli con qualche rimpianto i genitori, al loro pieno affacciarsi alla vita in un periodo tanto fortunato, non avevan pensato o,più esattamente, avevano trascurato di pensare ma che a lui causavano non pochi inconvenienti. Quanto facevano ora i due ragazzi di città, che, esaurito quel cerimoniale in modo invero più educato, passavano a bere dalle loro due bottigliette, a piccoli sorsi, lentamente, un liquido color marrone dal nome reclamizzato in tutte le maniere, era quanto egli aveva previsto, perché, invariabilmente, quelle bottigliette, prelevate in questo caso dai bar, che ne erano sempre fornitissimi, eran sorbite con voluttà e con studiata lentezza anche dai giovani del paese. Che poi, con gesto repentino, le scagliavano per ogni dove, a rotolare e magari a frantumarsi sotto le macchine in sosta o sui marciapiedi. Con supremo spregio, da parte dei “beati loro”, dei poveri bidoni bene in vista, che rimanevano desolatamente vuoti. Poi quella balda gioventù - studenti ovviamente, ma anche operai, contadini ed artigiani, con le loro immancabili accompagnatrici, bravissime nell’emularli, si allontanava e si sparpagliava, incurante delle altrui proteste e della rabbia dello spazzino di turno, quest’ultima rimandata al mattino del lunedì. Un comportamento che gli richiamava alla memoria certi aspetti inquietanti della più recente fra le molte novità piovute a getto continuo a sconvolgere le abitudini del paese. In una piccola sala della chiesa parrocchiale, stipata all’inverosimile da una folla di spettatori seduti su lunghe panche o addossati ai

muri, alla buona ed in allegria, venivano proiettate, con scadenza bimensile e ad offerta libera su di un minuscolo schermo appeso a mezz’aria, le esibizioni applauditissime di un qualche comico straniero. Le sue buffe acrobazie e le sue smorfie erano spesso accompagnate da scritte che venivano compitate a fatica dagli spettatori, a voce spiegata, con frequenti esitazioni, come fossero una pagina del sillabario che passasse sotto gli occhi di uno scolaretto alle prime armi. Vi aveva assistito qualche volta, con puntuali ritardi e sostando vicino all’ingresso, appoggiato al muro, per potersene andare in qualsiasi momento. E tutto questo per accontentare il suo estro malizioso, stavolta però un po’ più consenziente e cordiale: perché, trascurando di proposito lo schermo, egli ritrovava ogni volta in quelle plebiscitarie ed esitanti esercitazioni orali, fra una risata e l’altra di quelle che fanno buon sangue, l’aspetto veramente esilarante che vi era andato a cercare. Ma qualcuno aveva annusato l’affare, un borghigiano del mestiere, che non aveva voluto lasciarsi sfuggire l’insperata occasione di approfittare anche lui, in quello che era ormai diventato il paese di Bengodi, di una promettente clientela così a portata di mano. E così, accuratamente preceduto da sgargianti avvisi pubblicitari, si era da poco inaugurato un cinema nuovo di zecca,ricavato all’interno del solito inesauribile mulino abbandonato, in una sala spaziosa, con comode poltrone allineate con ogni diligenza. La frequenza era bisettimanale, il giovedì e la domenica. Ma invece del sorriso pacioso ed invitante del parroco sulla porta d’entrata della sua sala e del cestello per l’offerta libera, ora, piantato a gambe larghe sul vano d’ingresso, c’era chi, offrendoti un biglietto numerato, ti presentava sotto il mento il palmo aperto della sua zampaccia destra, con gesto molto eloquente. Sillabava nel contempo, lento ed annoiato, una cifra non certo esigua, oltre che tutt’altro che libera: intascata con ogni cura la quale, te lo buttava fra le mani senza tante cerimonie, affidando poi ad un altro sconosciuto l’incarico di indicarti, annoiato e con gesto distratto, il tuo posto a sedere, che raggiungevi infastidendo mezza platea. Aveva la valida scusante della vista debole per non sottoporsi a

quella perentoria mancanza di garbo ed a quella disciplina da caserma, alla quale tutti si adeguavano senza batter ciglio. Del resto questo rispondeva in pieno agli scopi affatto altruistici che stavano all’origine di quell’iniziativa. E talvolta assisteva sornione alla calca davanti all’ingresso: gente in giacca e cravatta o timido decolté come andasse ad un ricevimento, con gruppi familiari al gran completo, i giovani rampolli d’ambo i sessi in bella mostra, perché si godessero anche quella novità che gli offriva la vita, una delle tante cose che a loro erano mancate. Tutto questo sotto l’occhio allibito di chi transitava da quelle parti. Ma ultimamente aveva preso l’abitudine di osservare con attenzione gli enormi cartelloni incollati al muro, che, accanto al titolo del film, ne illustravano alcuni episodi, allineando nomi impronunciabili di attori e di attrici, o, molto più spesso, esibendo gli irresistibili baffetti arricciati o le biondissime chiome di protagonisti troppo vistosi per essere anche dotati, affidando loro l’incarico di farsi pubblicità da soli, per quel pubblico di bocca buona. Era questo che la gente andava a cercare? E lì, più di una volta, erano apparsi, in primissimo piano, gruppi di sconosciuti in giovane età, in atteggiamenti e con volti che sembravano da soli una sfida al mondo intero, scamiciati e scomposti nei colori scintillanti dei manifesti. Erano quelli i modelli ai quali si ispiravano i loro coetanei del paese, sostituendo opportunamente minacciosi propositi con atteggiamenti al massimo maleducati, meritevoli tutt’al più di qualche scapaccione ben assestato? La giovinezza ha i suoi diritti, che sono i diritti di chi si affaccia alla vita con un entusiasmo ingenuo ma trascinante, ed egli, quei diritti, li aveva animosamente sostenuti ai suoi tempi: ma quelle manifestazioni caricaturali della gioia di vivere ogni volta puntualmente lo immalinconivano. Evitate le nere uniformi e l’insulso passo marziale finiti sepolti nel ridicolo, i timidi e spaesati bimbetti e le bimbette ingrugnate di un tempo non erano ora vittime indifese ed abbandonate a se stesse di un’epoca troppo arrendevole e compiacente, distratta dal benessere? Nulla di tutto questo meritava o comunque sollecitava il suo spirito curioso e la sua indulgente ed accomodante arguzia: o forse i tempi correvano ormai troppo veloci per lui, come gli sfuggissero di mano. Ma a questa ipotesi non intendeva ancora arrendersi.

I genitori erano intanto usciti dall’osteria per allontanarsi in macchina, assieme all’oste, che aveva lasciato alla moglie l’incarico di sostituirlo oltre che di vigilare sul comportamento dei due ragazzi; essi avevano preso a correre lungo i filari di olmi, felici di poter disporre di tanto spazio libero, tutto per loro. Brava donna, ma lei pure gran chiacchierona, l’ostessa si era ora seduta accanto a lui e, osservando con un gesto di riprovazione l’orribile abbigliamento della ragazzetta, s’era messa a criticare le abitudini dei cittadini, e aveva per l’ennesima volta iniziato a parlare delle sue traversie di cameriera in un grande albergo della città. Per sua fortuna aveva dovuto alzarsi per richiamare i ragazzi ed era poi rientrata nell’osteria, dove presto avrebbero iniziato ad arrivare i primi clienti abituali della sera. La ragazzetta, a questo punto, deposto l’enorme copricapo, liberando così una capigliatura straordinariamente abbondante e morbida che le scendeva fin sulle spalle,s’era posta al centro del pergolato, e, mentre il fratello batteva le mani con calcolate pause, si era abbandonata ad una esibizione ritmica, con movenze molto misurate, pur entro quella sgraziata palandrana che la fasciava, mentre le gote le si imporporavano e i capelli le danzavan sul volto. I suoi piedi, pur sul fondo irregolare del lastricato, si muovevano con sorprendente naturalezza. Alla fine, egli si trovò ad applaudirla, quasi senza rendersene conto, e lei gli rispose con un inchino. Poi si rituffò in testa il suo buffo copricapo. Le sue movenze così spontanee e naturali, pur entro quel goffo abito, gli riportavano alla mente le ragazze della sua lontana giovinezza, che, così poveramente vestite, erano in grado di liberare dal loro corpo una grazia naturale che conquistava. Erano i miracoli che sapeva operare la spontaneità, sacrificata ora ai calcolati capricci della moda. Pur con possibilità infinitamente maggiori, ora si assisteva ad una sconsolante eclissi del buon gusto, mentre aumentava a dismisura la vanità.

L’esibizione della ragazzetta ed i commenti poco benevoli dell’ostessa nei confronti del suo vestito e della moda cittadina in genere avevano avviato le sue riflessioni su di una china obbligata, come certi scivoli nelle fiere. Seduto ancora al suo posto ed apparentemente impegnato soltanto ad ammazzare il tempo, come se quanto lo circondava non potesse avere per lui alcun interesse, in realtà egli stava ora per dare inizio, a fior di labbra, ad una lunga chiacchierata con se stesso. Evidentemente i fumi del vino bevuto in quell’ormai lungo pomeriggio, per tante ragioni straordinario ad iniziare dall’invito inusuale dell’amico a ritrovarsi in quel luogo, avevano contribuito a stimolare la sua naturale curiosità ed il suo interesse, tanto da inchiodarlo ancora alla sedia ed a fargli ritardare l’ora del rientro. Da quel momento, le impressioni più diverse avrebbero allegramente danzato nel suo cervello in eccitazione, con effetti dei quali, a mente fredda, si sarebbe poi sicuramente un po’ sorpreso. Egli era entrato in quella condizione al tempo stesso di torpore e di benessere, in cui, nella mente sgombra da ogni altra preoccupazione, si presentavano con grande evidenza, scivolando l’uno sull’altro, gli stimoli, come anche i ricordi,che avevano occupato tutto quell’interminabile pomeriggio. Il sole era giunto a sfiorare i tetti delle case contadine, sul fondo dell’orizzonte, e, più vicino, i lunghi filari di olmi. Ora l’aveva davanti a sé, all’altezza dei suoi occhi, enorme e rosseggiante. Gli era familiare quel suo ultimo sguardo al mondo che si lasciava alle spalle, prima di eclissarsi definitivamente. Lo andava fissando, facendo schermo della mano agli occhi esitanti, e gli sembrava quasi di poterlo toccare, tanto gli appariva vicino. Sorridendo gli venne fatto di pensare che a lui avrebbe potuto rivolgere le sue confidenze, in piena libertà, dato che ogni giorno era abituato a vederne di tutti i colori. Confidenze su quanto riguardava quel minuscolo ritaglio di mondo, in cui era stato confinato a vivere fin dalla nascita, dove avvenivano cose che forse in altri luoghi non avvenivano. Ad esempio, può succedere anche fuori del suo paese che, in cerca di più facili guadagni, relegati in un canto i giornali di partito che nessuno più legge, essi vengano sostituiti nell’edicola da riviste di moda allineate in bella mostra, con le copertine lucide ed ammiccanti come una tentazione?

E che subito le donne che, per un improvviso capriccio della fortuna se lo possono permettere, abbiano cominciato da un giorno all’altro, come temendo d’arrivar tardi, a mutar d’abito? Ed abbiano riempito la strada, perché è lì che occorre esibirli, come in una sfilata senza fine, dei vestiti più stravaganti - miracoli di improvvisate modiste - indossati oltretutto con il sussiego di chi non possiede il minimo senso del buon gusto? E, per sovrapprezzo, degli orribili cappellini, di ogni forma e di ogni colore, portati in giro con ridicola baldanza? E dove, come ultimo ritrovato,si arrivi a far uso di tinte per trucco che hanno la virtù di mutare un volto in una ambulante tavolozza

dagli accostamenti di colore i più bizzarri ed inimmaginabili, come quelli di cui facevano sfoggio nelle fiere i buffoni dei tempi andati, che perlomeno si riducevano in quello stato per strappare le risa a pagamento? E tutto questo anche allo scopo di far bella mostra di sé nel borgo, nei salotti che contano? Il sole intanto, come fosse soddisfatto per aver terminato il suo orario di lavoro anche per quel giorno, ridotto ormai ad un pallido disco informe, accomodante e bonario, tanto diverso da quello infiammato e vorticante nello spazio, sembrava fosse solo desideroso di andarsene per un poco, per non continuare ancora a vedere, nei suoi continui giri d’ispezione col buono e col cattivo tempo, tutto quello che accadeva al mondo. Ora era quasi del tutto sparito sotto l’orizzonte, e sembrava volgervi il suo ultimo sguardo, indifferente ad ogni stravaganza, ed anche forse a quei suoi strampalati interrogativi, per l’esperienza che s’era fatta di ben altre cose. Si avvertivano intanto i primi aliti della sera che avanzava. Si riscosse e si guardò attorno, riprendendo a poco a poco contatto con la realtà. Ma non poté evitare di riportarsi, con un acuto senso di fastidio, ad un ricordo che il lungo vaniloquio di poco prima aveva risvegliato quasi suo malgrado. Egli stesso aveva avuto occasione di passare da uno di quei salotti, arrampicati sotto i tetti degli antichi palazzi gentilizi, e raggiungibili attraverso interminabili rampe di scale. L’aveva convocato il padrone di casa, un proprietario terriero una volta potente ed ansioso di recuperare l’antico prestigio: intendeva conoscere la sua opinione di esperto in materia di animali da tiro e da stanga. Si era trattenuto giusto il tempo per evitargli di commettere uno sproposito per i tanti imbroglioni che avrebbe sicuramente incontrato sulla sua strada. Era stato accolto con sospetto – quello lì fra di noi, qui! – da un piccolo gruppo di sconosciuti, col loro bicchiere in mano, muti e come imbalsamati. La caricatura di un mondo che aveva fatto il suo tempo. Aveva avuto l’impressione di un cerimoniale dove ognuno rappresentava una parte in cui ormai non credeva più. Se ne era andato con un senso di sollievo: voleva allontanarsi in fretta da quel sentore di stantìo, derivato forse dalle enormi carte da parati incollate ai muri e dall’odore di chiuso che impregnava l’aria. Da una finestra, ad una svolta di una delle rampe della scala, aveva potuto osservare l’umile e vigoroso distendersi, in basso, dei tetti irti di camini delle case in affitto, popolate da gente come lui. D’esser ricevute in quelle dimore divorate dalla noia smaniavano dunque le nuove dame di paese.

Ma erano trascorsi tanti anni da quel lontano pomeriggio. Sicuramente anche là ci si era adeguati ai tempi e tutto doveva aver assunto un aspetto che egli non avrebbe riconosciuto, ma che si prestava a ricevere quelle ospiti, villane rifatte a nuovo. Con tutti i ritrovati che potevano servire all’occorrenza, un comodo ascensore in primo luogo, per evitare fatiche plebee alle quali non tutti intendevano sottoporsi.

Intanto i due ragazzi si erano riavvicinati al loro nuovo amico, che per tutta risposta aveva ripreso a dondolare felice il suo testone. Ma quando, spinti dalla curiosità, essi avevano preso ad esaminare con estrema attenzione il carretto ed a studiarne ogni singolo particolare, l’animale, obbedendo soltanto all’impulso dettatogli dalla natura e beatamente ignaro delle remore e degli impedimenti imposti dalla convenienza, si scaricò rumorosamente di quanto gli riusciva ormai troppo ingombrante. Mortificati e sorpresi, i due si erano allontanati di corsa e, sedutisi al tavolo, stavano confabulando fra di loro, di tanto in tanto sogguardando l’incolpevole bestia, che, solenne ed indifferente, perfettamente in pace con se stessa, ora non li degnava di un sol attimo di attenzione. Si faceva sera. Qualcosa di quel tranquillo spettacolo serale lo colpiva. Alla malinconica e fioca luce autunnale illanguidiva davanti a lui l’immagine di quel minuscolo mondo, che si stringeva attorno al suo campanile, oggetto di un insieme di emozioni tra loro tanto diverse da lasciarlo sconcertato. Fra chi abitava entro i suoi confini si trovavano coloro che erano stati bersaglio di infiniti dileggi e di battute sarcastiche per tutto quel pomeriggio. Giuste od ingiuste che fossero, obiettive o dettate da rancore o da invidia. Anche lui vi aveva avuto la sua parte, divertendosi e soffrendo al tempo stesso. Ma là abitavano anche persone che egli stimava e da cui era stimato, con le quali aveva in comune abitudini e mentalità, anche se i capricci del suo estro ne avevano colto talvolta le piccole manie, le ingenuità e le veniali furberie. Soltanto le prevaricazioni e le imposture o i folli progetti politici del passato, come ora la precipitosa rincorsa dietro ogni novità e l’irragionevole asservimento alla tirannia di mode passeggere avevano scatenato e ancora scatenavano il suo risentimento.



V

Ma era giunta l’ora di andarsene. Già si era avvicinato all’asino, salendo sul suo carretto ed apprestandosi ad afferrare le redini. Ma in quel momento si fermò, alle sue spalle, la grossa automobile: il tempo di salutare e ringraziare l’oste, con i consigli del quale era stato evidentemente tentato qualche approccio, di raccogliere i due ragazzi, e la macchina, ancora a motore acceso, si sarebbe riavviata, attendendo di superarli, una volta che il carretto si fosse mosso. Ma intanto l’asino, che aveva evidentemente deciso di vivere quella serata da protagonista, si era impuntato e non intendeva assolutamente muoversi, quasi che aspettasse che quella ruggente e potentissima legione di cavalli-vapore,che gli premeva alle spalle, avesse prima tolto il disturbo. Come finalmente avvenne. In casi come questi infatti era irremovibile. Del resto gli si era affezionato proprio per quella sua protervia, per quella cocciutaggine con cui difendeva, a modo suo, come aveva d’altronde sempre fatto anche lui, la propria indipendenza. Tante volte aveva dovuto attendere che, dopo essersi impuntato senza spostarsi di un centimetro, d’improvviso, con uno strattone di cui lui solo poteva conoscere le ragioni, si fosse deciso a balzare in avanti, costringendolo spesso a rincorrerlo. Quella volta, ma soltanto quando l’auto lo superò, l’asino decise che era giunto il momento di avviarsi. Del resto, la loro guerra privata con le automobili, che, suonando più volte il clacson, sfrecciavan poi via superandoli impetuose mentre chi era alla guida non li degnava di uno sguardo, era iniziata da tempo, da quando avevano preso l’abitudine, quelle cialtrone avventate, di transitare anche sulle strade secondarie e di avventurarsi fin sui viottoli, ed in numero sempre maggiore. Si era perduto troppo in fretta il senso della misura: era sempre più una stupida gara a chi, magari esponendosi a noie di ogni genere, poteva vantare il motore più potente e darne prova senza tener conto dei rischi a cui esponeva se stesso e più ancora lo sventurato che si permetteva di incrociarlo. Durante la settimana lavorativa, tutta impegnata a far soldi, alcune di esse, comodamente sistemate nelle loro vaste rimesse, rilassate ed indolenti, erano comunque sempre oggetto di ogni attenzione e lucidate con cura per il grande evento, l’uscita in pompa magna, a clacson sempre spiegati, per la domenicale parata. Con soppesata noncuranza e frequenti reciproci sorpassi sempre più arditi, come si trattasse di duelli in cui ci si giocava la propria reputazione. Tutte allineate, alla fine, in aristocratico schieramento sullo spiazzo centrale, per l’occasione liberato da sconvenienti intrusioni, ad evitare che le meschinelle di bassa cilindrata e di banale sagomatura osassero frammischiarsi. A poca distanza dalla chiesa, dove era doveroso farsi vedere fra la

gente che contava, alla sola messa che loro si addiceva, l’ultima –che gli altri malignando chiamavano la messa dei poltroni. Meglio, però, non essere presenti di persona ai focosi diverbi che immancabilmente procuravano, una volta usciti di chiesa, i reiterati e goffi tentativi di svincolarsi in quella baraonda, dove nessuno intendeva cedere il passo e dove apparivano chiari i limiti di mani per troppo tempo abituate alla cavezza. Poi, bene o male, il rientro, con la rabbia che esplodeva in ulteriori rivincite e dileggi. E si infervorava, masticando il suo tabacco e ridacchiando fra sé e sé. Ed osservava il suo asinello, esempio di moderazione e di prudenza, che proseguiva il percorso a testa china, come inseguisse qualche suo ricordo, ma tendendo le lunghe orecchie ad ogni minimo rumore. Li incrociava proprio in quel momento, dopo il rituale e ripetuto strombettare di clacson, come potesse temere di venire investita, una di quelle privilegiate, strappata alla sua dorata prigione per ragioni a lui sconosciute. Ogni tanto gli poteva capitare di incontrarne anche fuori del giorno consacrato alla loro trionfale celebrazione. Cogliendo l’occasione per rimuginare ogni volta entro quel suo instancabile cervello su quanto poteva colpire la sua suscettibilità, gli venne fatto di fissarsi nel suo risentimento su quella che era per lui occasione frequente di irritazione. Fra il serio ed il faceto, come era nel suo costume: ‘Non sempre a quelle pelandrone va così bene: a poche decine di passi da casa mia, al centro di una piccola foresta di peri, la cui resa aumenta di anno in anno, quel mio intraprendente vicino, lo squadrista di un tempo,ha ricavato per l’autorimessa uno spazio spropositato nella sua villetta, nuova ed ancor lucida di vernice, da far vergogna ogni giorno più alla mia umile catapecchia, che amo comunque molto più di quanto egli possa mai amare la sua, dove non è nato. E tutto questo perché possa ospitare, almeno per il momento, poi chissà, il suo macchinone da parata ed una piccola auto buona per tutti i giorni. Ha venduto il suo bel cavallo da tiro, ricordo importuno dei tempi della gavetta, con cui era solito uscire appena faceva giorno. Ed ora le mattine del giovedì e del sabato di ogni settimana che registra il calendario, nessuna esclusa, anzi le primissime ore del mattino – il tempo è danaro – la sua maestosa fuoriserie emette d’improvviso possenti ruggiti, che strappano puntualmente dal sonno tutti gli sventurati abitanti del vicinato. Immancabilmente quell’insopportabile fracassa-timpani si abbandona poi a provvidenziali cali di pressione – fino ad un sussurro appena avvertibile – e, per la mano ancora poco esperta di chi la tortura, a nuove improvvise furenti impennate, frammiste a stizzose imprecazioni non sempre e non solo di quell’incapace. Prima di avviarsi, solenne, sul solido strato di ghiaia che le appartiene, a conquistarsi la strada asfaltata. Attirandosi, nel contempo, non soltanto maledizioni di ogni sorta, ma risvegliando da ogni dove il ringhioso latrato – vero culmine della cagnara, putiferio senza rimedio – di una infinità di cani da guardia, da caccia, da passeggio, da compagnia, da esibizione – dal nobile mastino giù giù fino alle racchie e pelosissime cagnette di infimo rango – altra geniale riuscita dell’aria nuova che spira entro tutti i recintatissimi meleti e pereti e pescheti sparsi un po’ ovunque. E la ragione per cui provoca ogni mattina quel finimondo? Per andare a sorbirsi, a digiuno, una tazzina del chicco tostato color marrone – quello di gran marca, s’intende – nel bar più in vista e mattiniero

del borgo, dove, a quell’ora, si raccoglie, dalle zone circostanti, la plebe più distinta per redditi ed affari, veri pidocchi rifatti, assieme a tutte le loro macchinone, piazzate alla bell’e meglio fin sui marciapiedi. Senza dire che, di bassa statura com’è, per tutto il tragitto – andata e ritorno – se ne sta, impavido, aggrappato al volante, e, quando

finalmente accompagna la ragione della sua vita in garage, lo fa nell’atteggiamento sofferto di un timoniere che guida in porto un bastimento. E che squilli di tromba per significare a tutti il suo rientro...! Poco dopo inizia la sua giornata lavorativa, sbracciandosi e litigando con tutti.’ Si era lasciato alle spalle la campagna quasi disabitata, con i suoi silenziosi casolari, ed anche questa volta veniva subito investito -bentornato inevitabile - dal tripudio canoro delle tante radioline in perfetta sintonia e dalle innumerevoli varianti sonore dei giradischi a volume spiegato, eredi diretti dei garbati ed innocui grammofoni, in quell’ora in cui si aprivano porte e finestre a salutare la sera. Ed intanto, lungo i filari dei frutteti, camminando per gli stretti sentieri erbosi, le ragazze intonavano, con la loro bella voce flautata, le canzoni più in voga, cori vicini e lontani che si inseguivano e si intersecavano. Così che era tutto un volare di bianche colombe, un timido esibire mazzi di rose rosse o un riandare a vecchi scarponi dimenticati; e non mancavano baveri color zafferano e marsine color ciclamino, vecchie pianole che inteneriscono i cuori e semplici canzoni da due soldi che si cantano per le vie dei sobborghi. Lo accompagnava fino alla soglia di casa quella fresca ondata di felicità fatta di nulla, mentre egli riandava alle lente e romantiche arie della sua giovinezza, o a quelle malinconiche del tempo di guerra, piene di tristi presagi. Fra poche ore, poi, negli angusti locali ricavati all’interno dei bar, la televisione – ultima arrivata – avrebbe presentato a stipati ed accaldati spettatori tutt’occhi e tutt’orecchie, l’ennesima puntata di un concorso a premi interminabile, che accendeva le fantasie, facendo sognare attimi di gloria ed elevando storditi concorrenti al rango di eroi. Per una simile circostanza si sarebbe raggiunto il paese in massa, sgomitando senza ritegno per assicurarsi i primi posti, come imponeva l’avvenimento, a trepidare per fortune effimere e cangianti, oggetto poi di interminabili discussioni. Si appisolò, vinto dalla stanchezza. Aveva abusato delle proprie forze. Nell’intrico di stradelli e di viottoli che ora l’avrebbero riportato fino a casa, polverosi d’estate e fangosi d’inverno fino a diventare quasi intransitabili, il suo compagno di viaggio avrebbe forse rallentato in qualche tratto il passo, ma delle redini non avrebbe avuto più bisogno. Conosceva ogni piega del sentiero ed ogni ciuffo d’erba sui cigli, fin da quando, appena svezzato, egli l’aveva posto accanto alla madre per abituarlo alla stanga. Si addormentò di colpo, sprofondando in un sonno pesante.

A dominare quel suo pomeriggio per tante ragioni straordinario era stato l’intricato groviglio delle sue più radicate convinzioni, messe ogni volta a confronto con opinioni od episodi casuali, e legate fra di loro dal filo della memoria, che si era andato srotolando senza posa, tanto da non poter essere sempre trattenuto. E, fuor di metafora, il risultato di quell’interminabile inseguire frammenti della sua memoria, recenti o lontani nel tempo, era molto simile ad un caotico accumularsi di risentimenti, di malizie e di piccole cattiverie, di ammiccamenti e di allegre battute, sorrette tutte da una ironia lucida ed attenta, che trovava sempre facili bersagli. Se poi qualcuno gli avesse chiesto la ragione di quella sua ostinata insofferenza, si potrebbe giurare che il buon vecchio, con un suo pittoresco gesto della mano, come volesse allontanare qualcosa di irritante, avrebbe risposto d’impeto che a quella insofferenza, a quelle scanzonate rivalse ed a quel robusto sfogo ristoratore ricorreva per tutelarsi e ritrovare il suo buonumore, rivestendo di un caustico sorriso anche quanto non meritava la sua attenzione. Contro ogni forma di soperchieria e di prepotenza, di vaneggiamenti e di illusioni, ma anche contro tutte le balordaggini che passano per scaltrezza. A suon di ghigni e di piccole risate, di brontolii e di mugugni sotto i suoi complici baffoni, impassibile e come assente da quanto lo circondava, e non per mancanza di coraggio, ma per non abbassarsi a biliose contese da strada. Dalle maldicenze contro chiunque lo rendevano immune il suo orgoglio e la sua correttezza. Inflessibile nel tenere a debita distanza da sé chi meritava il suo disprezzo, come quando per liberarsi dal catarro lo si sputa il più lontano possibile. Ma quando gli si scatenava dentro l’estro, questo era tanto intemperante e senza regola, che, se non l’avesse trattenuto per i capelli, chissà dove l’avrebbe trascinato. Cercava in ogni caso di difendere la sua libertà di giudizio, affrontando consapevolmente anche il rischio di non trovarsi al passo coi tempi ed addirittura di inimicarsi chi, quei tempi, li aveva inseguiti a corpo morto, magari senza comprenderne le ragioni. Non si doveva comunque scordare che l’età dei ghiribizzi e delle ripicche l’aveva raggiunta anche lui, malgrado si sforzasse in tutti i modi di non farlo pesare a nessuno, portando ancora in giro quella sua maschera di censore divertito e bonario che continuava ad ispirare fiducia, ed affidandosi soltanto alla malizia sottile di certe sue battute pronte e sornione, sempre accompagnate da un sorriso a mezza bocca. Fino a quando, lui stesso non avrebbe potuto dirlo.

Si svegliò quando davanti a lui nell’ombra già si profilava a distanza la sua casa, l’unica dalla quale, attraverso le finestre spalancate, non filtrava alcuna luce. Sembrava una casa abbandonata. Giunti sull’aia, condusse l’asino davanti al ripostiglio dove era solito sistemare il carretto e l’accompagnò nella stalla. Dopo aver accudito ai bisogni di quella povera bestia e ripulita la greppia, ne uscì e, avviandosi verso la porta di casa, fissò per un attimo un suo

pruno selvatico, lì da tanti anni ormai, intisichito ed irto di spine, generosissimo di frutti imbozzacchiti ed aciduli, che egli usava mangiare con una avidità che sapeva quasi di rivincita Lo guardava come fosse un suo complice: nella sua ostinazione sopravviveva quasi per dispetto, a poche spanne dalla robustissima rete che lo divideva dal frutteto del vicino, come a sfidare, con le sue poche foglie stente, sfiorandole, le piante giovani e perfette, con i rami ricoperti di floride foglie. Cocciuto, come lui. Accarezzò anche le pietre nude della casa, la sua vecchia tana, comela chiamava. Per poco tempo ancora avrebbe dovuto vergognarsi della sua vicina. Egli aveva donato al nipote, perché lo lavorasse al posto suo, il campicello ed anche la casa, perché venisse ad abitarvi, con l’impegno di ristrutturarla al più presto, non prima comunque che si fosse liberata, fosse cioè rimasta vuota “a causa del decesso degli attuali occupanti”, come si desumeva dall’atto notarile al riguardo, perentorio e fin troppo chiaro.



PARTE TERZA

I

Raggiunse la porta. Rientrava con un forte ritardo, eppure dovette farsi forza per aprirla, non attendendosi altro che quanto vi aveva sempre trovato da tanto tempo a quella parte: una povera vecchia quasi cieca, distrutta dalle traversie della vita e di salute sempre più cagionevole, che gli incuteva pietà ed al tempo stesso un senso sempre più forte di impotenza, per il pianto sommesso con cui l’accoglieva ogni volta, abbandonata su di una sedia, a testa china, senza nemmeno la forza di rispondere al suo saluto. Entrò in cucina e si sedette, piuttosto imbarazzato. S’aspettava che reagisse con un gesto di impazienza o con uno sguardo di muto rimprovero, come si sarebbe meritato, tacitando così in qualche modo la propria coscienza: lei invece si limitò a cercarlo con i suoi occhi spenti ed a riassestarsi sulla sedia, visibilmente sollevata e quasi riconoscente. Avrebbe preferito un colpo di frusta in pieno viso. La sua mitezza indifesa l’aveva sempre preoccupato e quasi offeso: gli era sembrata un sintomo di fiacchezza. Avrebbe tollerato ogni altra reazione piuttosto che quella dolente docilità. Andava anche rimproverandola con forza, per scuoterla dalla prostrazione e dalla apatia in cui sprofondava ogni giorno più. Aveva addirittura tentato di riportarla ai momenti felici del passato, o di parlarle con pazienza instancabile di tutto quanto avrebbe potuto distrarla, sforzandosi anche di cercare un tono il più possibile disinvolto. Solo il rispetto per il suo dolore lo aveva trattenuto, pur avendo l’intenzione di divertirla, dallo scimmiottare un buffone da circo. Ma questa volta, nel suo atteggiamento, leggeva una risposta tanto piena di dignità da sentirsi umiliato. S’era anche reso conto che, per fargli trovare tutto in ordine al suo rientro, in sua assenza spazzava, strofinava e lavava in continuazione, non fidandosi dei suoi poveri occhi. Non le faceva mancare nulla, dalle medicine e dagli alimenti consigliati dal medico a quanto d’altro potesse aver bisogno. A lui bastava quanto gli forniva il campicello ed il piccolo pollaio, in una casa dove di abbondante c’era soltanto il vino. Tutto questo non poteva che fargli sentire come una liberazione il tempo che passava sul suo carretto per qualche piccolo trasporto. Pur se la cosa gli procurava ogni volta un senso di colpa, come se si trattasse di una diserzione, doveva riconoscere che anche la propensione e quasi il bisogno di mescolarsi ogni tanto fra la gente gli serviva per dimenticare. L’osservava a lungo, mentre lei sembrava andasse cercandolo con il suo sguardo incerto e quasi spento, per ritrovare in quel corpo disfatto ed incurvato qualcosa di quello forte e snello della bella ragazza di un tempo. Le fatiche e le prove della vita l’avevano irrimediabilmente segnata. La morte prematura del loro unico figlio, che ora sarebbe stato un uomo fatto, l’aveva accasciata senza rimedio non riuscendo a farsene una ragione, malgrado tutti i suoi sforzi, dalla dolcezza fino al rimprovero, per aiutarla a riprendersi. Non riusciva a rassegnarsi. Al funerale era stata presente una vera folla. Vi aveva intravisto, ai margini, anche il suo vicino. Quelli con i quali ci si poteva quasi salutare a voce dalle finestre spalancate, in quella fitta scacchiera di piccoli appezzamenti tutti uguali ed i tantissimi conoscenti avevano continuato a manifestargli la loro solidarietà.

Ma erano ormai trascorsi tanti anni da quella tarda mattinata. Da allora, ogni domenica, usciti dalla messa, raggiungeva con lei sul carretto il vicino cimitero, con un gran mazzo di fiori di campo. S’aggrappava alla tomba, e doveva farle dolcemente forza per allontanarla. Lo seguiva docile, ma continuamente si volgeva indietro prima di risalire sul carretto. La notte ne udiva, nel sonno, il lungo pianto sommesso. E, durante il giorno, la sorprendeva a fissare, a lungo, una vecchia immagine sacra appesa al muro, ad implorare un aiuto contro la sua disperazione. E quanto faceva per tutta la giornata, in cucina come sull’aia, evitando di farsi vedere e rientrando al più presto, era anche un inutile tentativo per dimenticare. Egli sentiva gravargli sulle spalle il peso del rimorso per quanto poteva non aver fatto per lei, soprattutto quando cercava momentanei diversivi per difendersi da uno sgomento che non gli dava tregua. Ben presto infatti la gente si sarebbe dimenticata di tutto, ed avrebbe ricominciato ad attendersi da lui, come se nulla fosse accaduto, che riprendesse a recitare la sua parte, che l’aveva sempre distratta e divertita. Vi si sarebbe prestato, anche perché la riteneva a lui tanto congeniale. Ma, nei primi tempi, sotto il suo abituale sorriso accomodante ed i suoi divertiti ammiccamenti, sarebbe riuscito ad evitare a fatica che si indovinasse il sordo gorgogliare di un pianto represso.

Avvertiva ancora nelle orecchie lo strepito di voci dai toni più disparati che si erano alternate davanti ed attorno all’osteria, dove aveva buttato via il tempo senza risparmio per tutto quel pomeriggio straordinariamente luminoso, così come riandava alle divagazioni improvvisate ed un po’ bizzose ed ai cori di voci giovanili che l’avevano accompagnato durante il ritorno. E se confrontava tutto questo con la realtà nella quale era immerso ora, nel buio della cucina appena rischiarato dalla lampada a petrolio e nel silenzio rotto soltanto dai singulti smorzati della moglie e dalle sue parole di conforto, gli appariva chiaro che si trattava di due aspetti radicalmente diversi della sua vita che da tanto tempo si alternavano. Senza che ne avesse mai colto con la consapevolezza di quel momento il profondo contrasto che li opponeva l’uno all’altro, come fossero le facce opposte di una stessa medaglia. Avevano finito di cenare e la moglie stava rigovernando con diligenza e con un fervore insolito le poche stoviglie. Come se, nella sua femminilità ferita ma non spenta, avesse intuito che quella sua presenza accanto a lei e le parole buone che continuava a rivolgerle potevano aprirla ad una speranza a cui da tanto tempo non aveva osato più affidarsi. Da parte sua, egli, osservando con un’attenzione mista a stupore quella spontaneità nuova e del tutto inattesa, si chiedeva se la compassione provata fino a quel momento per quel corpo decaduto e spossato non stesse cedendo ora ad un senso d’affetto, semplice ed ancora timido, suggerito da atteggiamenti che lo riportavano ad un lontano passato, rendendolo per un attimo felice.

Dopo cena, nella buona stagione, egli aveva l’abitudine di soffermarsi sulla piccola aia, polverosa e percorsa da sottili crepe, con i suoi radi ciuffi di gramigna rinsecchita, per sedersi poi sul ceppo rasente il muro, poco oltre la porta d’ingresso, sul quale d’inverno riduceva in pezzi la legna da ardere. Usava guardare verso l’orizzonte, là dove era tramontato il sole, cercando di prevedere come potesse presentarsi la giornata successiva, e volgeva l’occhio sul suo campicello, due filari d’alberi ed un piccolo appezzamento, per individuare in anticipo gli interventi da effettuarvi. E poi, appoggiato al muro, si perdeva a guardare il cielo, specialmente quando vi brillavano le stelle o vi risplendeva la luna piena, ed inseguiva i suoi pensieri, a lungo. Rientrando, trovava la moglie in attesa sulla sua solita sedia, e l’accompagnava al piano superiore per la notte. Ma quella sera non lasciò la cucina. Quel confidente fervore aveva finito per contagiare anche lui, aprendolo alla speranza. Una speranza forse temeraria, ricca di promesse azzardate, che da tempo aveva temuto di non poter più realizzare. Inseguendola dove non avrebbe mai potuto trovarla, s’accorgeva ora di averla forse a portata di mano. Anche se questo non poteva significare una totale rinuncia al suo passato,quella sera stava forse segnando una svolta nella sua esistenza. Per la prima volta dopo tanto tempo avvertiva confusamente di potersi sentire di nuovo a suo agio in quella casa dominata fino ad allora dal silenzio e dal pianto. Era stato sufficiente un solo attimo per fargli sperare che tante cose sarebbero potute mutare e che tutto questo dipendeva soprattutto da lui. Non osava credervi, per non restare ancora una volta deluso: nella sua perplessità non si rendeva conto che i sentimenti che vengono dal profondo possono anche essere momentaneamente soffocati dall’amarezza intollerabile del rimpianto, ma finiscono sempre per riemergere. La moglie, da qualche tempo, riaccomodatasi sulla sua sedia, si era assopita. Egli era ancora seduto, in attesa del momento di svegliarla per la notte. Era molto stanco ma rinfrancato. Avendo già preso la decisione di non lasciare la cucina, per quella sera, ora intendeva evitare di farlo anche in seguito, per abituarla alla sua presenza. L’aveva ripreso il buonumore, cosa del tutto inconsueta a quell’ora. Aveva tempo sufficiente a disposizione per riflettere su quanto era avvenuto dal suo rientro e per guardare davanti a sé. O per riandare, seguendo gli impulsi della memoria, a persone, a parole ed a riflessioni, come se tutto fosse avvenuto in quel momento: l’amico, il daziere in pensione con le sue manie di intenditore d’arte, la famiglia venuta dalla città, l’oste, ed anche le proprie risentite riprovazioni delle piccole vanità degli arricchiti di fresco, in altre parole a quella che ora definiva una scappatella fuori programma, venuta poi in suo soccorso nella maniera più inaspettata. Complice un vino piuttosto traditore, nei confronti del quale il suo pareva un vinello da sciacquarsi la bocca, aveva ascoltato finché gli era stato possibile le chiacchiere degli altri, per poi rinchiudersi in se stesso, a riflettere, fra un mugugno e l’altro interrotto solo da qualche borbottio. Non si era mai propriamente ubriacato in vita sua, anche se fin dalla giovinezza non aveva disdegnato il vino. Ma da quando esso aveva iniziato ad impigrirglisi nello stomaco, ne avvertiva le prime conseguenze per un periodo più o meno lungo. Nulla di preoccupante fino a quel pomeriggio, quando gli era pesato sulle gambe e sul cervello, che però aveva sempre continuato in qualche modo a funzionare. Su quello spiazzo davanti all’osteria, dove le parole ed i mugugni

non costavano nulla e si poteva chiacchierare in piena libertà, nel fervore del momento ci si era affidati all’estro ed all’improvvisazione, abbandonandosi, tutti d’accordo come tanti congiurati, ad una requisitoria senza esclusione di colpi su tutto quanto di incredibile stava avvenendo al di là della robusta cortina di verde che sembrava isolare due mondi, e dalla quale spuntavano in lontananza alcuni edifici del paese, verso cui tutti puntavano il dito accusatore.

Un argomento tirava l’altro, in un ordine di successione che sembrava suggerito soltanto dal capriccio del momento, senza dimenticare che nessuno di quelli che si erano seduti davanti a lui o gli erano stati accanto era astemio. Nella passione profusa si avvertiva, sanguigna, l’impronta della campagna contadina, che si sentiva esclusa e minacciata sempre più da vicino e si ribellava. A quelle chiacchiere in piena libertà si erano poi aggiunti anche i suoi solitari mugugni: ed ora vi si riconosceva più puntiglioso e più pettegolo di quanto non avesse mai ritenuto d’essere. Ma lì almeno poteva chiamare in causa quel vino traditore. Si era alzato in piedi e misurava lentamente lo spazio fra la cucina e la porta d’ingresso. Tutte fantasticherie un po’ cattive, impastate di dispetto e forse anche d’invidia, che, più che ritrarre in modo paradossale il presente, sembravano anticipare, con qualche azzardo, quello che, continuando così le cose, promettevano di diventare gli anni a venire. Ma, in un modo o nell’altro, avevano tutte un fondo di vero. Anche lui aveva dato il suo contributo, attraverso il varco aperto dai fumi del vino, prendendo di mira approfittatori ed imbroglioni, fracassoni e prepotenti o le più impensabili manifestazioni della imbecillità e della vanità, tutto quello insomma con cui aveva da tempo un conto in sospeso, combattendo, anche in quell’occasione, una battaglia tutta personale. Sorrideva pensando ai destinatari, d’ambo i sessi e d’ogni età, di quella rissa di parole e di mugugni, lontanissimi certo dal pensare che in quella sperduta osteria fuori mano fossero stati tanto a lungo il loro bersaglio preferito. Non che egli fosse, come tanti, nemico dichiarato delle cose nuove per principio. Ma la smania per il guadagno facile ed il ritrovarsi fra le mani la insperata possibilità di soddisfare in una volta sola, senza badare a spese, quanto era sempre sembrato un sogno proibito, cose delle quali si era detto tanto, lo inducevano a pensare a certe strade in discesa, all’inizio comode ed invitanti, ma, quando ci si fosse inoltrati, tali da far correre il rischio di prendere la rincorsa e di non riuscire a fermarsi più, oltre che estremamente difficoltose da risalire. Ma a questo punto ritenne che fosse giunto il momento di svegliare la moglie. Sentiva lui stesso un gran bisogno di mettersi a letto.



II

Il tempo trascorreva ed egli stava lentamente ripiegandosi su sè stesso, cedendo all’età e ad una diffusa stanchezza, che gli pesava sulle spalle e gli piegava le ginocchia. Continuava ad uscire talvolta col suo carretto per piccoli servizi. Ma i tragitti di un tempo, di cui poteva disporre a suo piacimento e che avevano riempito tante ore delle sue giornate, si risolvevano sempre più spesso in brevi e casuali evasioni, e non vi ritrovava il piacere di una volta, fatto di incontri fortuiti e di scoperte inattese. Quasi che continuasse a muoversi solo per abitudine, con il suo asinello che portava in giro le orecchie sempre più abbassate e sembrava essersi scordato delle improvvise impennate di un tempo. Passava a tratti intere mattinate a lavorare nel suo piccolo orto, o ad accudire la stalla, o a sistemare per l’ennesima volta l’esigua legnaia, o a sostare nella piccola cantina per ripulire le poche bottiglie ed i pochi fiaschi che ancora conteneva. Non si era ancora ridotto a sedere, oziando, sull’aia per ore, a veder volare gli uccelli o a seguire il passaggio delle nubi in cielo, scacciando come importuni pensieri e ricordi. Gli avvenne, però, mentre rientrava da uno di quei suoi piccoli servizi, di iniziare a vivere una avventura che rese improvvisamente più varia e di nuovo interessante la sua giornata. Ad un incrocio, fu richiesto di un passaggio. Accolse così, sul suo carretto, per rompere in qualche modo la noia del tragitto, uno strano frate cercatore, giunto da poco dalla montagna al convento del vicino borgo, che da qualche giorno vedeva circolare lungo i viottoli in cerca di elemosine per i poveri. Secco come un chiodo, mingherlino, raggrinzito e calvo,dall’età difficilmente definibile, appena ebbe modo di pronunciare qualche parola di ringraziamento lo sorprese e lo incantò per la sua voce robusta e sonora, e per la sua coloritissima parlata toscana. Gli divenne presto compagno inseparabile per tutta la campagna circostante, fino alla strada maestra,sulla quale procedeva svelto a piedi verso il borgo, rifiutando ogni eventuale offerta di passaggio sulle automobili che gli sfrecciavano accanto. Gli narrò, con una ricchezza di particolari che non finiva di stupirlo, l’unica sua avventura vissuta per necessità su di un’automobile, quando dalla montagna fu trasferito al borgo, non permettendogli la regola del suo ordine, forse interpretata da lui con eccessivo rigore, che l’uso delle sue gambe o al massimo il lusso di un carretto o di un barroccio, quando si trattasse dei brevi percorsi abituali. Diceva dunque che gli era sembrato che la strada e i suoi bordi gli corressero incontro sempre più velocemente, per sfiorarlo e poi perdersi alle sue spalle, mentre il paesaggio all’orizzonte rimaneva immobile e le piante e i caseggiati più vicini si muovevano intanto come a ventaglio. E raccontava a voce spiegata tutto questo come se si trattasse di una cosa inaudita che non poteva non destare meraviglia in tutti, con lo stesso stupore con cui doveva parlare di un fatto miracoloso. La sua esistenza era fatta evidentemente di questi entusiasmi ingenui, che rafforzavano la sua straordinaria vitalità. Citava a memoria, declamandoli, interi brani delle prediche di un suo antico concittadino, di una qualche città della Toscana, un santo, e giurava che quei brani valevano, da soli, più di mille prediche moderne.

Fra una sosta e l’altra per le elemosine, recitava il rosario e altre sue devozioni,fissandolo nel frattempo con severità ed invitandolo a metter giudizio, se non era già troppo tardi. Si lamentava della scarsa sensibilità della gente per i più bisognosi, e gli riferiva che mentre gli era avvenuto di essere accolto con molta cordialità nelle case più umili,in quelle nuove bicocche imbrattate come donne di malaffare veniva puntualmente visto con sospetto e spesso allontanato in malo modo. Se ne ricordava bene ed evitava di tornarvi, per non replicare per le rime nel suo buon toscano. Non cessava di ammonirlo che anche il mondo, se voleva star meglio, doveva metter giudizio, e rinunciare alle tre maledizioni che lo perseguitavano: la sete del potere e quella della ricchezza, che si aggiravano a funestare gli uomini,a braccetto, e quella del piacere, troppo facile pretesto per ogni sorta di nefandezze, che spesso faceva loro compagnia. Egli non coglieva sempre il senso di quei suoi interventi a getto continuo, stupefatto della frequente variazione dei timbri della voce e dalla freschezza della sua parlata. A lui sembrava comunque che, messi assieme, quel frate bisbetico, lui, perdigiorno bonaccione ed il suo ciuco testardo formassero il terzetto più curioso e mal assortito che fosse dato vedere in giro. E la gente che li guardava passare e ripassare assieme, su questo sembrava esser d’accordo. Un giorno però l’aveva atteso invano, ad un crocicchio. Non l’avrebbe mai più rivisto: un’automobile, sulla grande strada asfaltata che portava al borgo, per un sorpasso spericolato, l’aveva travolto.

Gli eran rimasti, fissi nel cervello, alcuni interrogativi a cui il frate non poteva più dare risposta, e che gli si presentavano davanti con sempre maggiore insistenza. E dopo la scomparsa di quel frate sconosciuto, che aveva iniziato a considerare molto più che un semplice compagno di viaggio, gli stava succedendo quello che accade di solito quando scoppia improvviso un temporale estivo: per qualche momento sembra dovere sconvolgere il mondo, ma quando s’allontana, improvviso com’è sopravvenuto, senza aver recato alcun danno, ci si accorge che l’aria è più fresca ed il cielo è più terso. Anche per l’amarezza che continuò a pesargli a lungo sul cuore, il progressivo affievolirsi del ritrovato interesse per le cose lo stava di nuovo allontanando,a poco a poco, dal contatto con la realtà esterna. Quel contatto che aveva pur costituito per tanto tempo la sua vera ragione di vita. Quanto aveva già attirato il suo più vivo interesse o suscitato il suo più aperto dissenso, ora gli scivolava accanto lasciandolo sempre più indifferente. Ma quanto più si approfondiva il suo distacco dalla realtà esterna, tanto più riscopriva l’importanza di aspetti comuni della vita che in precedenza aveva a lungo trascurato. Passava ora interi pomeriggi in cucina, seduto attorno al tavolo, a parlare con la sua vecchia, sempre più cieca e sempre più debole. Gli sedeva davanti e lo seguiva con trasporto manifestando sempre più liberamente tutti i suoi sentimenti, di felicità o di sgomento, di curiosità o di meraviglia, mentre il suo uomo, che finalmente aveva ritrovato, ora non si limitava più a brevi cenni su quanto era indispensabile per affrontare assieme i problemi di tutti i giorni. Ora le parlava delle cose del piccolo mondo che le era appartenuto, in cui erano pur vissuti assieme, delle famiglie, delle amicizie comuni di vecchia data, dei vivi e dei morti, ed anche del paesaggio circostante che ogni giorno gli riservava nuove sorprese: a lei, che da tanto tempo viveva quasi come una reclusa. Egli si stupiva di avere per tanto tempo trascurato di suscitare in lei quel suo riso ilare e pieno, rimasto miracolosamente fresco e intatto nel volto devastato dalle rughe. Quel riso ilare e pieno, che lo

aveva già conquistato le prime volte che si erano trovati a lavorare insieme in qualche tenuta, a diserbare il frumento. Sempre riservata e schiva, quasi che la felicità fosse per lei un dono che non meritava. Diverse notti, come per lo sfogo di una tormentosa angoscia troppo a lungo repressa dentro di sé, la sentiva abbandonarsi ad un pianto sommesso e prolungato, perché, ora poteva confessarglielo, la sua ritrovata gioia di vivere non aveva altro modo di manifestarsi. Ed egli bonariamente la canzonava, per quel suo pianto. Dopo quanto tempo avevano ritrovato l’opportunità di comunicare fra di loro con tanta confidente spontaneità! Ora egli poteva riversare tutto il suo buonumore fra i muri di casa, accanto a sua moglie,e non rimpiangeva i tempi in cui, sempre distratto e come assente per qualche cosa che lo scontentava ma che ostinatamente aveva tenuto chiuso dentro di sè, era andato a caccia di soddisfazioni effimere nelle quali gli era parso di trovare più di quanto in realtà avrebbe dovuto aspettarsi.

Avevano anche ritrovato il gusto di abitare assieme in quella casa che li aveva accolti appena sposati, per una vita a due allora tanto generosa di promesse e di sogni. Ora pure lei si confidava, e chiedeva, e inseguiva i propri ricordi.

Che sempre più spesso si incontravano e si saldavano con i suoi. Teneva loro compagnia, sdraiato ai loro piedi, facendo ogni tanto le fusa e muovendo alternativamente le orecchie al suono delle due voci un magnifico gattino tigrato, che confortava la loro stanchezza con la sua irrefrenabile vivacità. Si sentiva felice: e ripensava con gratitudine al dito ammonitore del suo buon frate, convinto che qualche parte in tutto questo l’avesse pur avuta. Anzi riteneva che proprio quel suo ripetuto invito a metter giudizio potesse significare molto di più di quanto egli avesse mai creduto.



II

Pareva che il tempo avesse rallentato il suo corso. La notte sembrava sempre attendere impaziente i primi barlumi di luce, ed il giorno, a sua volta, morendo, indugiare all’orizzonte come a rallentarne il ritorno. Nulla di nuovo veniva ad interrompere lo scontato rituale dello scorrere delle stagioni. Tutto era regolato implacabilmente dalla monotonia ed il gelo neghittoso della consuetudine minacciava di inaridire anche gli slanci più fervidi. La moglie mortificava la sua rinata voglia di vivere attorno alle pentole ed agli strofinacci, rassegnata e puntualissima. Egli invece, seduto sul suo piccolo trono, il ceppo quasi senza più scorza vicino alla porta d’ingresso, si godeva, come uno degli ultimi piccoli piaceri rimastigli, quel buttar via il tempo. Si stava abituando alla solitudine. S’era anche abituato comunque a parlare a voce alta, per sentire le sue parole che gli tenevano compagnia. A volte, tanto per muovere un po’ le mani e non darla sempre vinta a quelle scansafatiche delle gambe, si ritrovava a far qualcosa nell’orto, sempre più abbandonato a se stesso – qualche cespo di radicchio rosso o di insalata verde, alcune cipolle, un po’ di patate e di pomodori e poco d’altro – o rimetteva in ordine per l’ennesima volta i fiaschi quasi tutti spagliati nella cantina sempre più buia e vuota. Faceva anche visita al suo asino, che l’accoglieva sempre abbassando le lunghe orecchie, sdraiato inerte sulla paglia; e lui l’accarezzava, quasi a rassicurarlo che anche per quella volta non l’avrebbe tolto al suo riposo. Oppure ripuliva l’aia dagli escrementi e dalle foglie appassite del

pruno, non più in grado di mantenere in autunno le generose promesse della primavera. E sempre stentando, sempre con affanno. In mezzo a quella decadenza che gli si presentava da ogni parte, muovendosi sconcertato in quel suo piccolo naufragio, gli era sempre più difficile ritrovarsi in quello che era stato per tanti anni, o accovacciato sulle gambe per intere giornate, o a maciullarsi le braccia nei massacranti lavori di sterro; o, più tardi mai fermo, a placare la sua insaziabile curiosità, immerso fra la gente, sempre pronto a battersi con grande animo, senza stancarsi mai. Il suo mondo andava restringendosi entro un perimetro ogni volta più circostritto: qualche vecchia casa che lo faceva sentire ancora a suo agio, le cavedagne chiuse fra siepi sempre più stente, i campi rimasti come una volta. Quello che i suoi occhi sempre più indeboliti desideravano vedere. Tutto il resto, piuttosto che infastidirlo o metterlo a disagio, gli era completamente indifferente. O ridestava le sue impennate di un tempo, fra mugugni e sarcasmi. Le sue lunghe escursioni sul carretto erano sempre meno frequenti. Il rifugio di un tempo, sperduto allora fra i campi, era ormai quasi irriconoscibile, fiancheggiato da nuove costruzioni piuttosto ingombranti, lungo una strada sempre più frequentata. Non vi si recava più, e ne conservava un ricordo sempre più labile, misto però ad improvvisi risvegli della memoria che lo stupivano per la loro nitida evidenza. Le visite sempre più rare al cimitero stavano diventando quasi una avventura, ma costituivano una delle poche occasioni in cui, con la moglie accanto, sul carretto, poteva confrontarsi con una realtà che gli era ogni volta più estranea. Passavano fra l’indifferenza di una piccola folla indaffarata, che egli scrutava incredulo, diversa in tutto, come se non avesse niente in comune con quella che gli era stata tanto familiare. A fatica un volto od un portamento potevano accendere il suo ricordo. E sul viso di alcuni di quelli che dimostravano ancora a chiari segni di riconoscerlo, l’età aveva imposto la sua impietosa maschera e doveva faticare per ricostruirne nel ricordo le fisionomie. A tratti, però, poteva anche rispuntare il suo buonumore, che andava e veniva a suo piacimento,e bastava un nonnulla perché si riaffacciasse, inatteso e sornione come sempre. In questi casi, era ancora in grado di ritrovare se stesso, nei momenti nei quali qualcosa dentro di lui si ribellava, a dispetto della sua stanchezza. Riusciva allora, osservandosi con distacco, a scherzare con il suo

presente. E poteva così avvenire che, fissando il cielo, chiamasse bricconcelle le nubi che, ai suoi occhi indeboliti, assumevano aspetti incerti e mal definibili, come se volessero giocare a rimpiattino con lui. Oppure, si rivolgeva alle sue gambe sempre più restie a muoversi, e, accarezzandole, ricordava loro che, se non la smettevano di fare i capricci, l’avrebbero costretto a non portarle più a spasso con sè. E così era per i tanti piccoli malanni che si aggiungevano gli uni agli altri e che sopportava scrollando le spalle, dicendo loro che lo avevano inseguito invano quando era ancor troppo svelto per lasciarsi acchiappare, e che riteneva giusto che ora si prendessero la loro rivincita. Malgrado tutto, però, poteva accadergli di sentire di nuovo il bisogno di veder gente e di intrattenersi con quelli che ancora cercavano nel suo volto affabile e nella sua prontezza di parola un pungolo o un conforto, come se nulla fosse mutato in lui. Gli capitava così di azzardare a volte percorsi anche inconsueti, alla ricerca di incontri sempre nuovi, fortuiti ed inattesi. Ed in questo provava un insperato appagamento. Lo aveva cercato, inseguendolo in una sorta di animosa guerra personale, in cui aveva sacrificato tanto del suo tempo, nell’ostinata contrapposizione al fanatismo di ogni specie ed alle stravaganze della stupidità, per poi trovarlo invece nei contatti con la gente semplice e spesso anonima dei quali era pur pieno tutto il suo passato. E la spontanea cordialità di cui si vedeva ora circondato gli faceva credere di non essersi dedicato invano agli altri con tanta abnegazione, e gli trasmetteva nuovi stimoli ed un fervore di cui non si era ritenuto più capace. E per quanto glielo avessero concesso le sue forze, avrebbe continuato a cercarla, quella gente, bisognoso del calore che gli comunicava.

Continuava intanto a trascorrere intere mattinate accanto alla moglie. Spesso silenziosi: bastava loro sentirsi vicini.

Nelle giornate serene raggiungevano l’aia, ringraziando per i saluti e gli auguri coloro che passavano nei pressi. Il bel gatto tigrato li aveva lasciati: ma non per finire sepolto vicino all’orto. Cresciuto e più sicuro di sé, in cerca forse di una avventura piena di rischi o di una sistemazione più confacente, un giorno se n’era andato senza far più ritorno. Non era la prima volta che succedeva, e l’avevano atteso a lungo ma poi si erano arresi all’evidenza, mettendosi il cuore in pace; a modo suo, con tutti i piccoli capricci di gatto un po’ viziato, aveva riempito la casa.

Augurandogli che tutto gli fosse andato per il meglio, ne rispettava la libera scelta. Ora la casa di tanto in tanto gliela riempiva un’infermiera, alla quale il medico condotto aveva affidato la moglie per qualche massaggio: un donnone che le massacrava il corpo con mani incredibilmente massicce e solide, canterellando disinvolta un suo motivo. Sparendo poi in un battibaleno, così com’era venuta. Una variante che serviva anche a far passare un po’ il tempo.



III

Le visite sempre più frequenti del dottore e le risposte che dava alle sue domande, anche se con parole sempre più reticenti, gli facevano capire che quel rigurgito di energie, fisiche e mentali, non poteva durare più a lungo. Non gli sfuggiva il loro vero significato: si trattava dell’ultima vampata di una fiamma destinata a spegnersi. Non doveva dunque farsi delle inutili illusioni. Per conto suo, riteneva di esser vissuto abbastanza, anzi più di quanto avesse sperato. Gli amici dei suoi giovani anni erano quasi tutti morti, in una sempre più lunga scia di accorati rimpianti.

Egli l’attendeva, accanto alla sua vecchia, la morte, un avversario invisibile ed inafferrabile, ma leale e che non guardava in faccia a nessuno. Ed affidandosi agli stimoli mai sopiti della sua temeraria arguzia, tanto più acuminata quanto più egli avanzava in età, se ne uscì con una battuta in cui lo scherzo sfiorava lo sproposito. Andando in giro talvolta sul carretto, a chi gli chiedeva come si sentisse, rispondeva, con il suo sorriso di sempre sotto i folti baffi bianchi, che, in tutti i modi, quand’anche la morte si fosse decisa a venirlo a cercare, si sarebbe potuto prender gioco di lei, allontanandosi col suo somarello e rendendosi così irreperibile. Ma quella, quasi per stare allo scherzo, pensò bene di toglierglielo in anticipo: la sua povera bestia lo lasciò senza un lamento, morta stecchita per la vecchiaia. Poi venne dalla moglie, che una notte, dopo un lungo e penoso dormiveglia, si assopì e non si svegliò più. Ed egli, pur nella desolazione del momento, andò ad avvertire il parroco che per quella volta si sarebbe dovuto scomodare lui, andandola a prendere per portarla in chiesa, perché, da sola, non ci sarebbe potuta venire. Andava a visitarla la domenica, sul tardi. E diceva in giro che si era recato alla casa del popolo, la vera casa del popolo, dove tutti erano tornati ad essere finalmente uguali. Ed i tanti che lo avevano conosciuto sempre disposto alle battute di spirito, non potevano non ammirare quella sua forza d’animo che gli permetteva di rimanere fedele a se stesso in ogni circostanza. Ora era veramente solo, in una casa troppo grande per lui. C’era chi veniva a tenergliela pulita ed a cucinargli quel poco che poteva variare di tanto in tanto i suoi pasti, che ormai dipendevano in gran parte dai prodotti del suo piccolo orto e da poco pane. Il vino glielo forniva il nipote, quando veniva a lavorare nel cam-picello. Si occupava anche dell’orto e si prestava per qualche servizio, soffermandosi a fare quattro chiacchiere, ora che oltretutto poteva quasi considerarsi in casa sua. Si muoveva poco ormai, ma lo si vedeva ripercorrere i sentieri erbosi, attorno a casa sua, in quella primavera che sembrava fatta per offrirsi alle sue passeggiate mattutine. Con la sua andatura esitante, ma fiera, sempre pronto alla battuta ad effetto, alla gente che, fermandosi a salutarlo, si complimentava per la disinvoltura con cui portava i suoi anni e per il suo passo ancora buono, rispondeva che stava prendendo la rincorsa per raggiungere il capolinea. Gli poteva succedere di non essere tanto mattiniero, ma a chi, fra i vicini, vedendo una volta le imposte ancora chiuse a mezzogiorno suonato, lo chiamava a gran voce temendo il peggio, aveva risposto che stava facendo le prove generali per la volta in cui non si sarebbe svegliato più. Aspettava la morte, ma amava ancora la vita. E si sentiva quasi in dovere di tenere compagnia alla sua casa, per il poco tempo che le rimaneva prima di essere condannata ad un umiliante camuffamento. Era la casa dei suoi, la casa dov’era nato e rimasto per tutta la vita; e poteva ben dire di conoscerne ogni mattone, ogni screpolatura, ogni ferita che il tempo le aveva inflitto. S’era confinato a vivere soltanto in cucina ed in camera da letto. La raggiungeva ogni sera aggrappandosi al solido scorrimano in pietra, e ne ridiscendeva al primo albeggiare, affidandosi alle gambe che erano ancora in grado di fare il loro dovere. All’occasione dava loro una mano l’abitudine alla fatica. Orgoglioso di una indipendenza a cui teneva più che a qualsiasi altra cosa. Determinato a ridurre ancora le sue esigenze, pur di non

dover ricorrere all’assistenza di nessuno. Lo visitava saltuariamente il nuovo cappellano, un pretino giovanissimo venuto dalla città, dagli occhi intelligenti e dal sorriso sempre pronto. All’inizio l’aveva accolto con un certo sospetto, ma gli comunicava, nel suo sincero interessamento, una serenità il cui ricordo conservava a lungo, aprendolo a prospettive del tutto nuove. Non aveva mai rinunciato del tutto a seguire quanto avveniva attorno a lui, e continuava ora ad informarsi con un interesse ritrovato, in cui riviveva almeno un’ombra della tenace passione di un giorno. E quell’ombra aveva cominciato a penetrare furtiva anche nei suoi sogni, in cui si combinavano fra di loro, in modo sempre confuso, frammenti di vicende e di figure che gli si offrivano per un attimo, ma con una evidenza che le rendeva come reali. Al risveglio, gli lasciavano l’impressione di qualcosa che gli era appartenuto, ma che riusciva ancora a coinvolgerlo. Alcuni sogni si ripetevano, subdoli, con una ostinazione che lo sgomentava: vi riconosceva i tardi riverberi di momenti di ribellione e di rifiuto, che non sempre riusciva a ricomporre nella memoria dove confluivano alla rinfusa. Non rinnegava nulla di quel suo passato, e comprendeva che, se avesse potuto tornare indietro negli anni, sicuramente avrebbe ripercorso la medesima strada, senza sottrarsi a quanto la sua coscienza gli suggeriva. Non aveva mai accettato il fatto compiuto e non si era mai arreso alle lusinghe del più forte, difendendo sempre la sua libertà di giudizio. Ma anche altri erano i suoi sogni. Il tripudio giovanile dei sensi e la gioia timida ed ombrosa dell’affetto, che quasi a tradimento gli era penetrato tardivo nel cuore, gli rievocavano ogni volta nel sogno una mite figura, inafferrabile, che si presentava per un attimo, pronunciando parole appena avvertibili, e adagio svaniva nel nulla, lasciandolo inappagato al risveglio. Per gente come lui, la felicità era un dono negato, o magari soltanto tardivo. Anche se era riuscita a riempirgli intere giornate. Faceva talvolta capolino anche il frate cercatore, severo in volto e con il dito puntato ad ammonirlo. Ultimamente, gli sembrava sempre più remoto, quasi un’apparizione, mentre lo chiamava a sé col gesto della mano.

Come se presentisse che potevano essere le ultime volte che gli era dato goderne, si sorprendeva, nelle sempre più brevi passeggiate, a seguire a lungo certi tramonti che sembravano incendiare tutto l’orizzonte, laggiù, dove moriva la campagna, come ad imprimerli nella memoria. O poteva, fermo sulla porta, alzare gli occhi a fissare un cielo luminoso e tanto limpido da sembrare trasparente. Si soffermava a lungo, sull’aia, ritardando il riposo, a godersi le tiepide notti rischiarate dalla luna, o sostava presso un vecchio macero ormai in disuso per osservare divertito i giochi mutevoli del vento sulla sua superficie increspata. Nella loro immobilità, anche paesaggi familiari che un giorno era solito attraversare con indifferenza sul suo carretto, gli apparivano ora come rinnovati: le campagne che rinascevano dopo un temporale estivo, stillanti ancora di pioggia; lontani caseggiati che, illuminati d’improvviso da un raggio di sole, sembravano mutare d’aspetto; pioppeti che, investiti dal vento, agitavano le loro foglie riempiendo il vuoto del loro musicale brusìo; la distesa queta ed assorta dei campi, che si offriva alla sua contemplazione. Rientrava sempre stanco e provato, ma felice, come andava dicendo, perchè gli era stato concesso ancora un giorno di libera uscita in attesa del congedo.

E quando la morte venne anche a lui, inavvertita e furtiva, quasi in punta di piedi, sul volto arguto rimasto intatto, su cui svettavano come una bandiera i bianchi baffi, qualcuno poteva leggere un’ombra di disappunto per non aver potuto onorare, proprio con lei, l’ultima e la più arrischiata e singolare delle sue scommesse, quella di sfuggirle di mano, allontanandosi sul suo carretto. Fu un funerale vecchia maniera, in un tiepido pomeriggio autunnale, col grande carro funebre che trasportava la salma, preceduto dal giovanissimo pretino venuto dalla città. La fila della gente, sullo stretto viottolo tutto curve che portava alla traccia ghiaiata, non finiva più. Se avesse potuto ancora guardarsi attorno, come estrema risorsa della sua arguzia si sarebbe ritenuto un vero privilegiato – lui, lì, dentro la cassa, adagiato così comodamente , mentre gli altri, tutti gli altri, tanti, veramente tanti, arrancavano dietro di lui a piedi. E se avesse potuto anche individuarli, uno per uno, si sarebbe certamente sorpreso per la presenza di molti che aveva sempre ritenuto cordialmente ostili. Fra i primi figurava anche, compreso del momento, il vicino di casa, stoicamente aggrappato al suo bastone.

La sua vecchia l’attendeva, nella fossa appena scavata subito accanto a lei.

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