pubblicazione:premiati 2012

2012



ILARIA CERRUTI (Savona): nata a Savona il 15 luglio 1993, qui vive con i suoi genitori e la sua amata sorella maggiore. Frequenta con profitto il liceo classico Chiabrera. Ama molto le materie classiche e la matematica: infatti ha vinto un’edizione dei Giochi della Matematica. Ha giocato a pallavolo per tanti anni a livello agonistico. Nel tempo libero le piace frequentare gli amici, leggere, ascoltare e “fare” musica: suona la chitarra da autodidatta; qualche volta ha suonato anche per la sua parrocchia. Adora viaggiare e spera di poterlo fare sempre di più quando sarà adulta. Ha partecipato a vari concorsi letterari perché ama molto scrivere.


I class. FAVOLA SCUOLE SUPERIORI                                                                               
FAVOLA MODERNA
(liberamente ispirata ad una storia vera)


C’era una volta, non molto tempo fa, una bellissima bambina di nome Serena, che viveva in una piccola città tranquilla con i suoi genitori. Il nome rispecchiava il suo carattere; la piccola era dolcissima, con i suoi occhioni verdi e dei bellissimi capelli scuri che le incorniciavano il viso vispo. Cresceva ogni giorno più bella ed amata da tutti: chi la conosceva apprezzava la sua bontà e generosità. Era sempre disponibile ad aiutare chiunque avesse bisogno e si interessava a tante cose. Intanto il tempo passava, ahimè veloce, e lei aveva molteplici interessi. Un giorno disse ai suoi genitori che voleva visitare la lontanissima India: all’università aveva studiato quelle civiltà che sembravano tanto lontane qualche anno fa, e si era molto appassionata. I suoi genitori non furono molto contenti della sua richiesta perché le distanze sembravano infinite anche se con gli aerei si faceva presto a compiere questo tragitto. Inoltre era un paese sconosciuto e sembrava una pazzia che una ragazza partisse da sola per andare in un posto così lontano. Ma Serena, nonostante la sua dolcezza, dimostrava sempre molta fermezza nelle sue decisioni. Così, non c’è neanche da dubitare, sapete cosa fece? Riuscì in men che non si dica a convincere i suoi genitori e si trovò un bel giorno su una aereo che la portava a Bombay. Non potete immaginare le raccomandazioni che le fecero i suoi genitori prima di partire. E i poverini erano così preoccupati quando l’accompagnarono all’aeroporto. Ma Serena era molto sicura di sé ed era convinta che avrebbe scoperto tante cose interessanti in quelle zone lontane. Il viaggio in aereo fu lungo ma Serena non era minimamente preoccupata: si era portata uno dei suoi amatissimi libri e si era messa a leggere per ingannare il tempo. Non si era nemmeno accorta che vicino a lei aveva preso posto un giovane. Doveva essere indiano, probabilmente stava tornando a casa dopo un soggiorno in Italia. Era un giovane bellissimo ma Serena era assorta nella sua lettura. Anche lui del resto leggeva un giornale, incomprensibile, doveva essere scritto nella sua lingua. Finalmente l’aereo atterrò a Bombay. Il viso di Serena si illuminò: già pregustava il piacere delle scoperte che avrebbe fatto e tutte le belle cose che avrebbe visto e che al suo ritorno a casa avrebbe raccontato ai suoi genitori. Infatti era pronta con la macchina fotografica a immortalare ogni cosa. Era l’unico oggetto che aveva tenuto fuori dalle valigie insieme alla sua borsetta, e naturalmente non immaginava quello che l’aspettava… Arrivata all’aeroporto si trovò immediatamente immersa in mondo diverso da quello della sua piccola città di provincia:c’era tanta gente, alcuni frettolosi che si avviavano a prendere l’aereo; l’altoparlante faceva annunci in una lingua incomprensibile, e com’era colorata la folla: le donne, bellissime, indossavano dei meravigliosi abiti indiani coloratissimi e impreziositi di ricami. Che meraviglia! Prima d’allora li aveva visti solo in fotografia e si ripropose di comprarne uno prima di tornare a casa. L’avrebbe utilizzato nelle grandi occasioni. Si affrettò verso il nastro trasportatore per recuperare i suoi bagagli: sul nastro stavano scorrendo già le prime valigie e qualcuno cominciò a prenderle. Dopo un bel po’ lei non aveva ancora visto passare le sue: strano non c’era quasi più nessuno dei suoi compagni di viaggio. Perché le sue valigie non erano ancora arrivate?  Infine si trovò da sola e realizzò che probabilmente si erano perse. Ogni tanto accade: l’aveva sentito dire, ma quando capita agli altri… Non sapendo cosa fare si guardava intorno con aria sperduta e nel contempo preoccupata: si trovava lontana da casa, sola senza niente se non la sua borsetta e la macchina fotografica. Un bell’inizio, non c’è che dire. Improvvisamente, mentre pensava al da farsi,  notò una persona che le si avvicinava. Lei pensò: “E ora, cosa vorrà da me?” Quando fu più vicino notò che si trattava del giovane che era seduto accanto a lei in aereo. Lui , aveva capito benissimo cosa era accaduto e si offrì di aiutarla perché spesso per ritrovare i bagagli occorrono alcuni giorni. Parlava magnificamente la sua lingua anche se aveva una leggera inflessione indiana. Le disse che non abitava lontano da lì con la sua famiglia e che sicuramente i suoi genitori sarebbero stati contenti di aiutarla. Serena era un po’ disorientata: le venivano in mente le raccomandazioni dei suoi genitori, non doveva mai fidarsi degli estranei e non accettare proposte da nessun sconosciuto; ma capì immediatamente che poteva fidarsi. Il giovane si preoccupò di sbrigare tutte le pratiche per recuperare il bagaglio, poi le fece strada verso la sua auto. E subito dopo si ritrovarono di fronte ad un grande palazzo. Varcato il cancello, scesero e Serena capì di trovarsi in un luogo speciale: il giovane sconosciuto altro non era che un principe indiano e lei fu accolta con onori da principessa dalla sua famiglia. Sembrava un sogno; per alcuni giorni le sembrò di vivere in una favola, il principe la condusse a visitare quel paese meraviglioso e le fece scoprire cose che neanche lei immaginava e non si trovavano in nessun libro. Poi purtroppo le valigie furono ritrovate e lei pensò che la favola sarebbe finita. Ma, nel frattempo era successo qualcosa di speciale: Eros aveva scagliato la sua freccia e il principe decise che aveva trovato la sua principessa. Serena scrisse immediatamente ai suoi genitori di raggiungerla in India. E quale sorpresa! Dopo lo stupore iniziale anch’essi rimasero affascinati. Dunque, come tutte le favole che si rispettano, anche questa finisce così: e vissero felici per molti e molti anni. Oggi sono ancora felici e ad aumentare la loro gioia ci sono anche due bellissime principessine.


I class. POESIA SCUOLE SUPERIORI                                                                                             
 A MIA SORELLA SERENA


Oggi, mentre ti sto aspettando,
tanti ricordi si affacciano nella mia mente.
Da piccole, i giochi,
le risate che facevamo,
le liti che tanto inquietavano la mamma,
i nostri piccoli grandi segreti.
Noi due siamo sempre state complici.
Ed ora, tu sei quasi sempre lontana;
i tuoi studi ci hanno separate;
quanto mi manchi!
Ma quando ho bisogno di te,
ti chiamo:
tu hai sempre la parola giusta per me.
Grazie, grazie che ci sei


I class. RACCONTO SCUOLE SUPERIORI                                                                                       INCONTRO CAVALLERESCO


Ormai l’estate è finita e tra poco comincerà a far freddo. Mio padre è un mercante che ha una bottega qui a Genova, abbastanza vicino al porto dove, puntualmente, ogni giorno, arrivano le navi di ritorno dall’Oriente, coi loro carichi preziosi: spezie, sete e pietre preziose. Tuttavia, non sempre le navi tornano coi loro carichi, se ritornano: infatti possono subire attacchi dai pericolosissimi pirati che le saccheggiano del loro importantissimo carico e a volte le affondano. Per fortuna, da un po’ di tempo a questa parte, le navi tornano salve. Io sono un dodicenne genovese. Passo le mie giornate in vari modi: quando fa brutto sto nella bottega di mio padre e lo aiuto a riordinare la merce, a pulire e, qualche volta, anche a vendere; d’estate, quando è bello, vado sulla spiaggia con due miei cugini che abitano vicino a me e facciamo il bagno; in autunno, in primavera e anche d’inverno, se non fa troppo freddo, con loro andiamo in giro nel bosco o per la città insieme al loro cane. Questi due miei cugini sono i figli del fratello di mio padre. Egli lavora con mio papà, ma mentre mio padre si occupa di vendere, lui va a prendere le merci al porto e le sistema sugli scaffali e negli armadietti della bottega e del relativo magazzino.  Ora, io sono qui , ad aspettare che i miei cugini arrivino e nell’attesa sto cominciando a raccogliere le castagne come mio padre e mia madre mi hanno chiesto. Finalmente stanno arrivando, anche loro coi cestini.  <> <> <>
<> <>. Mi è piaciuta molto l’idea dei cugini: in questo periodo l’acqua del fiume è molto limpida e fresca. Alle radici dei castagni sto trovando molti funghi mangerecci. Gran parte delle castagne sono marcite con l’acquazzone che c’è stato qualche giorno fa. Ho il cestino quasi pieno, potrei sedermi qui un attimo e poi andare a cercare quei due. Oh, no, ci mancava solo questa! Sento arrivare qualcuno! Mi nascondo dietro quegli arbusti vicino a quella grande quercia. Non vorrei fare brutti incontri nel bosco. Proprio ieri , al porto sentivo dire due marinai che andando nel bosco, il giorno prima, avevano visto tre briganti armati di spada e pugnale. Erano veramente arrabbiati, dicevano che in mare non si può più stare tranquilli con quei pirati, per non parlare  dei banditi che si nascondono nei boschi e saccheggiano gli abitanti di villaggi e città. Proprio non mi piacerebbe trovarmi faccia a faccia con una banda di briganti malintenzionati. Credo di essermi nascosto tanto bene per la paura che per trovarmi dovrebbero sforzare talmente gli occhi da diventare ciechi. I rami di questo cespuglio sono talmente fitti che non riesco a vedere niente. Dal rumore sento che non è tanto vicino da vedere il leggero spostamento di un ramo. Riesco ad intravedere un cavaliere scendere dal suo cavallo e sedersi su del muschio sul lato opposto del sentiero. Mi auguro che non sia un nobile senza feudo che rapina e terrorizza gli indifesi… però ha l’armatura, dovrebbe essere un cavaliere buono… Meglio non rischiare, nel dubbio io me ne vado passando dietro la boscaglia cercando di non far rumore, non vorrei fare la sua conoscenza… Finalmente trovo i cugini, i due che quando servono non ci sono  mai e quando la loro presenza non è indispensabile ci sono sempre. Racconto quello che mi è successo, ed ecco cosa mi rispondono: <>. Questa non è proprio la prospettiva più bella, potevano proporre di tornare immediatamente a casa… Ad ogni passo ho sempre più paura… e se quel cavaliere fosse davvero un malintenzionato come avevano detto i marinai al porto? Spero tanto che i miei sospetti siano sbagliati. Quando arriviamo di fronte a quel misterioso individuo il mio terrore è alle stelle e anche i cugini non sembrano troppo tranquilli. <> ci saluta il cavaliere. Un <> tremolante è l’unica cosa che riusciamo a dire. <> Non sappiamo proprio che cosa rispondere: quest’individuo che nemmeno conosciamo è sulle tracce di una banda di briganti e chiede a noi tre ragazzini di aiutarlo nella sua impresa… Sono talmente perplesso che non riesco a dire proprio niente… <>. Sapevo che ai miei cugini piaceva l’avventura, ma non credevo fino a questo punto!! Forse in fondo, neanche a me dispiace, ma solo perché c’è qualcuno competente. <> E’ stato un bel problema tenere segreto ai nostri genitori tutto questo. Dicendo di aver dimenticato i cestini nel bosco siamo riusciti ad ottenere il permesso di tornarci. <> dice un cugino. L’altro gli risponde: <> Il cavaliere  ci dice di restare lì ad aspettarlo, tanto che lui fa un giro di ispezione. Mentre discutiamo sulla cerimonia di investitura dei cavalieri il fruscio dei cespugli dietro di noi ci fa sussultare. Sull’erba c’è un biglietto: “STATE ALLA LARGA DA FATTI CHE NON VI RIGUARDANO E NON DITE NIENTE AL CAVALIERE O PEGGIO PER VOI”. Come se fosse un invito ad andare a cercare chi avesse lasciato il biglietto, i miei cugini si precipitano lungo il pendio erboso. Gli alberi sono fitti fitti, i rami non lasciano filtrare i raggi del sole; tra il fango notiamo con chiarezza che alcune orme sono state lasciate da poco. Portano al fiume. In effetti sarebbe un ottimo nascondiglio: l’acqua è freddina e non viene mai nessuno, inoltre il fiume è ancora stretto in quel punto e non ci sono pesci, quindi non vengono pescatori. Da dietro un groviglio di rovi vediamo i banditi: stanno parlando tra di loro. Sono in tre, armati di spade e pugnali. Devono essere quelli che avevano visto quei marinai! Senza un attimo di esitazione, prendiamo tre grosse pietre e le lanciamo addosso ai tre furfanti. Prendiamo la corda che abbiamo trovato dietro ai rovi e passiamo dall’altra parte del fiume attraverso il guado, formato da grosse pietre. Legati i tre, ancora mezzi storditi per le pietre, ci avviciniamo a cinque grossi sacchi: contengono dei favolosi tesori! E’ sicuramente quella la refurtiva!! Intanto il cavaliere ci ha raggiunti. <> Mentre ci incamminiamo lungo il sentiero che porta giù in città lo vediamo che carica i banditi e il tesoro sul suo cavallo. <> dice un cugino. Alcune settimane dopo, a casa mia, dove ci eravamo riuniti per fare merenda insieme, arriva un tale che chiede alla mamma di noi. Andiamo alla porta: è il cavaliere, però senza l’armatura! Ci dà tre buste uguali e tre piccoli sacchi di iuta. Ci saluta e se ne va. Il mittente è proprio il feudatario di cui ci aveva parlato il cavaliere. “CARI RAGAZZI, SENZA DI VOI NON AVREI PIU’ IL MIO TESORO. NEI SACCHETTI TROVERETE UNA PICCOLA RICOMPENSA PER CIO’ CHE AVETE FATTO. GRAZIE INFINITE!!  PS: SE VI CAPITA DI PASSARE DI QUA O DI AVERE BISOGNO, SAPETE A CHI RIVOLGERVI, SARETE SEMPRE I BENVENUTI AL MIO CASTELLO!!!!!” Guardiamo il contenuto dei sacchetti: sono stracolmi di monete d’oro!!! <>


MICHELE CALANDRIELLOnasce a Bari il 23 Giugno 2001 e vive a Taviano (LE) in via Giorgio La Pira n° 53. Comincia a scrivere poesie nel 2009 all’età di sette anni, ricevendo, sin da subito, prestigiosi riconoscimenti in concorsi nazionali e internazionali. Si classifica al 1° posto al Premio Nazionale Artemia – San Leo 2009 di Reggio Calabria, al Premio Giovanna De Martini 2010 di Genova, al Premio Internazionale Le Parole Dell’Anima 2010 di Casoria, al Concorso Pennacalamaio 2010 (sezione poesia e sezione filastrocca) di Savona, al Concorso Pennacalamaio 2011 (sezione poesia e sezione filastrocca) di Savona, al Concorso Gioacchino Belli 2011 di Roma, al Concorso Letterando Berbenno 2012 di Berbenno; mentre è al 2° posto al Concorso Giacondo Anasetti 2010 di Configni ed al 3° posto al Concorso Giacondo Anasetti 2012 di Configni; inoltre è al 4° posto al Premio Letterario Internazionale Europa 2012 dell’Università della Pace della Svizzera Italiana di Lugano; al 6° posto al Premio Nuova Scrittura Attiva 2012 di Tricarico ed al 7° posto al Premio Internazionale Amici senza Confini 2011 di Roma. Ottiene il Premio Speciale Icaro scalzo 2010 a Taranto; al Concorso Internazionale Contemporanei d’Autore 2010 a Lecce; al Premio Sul Filo dell’Anima 2010 a Monteiasi; al Concorso La freccia di Cupido 2011 a Taranto; al Concorso Nazionale Vittorio Alfieri 2011 ad Asti e la Menzione Speciale al Premio Hypnos 2009 di Taranto. Gli viene conferita la Menzione d’Onore al Premio Internazionale Trofeo Penna d’Autore 2009 e 2010 di Torino ed al Premio Nazionale di Poesia Francescana Padre Damiano 2011 di Massa; un Diploma di Merito al Premio Italo Carretto 2010 di Bardineto ed al Concorso Internazionale Il Saggio 2010 di Serre. Da segnalare un Attestato al Premio Internazionale Mario Luzi – Vola alta Parola 2010 di Roma. Vince numerosi altri concorsi e viene inserito in prestigiose antologie e raccolte di poesie fra cui spiccano Il federiciano 2009, Luoghi di Parole 2009, I germogli del federiciano 2010,  Il federiciano 2011.
Come vincitore del Concorso Nuovi poeti e narratori 2009 della GDS Edizioni, nella primavera del 2010, ad otto anni, pubblica il suo primo quaderno di poesie chiamato “Il Sogno”. Con questo ottiene il Premio della Critica al Premio Alla mensa dei Sogni 2010 di Taranto ed il 1° posto al Concorso Pennecalamaio 2010 di Savona.
Scrivono di lui:
“Siamo tutti poeti, ma non tutti possediamo inchiostro. E lo scrivente, ben conscio delle capacità dell’enfant prodige, in punta di china, verga elogi in rima…”
“L’imputato” metta a frutto le sue spiccate qualità di giovane poeta e l’elegante ed armoniosa capacità espressiva. Ad majora”
“L’arcangelo-poeta sorvola, con le sue ali di carta, il microcosmo dei sentimenti familiari e indaga i lemmi e le ragioni del macrocosmo dei piccoli grandi mali della società”


nel luglio 2010 al Concorso Internazionale
 Contemporanei d’Autore a Lecce

nel maggio 2010 riceve il Premio
 Giovanna De Martini a Genova
                                                                            

I class. POESIA  SCUOLE ELEMENTARI
MADRE NATURA                                                                                       

La  natura  è  come  un  fiore  nell’umanità
che  porta  tanta  bontà.

La  natura  è  come  una  madre:
ci  dà  l’ossigeno
per  vivere  e  respirare,
ci  dà  i  frutti
per  sfamarci  tutti,
ci  dà  l’acqua
così  fresca  e  pura
per  farci  passare  l’arsura,
ci  dà  i  fiori
che  ci  donano  la  felicità
ai  nostri  cuori
e  la  bellezza
diventa  di  tanti  colori.

La  madre  natura  è  buona
con  ogni  persona:
ma  noi  che  facciamo?

Distruggiamo  la  natura
invece  di  averne  cura
e  lei  ci  dà  l’erba  pungente
e  nell’animo si  sente
  la  sua  tristezza
invece  vuole  solo  una  carezza.


 I class. FILASTROCCA  SCUOLE ELEMENTARI
GATTINO
                                                               Viene un gattino
sul mio lettino
è molto carino
si ferma sul cuscino.

Poi salta più in là
finisce sul sofà
corre di qua e di là
ride pure papà.

Il suo pelo è arancione
e non c’è paragone
cattura subito l’attenzione
quando è in azione.

Vieni gattino vieni
tra le mie braccia vieni
non so da dove provieni
ma il cuore mi rassereni.



CHIARA BUSCO  (Levanto, La Spezia)

I class. FILASTROCCA  SCUOLE SUPERIORI                                                                                       
UN PICCOLO GRANDE SOGNO

Sono corsa nella mia cameretta
e ho inserito una cassetta
intonava parole d’amore
e il tuo pensiero mi è assalito al cuore .
Nei miei pensieri
la tua immagine
non è andata più via
e ho capito che tu per me
sei come una malattia.
E come in una favola di fantasia
quel nastro raccontava il mio sogno
con un tocco di magia.
Tu mi rendi felice
ogni attimo della mia giornata
e in questo modo mi fai sentire amata .
I tuoi occhi da bambino
mi addolciscono come un cioccolatino.
Ogni giorno penso a te
e mi domando perché tu non sei vicino a me
e capisco che in questa favola incantata
tu sei il mio principe azzurro.

II class. POESIA  SCUOLE SUPERIORI                                                                                      
RICORDI

Quando stavo con te
tutto era perfetto,
ogni momento passato assieme
è un ricordo indelebile
come una scia dentro al cuore
che non va più via.
Da quando sei partita
è cambiata la mia vita,
non faccio che pensare a te
che mi hai mentito,
ed io ingenuamente pensavo 
che  tu potessi essere veramente
l’amica mia
che desideravo profondamente.


 STEFANIA RANDELLINI (Reggello, Firenze)

I class. POESIA SCUOLE SUPERIORI                                                                                      
RITORNO DAL PASSATO

L'occhio si appanna,
diviene la fonte
del fiume scarlatto
che sgorga sul viso.
Le gocce,
rievocano nello specchio
il nostro passato.
Lo incidono
sulle pagine,
sbiadite dal tempo, dal dolore.
La nostalgia,
la malinconia,
infiamma il fragile cuore.
Brucia il diario
che custodiva i ricordi.
Mentre l'odore della cenere
graffia l'anima,
relegata
nelle profonde tenebre,
oramai suo rifugio.

II class. RACCONTO SCUOLE SUPERIORI                                                                                                                                                    NOTE DI FOLLIA

Era il giorno del concerto. Nella sala in cui attendevamo in silenzio il nostro turno, si affollavano dentro di noi ansia, tensione mista a concentrazione, una concentrazione guidata dal ritmico scrosciare della pioggia. I tuoni forti accompagnavano le note del pianoforte, come una competizione in cui si contendevano il primato, il suono della cassa del pianoforte a coda riempiva le pause della pioggia incessante. Pioggia che dilagava, entrava dalle fessure delle porte e delle finestre e il suo rumore aumentava la malinconia e l'inquietudine di quel momento.
Si sa che i migliori devono chiudere i concerti perché il pubblico assista fino alla fine. La sorte mi colloca infatti alla fine della lista. L'attesa mi logora i nervi, cerco di massaggiarmi le tempie stanche ormai per la settimana insonne, periodo di veglia durante il quale mi dilettavo nella composizione del pezzo che tra poco, per la prima volta dovrò presentare al pubblico. Non è un pubblico vasto, ne tanto colto da doverne temere il giudizio, ma forse erano proprio queste le ragioni che mi tormentavano e mi dilaniavano continuamente di dubbi.
Forse una nota di rimorso in quel momento assaliva la mia anima?Se lo meritavano?Era giusto compiere quel gesto? Era veramente il mio dovere, il mio destino? Che sciocco che ero perché indugiare, come può la mia misera mente rispondere a tali misteri. Non c'era altra soluzione se non accettare stoicamente ciò che mi stava capitando e quello che mi condusse al successo.
Le mani cominciarono a tremarmi, sfortuna per un pianista che tra pochi minuti si deve esibire. Come per trovare la mia sicurezza glaciale ripercorsi con lo sguardo lo spartito. Era geniale, forse un po' presuntuoso da affermare da solo, ma  non potevo fare altrimenti era oggettivamente geniale quel pezzo “Note di Follia”. La sua mente lo aveva prodotto come sottofondo in uno dei suoi tanti incubi per i quali era dannato a quella perenne insonnia. Non aveva voluto farlo ascoltare a nessuno nemmeno alla sua insegnante la quale dopo tanti tentennamenti aveva accettato di farlo esibire rimanendo allo scuro e in una fervida curiosità: la sua mente si interrogava vanamente prendendo in esame qualsiasi strano o fantasioso pezzo il ragazzo avesse potuto creare.
Si mise seduto in un angolo lontano da tutti gli altri, un po' perché non conosceva nessuno un po' perché nel suo carattere aveva sempre nutrito una leggera misantropia. Faceva parte di lui, ed era uno di quei motivi per cui gli altri lo consideravano diverso, strano.
In una posa contemplativa si sedette su un panchetto con lo sguardo rivolto verso il soffitto. Poteva benissimo sembrare che si fosse addormentato dolcemente. Mentre la sua mente era alla ricerca di quell'equilibrio che la meditazione gli concedeva, quella pace che non riusciva a trovare né nel sonno, né nella veglia, ma solamente in quel limite in cui la realtà e l'immaginario si accavallano.
Ecco toccava a lui il suo nome era stato pronunciato e come tutti fu accolto con un ipocrita applauso. Si era sempre chiesto perché applaudire prima che il musicista si sia esibito, nel possibile e probabile caso non  piaccia, solo per dargli quella falsa illusione di essere apprezzato. Ma lui sapeva bene che in realtà era tutta ipocrisia, persino il sorriso più radioso accompagnato da un caldo applauso prendeva forma un profondo disprezzo dentro le loro menti poichè la presunzione umana definiva inevitabilmente banale e disarmonico ciò che in realtà il loro orecchio non era abituato a sentire, ciò che era loro distante.
Fu dopo questa riflessione che gli venne in mente di creare quel pezzo, una melodia che fosse comune a tutti gli animi, che rendesse gli uomini nudi e uguali nel sentirla, che svelasse i meandri più oscuri del loro cuore e della loro mente. Era per questo che l'aveva chiamato “Note di Follia”, già perché la follia è lo stato in cui tutti gli uomini si trovano e che celata nutrono dentro i loro cuori. Stato che si manifesta grazie agli input dei sentimenti negativi che animano il cuore umano, come l'invidia, la gelosia,l'ossessione o l'avidità. Cause di tutti i mali, in particolare del male supremo, la guerra.
Così ci vorrebbe una punizione verso questi uomini maledetti, o meglio una purificazione. E quale mezzo migliore se non quello della musica, strumento di collegamento tra la realtà, il suono fisico e l'immaginazione, frutto della mente umana? Quale fato crudele, dover punire dannati e nel farlo essere condannati a divenirlo in prima persona.
La mia leggiadra postura, il tocco delicato delle mie bianche dita attira subito il pubblico. Come un demone tentatore mi avvicino e seduco la mia preda. I tasti cominciano veloci a produrre la melodia che varia di toni e ottave, le note catturano l'attenzione, sembrano risucchiare l'anima dei presenti. Con un rapido sguardo vedo i lori occhi persi nel vuoto a esplorare chissà quale mondo fantastico suscitato dalla mia musica. Sembra che la loro coscienza lentamente li abbandoni. Improvvisamente sembra che anche il temporale che risuona impetuoso nel cielo, abbia compreso il mio obbiettivo e come un fido alleato con il suo graduale aumentare, intensifica la mia melodia e mi da forza. Come se la natura fosse d'accordo con il mio gesto, mi aiuta e mi fa sentire l'eroe destinato a compiere la sua missione.
Le note raggiungono il culmine, si arriva al picco della melodia, un tuono accompagna questa ascesi. Una breve pausa accresce l'atmosfera grave e pesante del momento.  Le pareti cominciano a grondare di sangue. Le gocce del liquido scarlatto colano rapide come la pioggia. Le note che provengono dal pianoforte come lame affilate si conficcano nella carne dei presenti. Gemiti fievoli provengono dalle loro bocche. Cavità di un corpo ormai fuori controllo, di un contenitore inutile e pesante al mondo. Ancora un'ultima pagina, prima della conclusione. Come un sadico torturatore mentre la mia vittima soffre le pene più terribili sento lungo la schiena un brivido di eccitazione. L'ultima frase la più irresistibile, proprio un vero peccato che questo mio pubblico appassionato non possa goderne appieno. E adesso la nota finale, i corpi vuoti si inclinano, si accasciano a terra, mentre il sangue che vi sgorga si mescola alla pioggia che continua a filtrare dentro la stanza. L'odore acro  e amaro mi assale i sensi, rendendomi finalmente consapevole della riuscita della mia missione. Mi alzo con un movimento nobile, il sangue mi cola dal soffitto su una guancia, come a marchiare il mio delitto per l'eternità. Guardo il mio pubblico privo di vita, mi inchino commosso dalle loro anime che si accalcano per esalare verso l'alto. Attorno a me si crea un'aurea sinistra e demoniaca e una rauca risata folle rimbomba nell'auditorium. L'eco delle mie risa è seguito da un lampo che illumina completamente l'ambiente anche le parti che fin dall'inizio si vedevano indistintamente in penombra. Una lacrima scende pura e cristallina e lava via la macchia di sangue. Finalmente il mio corpo decide di obbedire al mio cervello e comincia a muoversi, mentre è percosso incessantemente dall'alternarsi di riso e pianto isterico.


ALESSANDRA INFURNA (Vado Ligure, SV)

II class. SILLOGE
ARTE E VITA

Superare la realtà,
è l’unico desiderio
che ti chiedo di esaudire.
Ho deciso dal principio
di donarti la mia vita,
perché so di non potere esistere,
senza di te.
Nessuno mi crede,
quando dico che non è un capriccio,
ma un bisogno.
Tu sei la mia guida,
ma ti poni come ostacolo
quando mi assali,
mi costringi a capire quello che vuoi dire,
a ricalcare alla finestra il tuo ritratto
e renderlo mio.
Solo così
mi concedi un po’ di pace,
si spegne finalmente il disco inceppato
e l’organismo può riprendere aria.
Mi sento come un frutto spremuto,
svuotato nel suo intimo
di fronte ad uno specchio,
che fissa senza pietà
e non mi restituisce la mia quotidianità,
finché non ha risposte.
Arte e vita,
di pari passo,
nessuno mi crede,
ma è così.
Sono in una trappola voluta
e  stare qui dentro è la più grossa liberazione.

BOSCO DI PIOGGIA
Quel bosco
di pioggia affrettata,
nel tronco
si accorcia coi passi,
ma è vasto
e mi chiude
e bere i suoi bui
è essere tutto il reato.
Si arrampica
il gelo
ghiacciato,
si porta l’amore,
se c’è,
lo strappa da chi l’ha occupato.
Quel bosco
di pioggia affrettata
mi insegue,
io voglio sparire,
tranciare i miei rami,
evolvermi in scuro,
piuttosto che essere
chi ridà indietro.

MENZOGNE
Devo lasciare perdere
anni di castelli,
di menzogne,
di vita nell’irrealtà
che è distruzione e noia,
che sapeva
del sapore
dei contrari
ed ora non ha più gusto,
ma non so farlo,
dimenticare tutto …
Iniziare da un altro punto,
guardare la notte con altri occhi,
realizzare.
Dove inizia la vita vera?
La cerco in ciò che non è,
mi butto la verità alle spalle,
pensando che un’esistenza fittizia
salverà rapporti andati a male.
E se qui l’amore fa morire
nella vita vera cosa fa?
Chi fu il primo essere umano che pianse?
Un uomo o una donna?
Perché?


MARCO MELIS (Cagliari): nato in Bielorussia il 19 luglio 1994. Ha frequentato la scuola elementare e media nella Scuola Convitto di Zhodino, presso Minsk. E' stato adottato da una famiglia sarda; frequenta attualmente il Liceo Linguistico De Sanctis a Cagliari. Sta lavorando alla "Seconda Parte" della sua storia.


I class. RACCONTO SCUOLE SUPERIORI


Ho deciso di scrivere una storia, la storia di un ragazzo che viveva in Bielorussia ma adesso vive in Italia: la sua vita è stata dura, quando era un bambino.

La prima parte di questa storia è molto triste, ma la seconda parte, da ieri in poi, non lo è più. E questo è bello e pieno di speranza. Allora:

Prima Parte

19 luglio 1994: l’inizio di tutto
Tutto iniziò nel 1994, il 19 luglio alle tre di mattina: una signora fu ricoverata in ospedale perché doveva partorire. Partorire per lei è stato molto difficile, ma questa donna ha dato la vita a un bambino, a un suo figlio. Però il bambino è nato in condizioni difficili: pesava come tre pezzi di pane[1]. La mamma e il personale dell'ospedale facevano di tutto per salvare la vita di questo bambino. I primi giorni i dottori non facevano allattare il bambino dalla sua mamma, perché era proprio in condizioni gravissime. Però un giorno il bambino fu portato dalla sua mamma e la mamma gli diede il latte. Piano piano il bambino si riprendeva, diventando bello e forte, e la madre era la donna più felice del mondo. Dopo qualche settimana furono mandati a casa e lì il bambino conobbe suo padre e sua sorella, i nonni e gli zii.
il padre voleva chiamarlo Sascia, ma sua madre temeva che sarebbe stata una sfortuna, perché il padre si chiamava Sascia e se il figlio si fosse chiamato come lui si sarebbe attirato qualche maledizione. E così lo chiamarono Andrej.

Passavano gli anni, e il bambino cresceva e diventava molto bello: gli occhi li aveva marroni, i capelli li aveva castani, le ciglia le aveva lunghissime: era un ragazzino bello. Sua sorella si chiamava Anastasia, ed era una bella, bellissima ragazza: i capelli li aveva lunghi, belli e neri; gli occhi li aveva marroni come quelli del fratello ed era molto alta. La mamma dei bambini era piccolina di statura però era molto bella: le sue labbra erano molto grandi, gli occhi erano piccolini però belli. era una donna meravigliosa. Il padre era un gran giovane, alto, magro, bello, i capelli ricci, gli occhi marroni come quelli dei figli. Praticamente era una famiglia molto bella e contenta, e questo è importante in una famiglia: essere contenti e felici.

Vodka!
Così passavano gli anni: i bambini crescevano e i genitori invecchiavano.
E un giorno, quando andrej aveva quattro anni, tutto cambiò in quella famiglia: il padre incominciò a bere, a bere molto, e non rientrava a casa; la mamma si disperava, ma lui non se ne curava: beveva da suo fratello Yuri. Lui lo sapeva che suo fratello non poteva bere perché aveva problemi con gli occhi, ma gli dava da bere lo stesso.
La mamma gli dava le medicine e gli diceva di non bere, però lui non l'ascoltava: le medicine le buttava sotto il divano e la vodka in gola. E così tutti i giorni, tutti tutti i giorni. La moglie non ce la faceva più, lo supplicava, gli chiedeva di non bere perché lei manteneva la famiglia. Lei voleva bene ai suoi figli, ma il padre prendeva tutto come un gioco e si divertiva.
Passò un altro anno. i bambini crescevano: la sorella compì sette anni, andrej cinque, ma in famiglia non cambiò niente: il padre come beveva continuava a bere ancora. i bambini si stavano accorgendo che tutto andava male, che il padre non tornava a casa a dormire e la madre stava a piangere tutto il giorno. Da mangiare non ce n'era proprio niente e la casa era in condizioni pessime. Infatti la madre, con il suo stipendio, non ce la faceva a mantenere la famiglia, e come si dice da quelle parti: «La donna da sola in casa non è nessuno».
Giorno dopo giorno, la madre non ce la faceva più: portò i bambini dalla nonna e se ne andò...



Un periodo difficile ma felice
i bambini restarono con la nonna e il nonno. La nonna era invalida e camminava tenendosi al muro; il nonno lavorava e portava i soldi a casa; il padre lavorava tutti i giorni, ma beveva. La mamma incominciò a bere e veniva a casa di nonna ubriaca. E un giorno venne a casa di nonna ubriaca e incominciò a picchiare i suoi figli. Il nonno non lo sopportava più e la buttò fuori di casa.
Passarono mesi: la madre non veniva più a casa di nonna. I bambini erano felici con nonna e nonno; il padre aveva incominciato a lavorare regolarmente e passava il tempo con i figli, però beveva, anche se poco.
La casa di nonna era molto grande. C'erano tre camere: in una dormiva lei col nonno, in un’altra i bambini e nella terza il padre dei bambini. Però era disordinata, perché nonna era invalida: non riusciva a camminare, immaginiamo a fare pulizie. Nonno tutto il giorno era a lavorare e la casa non poteva pulirla; i bambini non sapevano cosa volesse dire, perché erano ancora bambini. Perciò la casa era sporca e disordinata.
Così passarono altri mesi e tutto rimase com'era: i bambini erano da soli, il padre lavorava, nonno anche, e nonna guardava i bambini. Il padre lavorava in un'associazione che si occupava di aggiustare i camion grandi e guadagnava molto, però i soldi andavano tutti per l’alcool. E i bambini mangiavano con lo stipendio di nonno.

Un giorno che non dimentico
Un giorno, un giorno che non dimenticherò mai, il padre andò al lavoro alle sette di sera. Era inverno ed era già buio, e prese una scorciatoia per arrivare al lavoro prima. Ci salutò e se ne andò.
Alle sei di mattina squillò il telefono di casa e nonno andò a rispondere.
«Pronto, con chi parlo?» «Sì, pronto, famiglia T.?» «Sì» risponde il nonno.
«Qui è il pronto soccorso. Il vostro figlio è da noi ed è in condizioni gravi. Voi siete il padre?» «Sì» risponde nonno. La voce di nonno era piena di pianto, i suoi occhi erano pieni di lacrime. «Vengo subito» rispose nonno e chiuse subito il telefono.
Nonno si vestì e se ne andò all'ospedale. Di mattina, quando i bambini si svegliarono e nonna anche, si accorsero che nonno non c’era. Era domenica e nonno non doveva andare al lavoro. Nonna chiamò tutti i parenti, ma tutti le dicevano che non sapevano nulla. Il padre doveva uscire alle nove di mattina e nonna non poteva neanche immaginarlo che nonno in quel momento si trovava a fianco di suo figlio.
Alle 9.30 squillò il telefono e rispose la sorellina.
«Pronto?» «Nastja, passami nonna» le chiese nonno. Nastja andò subito a chiamare nonna: «Nonna, nonna, c'è al telefono nonno.» Nonna, con tutte le forze che aveva, camminava verso il telefono, aiutandosi con il muro.
«Pronto, Vasilj, dove sei?» gli chiese nonna. La voce di nonno era triste e piena di pianto.
«Lida, sono all'ospedale» le rispose nonno. «E che cosa stai facendo? io sono preoccupata.»
«Lida, il nostro figlio è diventato cieco.» Nonna iniziò a piangere e a urlare: «non ci credo, i bambini adesso restano senza nessuno, non ci credo.»
Dal telefono si sentì soltanto il suono della chiusura. I bambini si avvicinarono alla nonna per chiedere che cosa stesse succedendo e per calmarla e lei rispose: «niente, nipotini miei, non è successo niente» e sempre piangeva.
Alle 10 di mattina, venne a casa di nonna Yuri, e nonna raccontò tutto a lui. Yuri senza aspettare chiamò un taxi, e andò all’ospedale. Lì incontrò nonno, e nonno gli raccontò tutto: dove avevano raccolto Sascia, che problemi aveva… Yuri sentì mancargli le forze e prese a piangere. Ma dentro di sè sentiva che era anche colpa sua, perché ricordava le cose che diceva la moglie del fratello.
Dopo un mese il padre fu portato a casa; i bambini sapevano già che il padre era diventato cieco. Da allora egli smise di bere e passava il suo tempo a casa con i bambini, perché non c’era altro da fare. La salute di nonna stava migliorando, però lei camminava sempre tenendosi al muro. per i primi anni dopo la sua malattia, lei rimaneva tutti i giorni a letto; poi nonno la faceva alzare e, piano piano, facevano qualche passo, e così iniziava a camminare. Adesso lei poteva preparare la colazione, mettere in ordine la casa, e fare altri piccoli lavoretti.
Il padre dei bambini stava sempre a casa, e sempre doveva essere controllato; infatti la sorellina, che capiva un po’ di più, era sempre lì: lui le chiedeva un bicchiere d’acqua, e lei lo portava.
La mamma dei bambini non si faceva vedere, e infatti i bambini l’avevano dimenticata. Nonno come sempre lavorava giorno e notte, e portava i soldi a casa. era un uomo forte e generoso e aiutava tutti quelli che avevano bisogno di aiuto. Nonno con la nonna avevano paura solo di una cosa: che i bambini venissero presi e portati in un istituto per i bambini orfani e per i bambini abbandonati dai genitori. per questo lavorava giorno e notte, perché i bambini fossero lasciati a casa, perché lui e nonna, e anche il loro padre, gli volevano bene. Quando Andrej compì cinque anni, iniziò ad aiutare la sorella nell’assistere il padre. facevano i turni: quando la sorella doveva uscire, lui le dava il cambio. Una volta rimase da solo in camera con il padre, si sedette nell’angolino e piangeva in silenzio, in modo che il padre non lo sentisse; ma il padre lo sentì lo stesso, e gli disse: «Avvicinati, figlio mio, scusami per favore» e iniziò a piangere. Andrej aveva un carattere per cui, vedendo il padre piangere, piangeva ancor più anche lui. diceva al padre: «No, papà, non piangere, non piangere, non è colpa tua» e piangevano tutti e due. Poi Andrej gli disse: «Papà, ti prometto che sarò sempre vicino a te, dovunque tu sia» e piangevano ancora di più. La nonna, che era dietro la porta, sentiva loro due parlare e piangere, e piangeva anche lei, perché era molto orgogliosa del suo nipote, che a cinque anni diceva queste parole al padre.

Festa… e no
In Bielorussia ci sono delle persone, che controllano le famiglie che non si occupano dei loro bambini. vengono a casa e guardano la casa: se la casa è inadatta, cioè per esempio in frigorifero non c’è da mangiare e la casa è poco curata, portano via i bambini. E li portano in un istituto per i bambini orfani, o se il bambino è ancora piccolo lo portano alla Casa dei Bambini.
E fu così. il 19 luglio 2001 Andrej compiva sei anni. il nonno comprò la torta, le bibite e una macchinina come regalo e le portò a casa per festeggiare il compleanno di Andrej. tutti erano contenti: la nonna preparava il tavolo, i ragazzi la aiutavano, fecero sedere il papà, Andrej si sedette vicino a lui, e così festeggiavano. tutti a quel tavolo erano molto contenti: ridevano, scherzavano e pensavano che la loro famiglia era diventata una famiglia vera e molto forte.
Ma no. all’improvviso suonò il campanello. nonno, che era vicino all’uscita del salone, andò ad aprire la porta. sulla soglia di casa c’erano alcune persone dall’aspetto severo: le loro facce sembravano le facce di chi vuole far male alla gente, di chi vuol togliere qualcosa di prezioso, una cosa a cui questa famiglia teneva molto.
e in Bielorussia ci sono molte famiglie che sono rimaste senza bambini. La vita di queste persone è spezzata: è come rimanere in un’isola da soli senza nessuno, e sapete che cosa calmava queste persone? una piccola bottiglietta di vodka. Immaginate una piccola bottiglietta di vodka, che spezza una vita piena di sorrisi e di felicità alle persone.
«Buon giorno» dice nonno con un sorriso pieno di felicità, perché pochi minuti fa era a tavola a ridere e scherzare.
«Buon giorno. lei sarebbe Vasilij T.?» gli chiede una signorina arcigna: «Sì, sono io, ma lei chi è?» le rispose nonno. Nella voce di nonno si sentiva la paura, perche aveva riconosciuto una persona, che era venuta altre volte a controllare la casa ed ora era con quella signorina, e aveva capito che venivano a controllare la casa e i bambini. La signorina rispose: «Noi siamo venuti per controllare la casa, e vogliamo vedere i bambini, vogliamo vedere in che condizioni sono. La avverto solo di una cosa: se i bambini sono in cattive condizioni, e la casa non è pulita, noi purtroppo portiamo via i bambini.» Dagli occhi di nonno cadevano le lacrime: «No, non potete portarli via, sono i miei nipoti, è l’unica cosa che ho, lasciateci in pace!» Ma la signorina gli rispose: «Eccome li portiamo via! È il nostro dovere! se un bambino sta male in una famiglia noi dobbiamo trovargli un'altra casa.»
Nonno, piangendo, le diceva: «Un’altra casa! Ma per voi, quando il bambino è lontano dalla famiglia, può avere un’altra casa? Sarà lontano dalle persone che sono rimaste tutti i giorni con loro, che si prendevano cura di loro, e voi venite e li portate via. Ma sapete che queste persone danno tutto per i bambini, per farli sorridere danno tutto, e non lasciano niente per se stessi, e voi venite e li portate via! ma sapete che voi siete un branco di animali che distruggono le famiglie.» La signorina era molto arrabbiata e disse a nonno: «Come si permette di parlarci in questo modo? polizia, prendetelo.»
La polizia prese nonno, gli misero le manette e entrarono in casa. Quando entrarono nel salone, Andrej dallo spavento si mise a piangere. la sorellina gli diceva di stare calmo, che queste persone sarebbero andate via subito. La signorina controllava la casa. era un po’ disordinata: il frigo era pieno di roba da mangiare, però la cucina non era pulita, e la signorina scriveva nel suo quaderno. Alla fine dei controlli, la signorina entrò nel salone e disse: «allora, i bambini verranno con noi, li portiamo in istituto.»
I bambini piangevano forte. Anastasia abbracciò Andrej e gli disse: «Fratellino, siccome oggi è il tuo compleanno ti faccio una promessa: prometto che da oggi mi prenderò cura di te, ti prometto che non ti lascerò mai!» E lo abbracciava più forte. la nonna, piangendo, e il padre, chiedevano che fosse data loro un’altra possibilità, ma quella gente non voleva sentire niente. Immaginatevelo voi, che cosa sentivano i bambini in quel momento: si erano messi nell’angolo più lontano e piangevano, le lacrime cadevano dalle loro faccine, anche loro chiedevano di lasciarli in casa; ma quella gente non sa che cos’è, quando togli a una persona qualcosa di prezioso, perché non ha mai avuto questi problemi.
I bambini furono portati in un istituto, però Andrej lo portarono in un dietski dom[2], e la sorella in uno škola internat[3].

Un’altra vita
Da quel momento Andrej si trovò da solo, e pensava alla promessa della sorella: lei gli aveva detto che non lo avrebbe lasciato mai, ma invece lo aveva lasciato. non poteva capire che la sorella non decideva niente perché anche lei era una bambina. Andrej era ancora un bambino piccolo, che aveva bisogno di qualcuno che lo proteggesse, ma non c’era nessuno per lui in quel momento.

Passò un anno. il nonno desiderava riportare i nipoti a casa e fece tutti i documenti, ma in tribunale gli dissero che non li poteva prendere perché la nonna era invalida e il papà dei bambini era cieco, e il nonno da solo non poteva accudirli. cosi i bambini rimasero in istituto. Ma nonno non si arrendeva: tutti i venerdì andava a prendere Andrej e Anastasia e li portava a casa sino alla domenica, e poi li riportava. Se non li avesse riportati entro la domenica, l’istituto avrebbe chiamato la polizia, e la polizia sarebbe andata a riprendere i bambini e li avrebbe riportati all’istituto.
Ma nonno li riportava sempre, perché sapeva che, se non li avesse riportati, non li avrebbe visti mai più. nonno prendeva i bambini ed era contento che li poteva vedere almeno tre giorni ogni settimana. anche la nonna e il papà dei bambini erano contenti. E sempre, quando li riportava in istituto, si fermavano al tabacchino, e il nonno chiedeva ai bambini: «Volete una jvacui bambini ridevano perché faceva ridere come lo diceva, e alla fine gli comprava un sacco di cose e li riportava all’istituto, e i bambini erano contenti e aspettavano il prossimo venerdì per andare a casa.
Il nonno gli diceva sempre, quando se ne andava: «comportatevi molto bene, studiate e fate tutto quello che vi chiedono le maestre.» Infatti i bambini andavano molto bene a scuola e le maestre erano molto contente: perciò li facevano andare tutti i venerdì a casa.
e il papà dei bambini diceva a suo padre: «Grazie, papà, di tutto di quello che stai facendo per i miei figli. sei un grande nonno, sono fiero di te» e lo abbracciava.

Tentativo di fuga
Ma un venerdì il nonno andò a casa da un amico che festeggiava il suo compleanno, e in Bielorussia la festa non è bella se non c’è una bottiglia di vodka. solo Anastasia sapeva che il nonno non sarebbe venuto a prenderli: perché da questo tipo di feste nessuno esce molto piacevole da vedersi.
Verso le quattro del pomeriggio Anastasia andò da Andrej al dietski dom. Infatti sapeva che, dopo che i bambini hanno dormito, li portano a fare una passeggiata fuori. Lì incontrò Andrej, e gli disse che nonno non sarebbe venuto perché era stanco (per non dire che nonno stava festeggiando). se voleva venire a casa, doveva aspettarla alle sei di sera vicino al cancello del dietski dom. Andrej le rispose: «Ma se iniziano a cercarmi, mi puniscono! io ho paura, sarà come scappare dall’istituto.» Anastasia gli rispose allora: «come vuoi: se non vuoi andare a casa rimani qui. ciao.» «No, aspetta, va bene. dove ti devo aspettare?» «Aspettami vicino al cancello, vengo a prenderti alle sei. ciao, devo andare.» «Ciao» le disse Andrej, e tornò a giocare con i suoi compagni.
Ogni cinque minuti andava a chiedere l’ora alla bidella, e la bidella era molto curiosa del perché gli servisse sapere che ora fosse. E iniziò a seguirlo: dove andava lui andava anche lei. dopo qualche tempo Andrej si avvicinò e le chiese di nuovo che ora fosse. la bidella gli rispose: «Le sei meno cinque» e Andrej pensò: «mancano cinque minuti, devo andare» e si allontanò piano piano, per non farsi vedere.
Si era buttato per terra e si trascinava come un soldato. per lui era come una missione. Voleva solo andare a casa. Il suo cuore batteva velocemente perchè aveva paura che la bidella lo scoprisse.
La bidella, che lo stava seguendo, lo vide e lo chiamò e gli chiese cosa stesse facendo. Andrej le rispose: «stavo giocando, stavo scappando dai banditi.»
La bidella gli disse: «Siediti qui e non muoverti, e scappa dai banditi vicino a me» perché le era venuto il dubbio che volesse scappare.
La sorella lo stava aspettando, ma Andrej non arrivava. Allora andò a vedere dove fosse, entrò nel giardino e vide che era seduto e stava piangendo. lei si avvicinò e gli chiese: «Che cos’hai?» ma Andrej non le rispose, perché aveva paura che la bidella lo punisse ancora di più. Anastasia gli disse: «E va bene, non piangere, non ti preoccupare, io vado a casa perché è tardi: l’ultimo pullman passa adesso.» Abbracciò forte Andrej e gli disse: «ti voglio tanto bene, fratellino» «anche io ti voglio bene, sorellina.» Andrej le chiese di salutare papà, nonno e nonna e di dirgli che lui gli voleva bene. la sorella lo salutò e se ne andò.

Il torneo
Così il tempo passava. Andrej si abituava al dietski dom e si divertiva molto, partecipava a tutto: ai giochi sportivi, ballava, recitava, era un ragazzo molto allegro e divertente. Amava molto lo sport. da piccolo gli piaceva sedersi con i suoi compagni sul muro, che non era molto alto, che divideva il cortile del dietski dom dal campo di calcio dello škola internat, e guardavano come giocavano a calcio i ragazzi più grandi, e tra sè pensava: «fra qualche anno sarò io a giocare qui e difenderò nei giochi sportivi il nome di questo istituto; ma adesso mi devo preparare per i giochi sportivi per la settimana prossima e difendere il nome di questo dietski dom». Infatti c’erano i giochi sportivi per i bambini della classe ‘94: in tutto erano dieci squadre e in ogni squadra ci dovevano essere undici ragazzini. Era un torneo per i bambini orfani di tutta la Repubblica Bielorussa. Questo torneo era molto prestigioso e i responsabili del dietski dom (direttore, allenatore, insegnanti…) ci tenevano molto. I bambini si allenavano tutti i giorni, però l’allenatore faceva di tutto per non affaticarli troppo: non era di quelle persone che pensano agli affari propri, lui teneva molto a questo gruppo perchè erano gli unici del dietski dom che potevano fare questo torneo. E anche loro volevano vincere il torneo ad ogni costo perchè amavano lo sport.
Il giorno del torneo arrivò. i bambini erano molto contenti e pronti a vincere, a strappare quella coppa e portarla a casa. Era tutto pronto per la partenza, ma ad un certo punto un ragazzino dalla squadra si sentì male. tutti si preoccupavano: «cosa facciamo adesso?» perché non c’era nessuno che lo potesse sostituire. Ma Andrej aveva un amico, Oleg, che era il suo miglior amico: tutti i ragazzi del gruppo lo prendevano in giro perché aveva una malattia per cui faceva la pipì nel letto. solo Andrej capiva che non c’è proprio niente da ridere e prendere in giro, perché a qualsiasi bambino può capitare questa malattia, ed era sicuro che, se fosse capitato a qualcun altro, il suo amico Oleg non l’avrebbe preso in giro.
Oleg era un ragazzino molto buono e intelligente, non si arrabbiava quando lo prendevano in giro, perché sapeva che spesso i ragazzini sono stupidi e che poteva capitare a tutti. Era cicciottello, molto divertente: aveva gli occhi celesti e i capelli scuri, come è proprio della nazionalità Bielorussa. ad Andrej piaceva stare con lui, erano due amici del cuore. Oleg andava pazzo per lo sport come tutti gli altri ragazzi, e solo Andrej sapeva che Oleg avrebbe partecipato volentieri a questo torneo, se avesse potuto.
Infatti Andrej disse: «Aspettate, io lo so chi può sostituire il nostro amico malato.» Tutti chiedevano: «chi è, chi è?» Andrej alza la testa e dice: «Oleg Berisuzki. si, ragazzi, lui lo può sostituire, credetemi, lui può farcela, dobbiamo solo credere in lui.»
C’era un compagno che si chiamava Vitalik. era più forte di tutti, e tutti avevano paura di lui, e quello che diceva lo facevano tutti. ma per Andrej erano tutti uguali, perché nell’istituto erano arrivati tutti con lo stesso problema. Vitalik diceva che lui non lo voleva in squadra, che si farà la pipì addosso quando vedrà la gente che ci sarà li, e tutti i compagni ridevano. Andrej disse: «ma perché ridete? siete stupidi! un asino dice una stupidaggine e altri asini iniziano a ridere!» Tutti smisero di ridere, solo Vitalik disse: «Come mi hai chiamato? ripeti per favore!» Andrej gli disse: «non ho paura di te, te lo posso ripetere anche cento volte: sei un asino che si crede forte, ma sei uno che non vale niente, ti usano perché sei forte, ma non sei intelligente, con la forza non risolvi niente.»
Vitalik voleva dare un pugno ad Andrej ma l’allenatore li vide e li fermò, dicendo: «Ragazzi, se noi vogliamo partire con questo carattere, possiamo già non partire, perché lì dobbiamo essere tutti uniti; uno per tutti e tutti per uno, ragazzi, possiamo vincere solo così.»
I ragazzi si guardavano in faccia, e dai loro sguardi si vedeva che stavano sbagliando tutti e due. Vitalik si avvicinò ad Andrej e gli disse: «Scusa, mi stavo sbagliando, io voglio vincere come vuoi vincere tu, e allora dobbiamo essere uniti per quella coppa. porta Oleg, che vinciamo insieme quella coppa.»
Andrej andò subito a chiamare a Oleg. Quando Andrej rientrò con Oleg, tutti i ragazzi gli dissero: «ben venuto in squadra» e Vitalik si avvicinò e gli chiese scusa da parte di tutti i ragazzi. «Eravamo molto stupidi, scusaci, Oleg.» Oleg lo guardò con un sorriso e gli disse:
«non ti preoccupare, ti devi preoccupare della coppa, e lo sai: se non la portiamo a casa sono guai per tutti.» i ragazzi si sorridevano a vicenda e intonando i loro cori entrarono nel pullman. Andrej pensava tra sè: «questa sì che è una squadra, questo sì che è un allenatore!»
Il viaggio durò un’ora e i ragazzi si addormentarono in pullman. c’era molto caldo, i ragazzi bevevano molta acqua, era dura per loro.
Alla fine arrivarono: erano tutti addormentati, e l’allenatore pensò di far fare un piccolo riscaldamento. Appoggiò la sua roba e disse: «Forza, ragazzi, facciamo un piccolo riscaldamento!»
i ragazzi senza brontolare iniziarono a correre. tutti li guardavano, e ragazzi si impegnavano di più. Dopo un piccolo riscaldamento, i ragazzi andarono allo spogliatoio per cambiarsi; lì si ripresero e si riposarono. I ragazzi scherzavano, ridevano, per mantenere vivo lo spirito di vincenti. Dopo una mezz’oretta nello spogliatoio entrò l’allenatore, e disse: «Ragazzi, è arrivato il momento di dimostrare chi siamo! adesso noi usciamo fuori tutti insieme e urliamo: “noi siamo campioni!” dobbiamo far paura all’avversario, si deve spaventare: li dovete guardare in faccia e dire: “vinciamo noi, voi perdete.” Adesso andate e vincete!»
i ragazzi iniziarono a urlare, a battere le mani, e dopo uscirono fuori, tutti insieme fuori. Tutti applaudivano e urlavano: “forza ragazzi, forza dai che ce la fate!” quello sì, che era un torneo, quella sì che era allegria! la squadra era piena di entusiasmo, volevano vincere, era adesso il loro primo obiettivo nella vita. Voi vi chiedete: “ma perché vogliono vincere? perché l’allenatore li costringe a vincere; perdono e va bene, l’importante è partecipare.” Ma io vi rispondo così: che nella vita bisogna essere furbi già da piccoli, devi essere pronto a tutto, devi essere forte e coraggioso, è solo così che si può vivere in questo mondo. E se non sarai così perderai tutto.
La gara era iniziata: la squadra di Andrej era seconda in tutto. mancava solo una gara, una gara che decideva tutto, fra la prima e la seconda squadra. L’allenatore prese il time out e chiamò tutti i ragazzi: «Ragazzi, ci rimane solo una gara, dovete dare un ultimo sforzo tutti quanti! adesso ascoltate il piano: allora, prima loro devono inseguire noi, scappate, fate trucchi, cadete, fate di tutto per non farvi acchiappare. Andrej, adesso tocca a te: dopo di loro vai tu ad acchiappare loro, tu sei il nostro capitano: crediamo in te.»
Tutta la squadra abbraccia Andrej, e gli dice: «Sei tu il nostro capitano, portaci la coppa, noi crediamo in te.»
Andrej aveva solo sei anni, e aveva già questa responsabilità: piacerebbe anche a lui non deludere i suoi compagni.
Il direttore di gara chiamò le squadre nel campo, poi chiese ai capitani di avvicinarsi e gli chiese se sapessero le regole. i ragazzi delle due squadre gli risposero di sì, che sapevano le regole. allora l’arbitro gli disse: «buona fortuna e in bocca lupo!»
I ragazzi sorrisero, si scambiarono una stretta di mano e andarono a prepararsi.
Un’ultima volta l’allenatore chiamò tutti i ragazzi e disse: «Ragazzi, siamo arrivati qui perché noi vogliamo vincere, perché noi siamo una squadra. adesso si decide tutto, adesso voi uscite in campo, e vi dovete divertire, non importa se perdiamo o vinciamo, l’importante è divertirsi.»
I ragazzi si guardarono e unirono le mani, e urlarono più forte che potevano: «siamo noi i più forti» e entrarono nel campo.
Lì la gara iniziò. i ragazzi erano tutti preparati, ed erano tutti convinti che potevano farcela. L’arbitro fischiò e la gara iniziò. la squadra di Andrej doveva scappare dagli avversari, e gli avversari dovevano sfilare una striscia colorata che era attaccata alle loro schiene.
La gara durava da cinque minuti, e alla fine gli avversari avevano strappato sei strisce alla squadra di Andrej. adesso toccava ad Andrej decidere la gara. era pronto, prontissimo per vincere.
Cosi Andrej iniziò il suo turno.
Andrej correva, però sapeva che non doveva sprecare tutta la forza solo in un minuto; la sprecava con i ragionamenti. al terzo minuto Andrej scivolò e cadde. Aveva strappato solo quattro strisce e gliene mancavano ancora tre per vincere la gara. tutto lo stadio era spaventato e rimaneva in silenzio: solo la squadra urlava: «Dai che ce la fai, dai che vinciamo!»
Andrej si alzò. dalla gamba usciva sangue, però la gara non era stata fermata. mancavano ancora due minuti e Andrej doveva strappare ancora tre strisce per vincere.
il ragazzo si alzò e in se stesso diceva: «vinco per mio padre, vinco per mia sorella, vinco per i miei parenti, vinco per la mia scuola, vinco perché sono un capitano.» E riuscì a strappare ancora due strisce.
mancavano trenta secondi: tutti speravano ancora. Andrej non ce la faceva più, dalla gamba usciva sangue, ed era stanco, però non si arrese. in questi trenta secondi voleva dare il massimo, e lo diede. iniziò a correre più veloce, nessuno se lo aspettava. alla fine strinse l’avversario in un angolo, mancavano dieci secondi, l’avversario era tutto spaventato, e Andrej sfruttò questa possibilità, non la sprecò. l’avversario voleva scappare sotto le gambe di Andrej ma lui fu più furbo: quando il ragazzo stava passando sotto le sue gambe, Andrej acchiappò la striscia e la strappò. Allora sentì in se stesso che poteva farcela. dieci secondi alla fine e mancava solo una striscia per vincere la gara. Andrej pensava e faceva un piano veloce, correva e studiava due avversari. E cosi iniziò a seguire un avversario; lo seguiva e alla fine pensò: «se non mi butto adesso perdo.» mancavano cinque secondi. Andrej si lanciò, con le punta delle dita acchiappò la striscia, cadde. l’arbitro fischiò la fine: la fine che voleva dire che questi ragazzi avevano vinto, avevano dimostrato di poter combattere nella vita, di poter dimostrare chi sono.
Tutti correvano ad abbracciare Andrej, tutti urlavano: «abbiamo vinto», tutti erano contenti. Anche i ragazzi piangevano, per quanto erano contenti.
Arrivò l’ora della premiazione. Tutte le squadre ebbero le medaglie; solo quella che aveva vinto ricevette le medaglie e la coppa, una coppa molto grande, una coppa che questi ragazzi non dimenticheranno mai.
Quando rientrarono a casa, vennero loro incontro con la musica, con i cori, con i balli. era una festa per loro, era una festa non dimenticabile. La prima coppa, l’hanno portata loro, i ragazzi del gruppo 7B.

E anche dopo sette anni buoni, quando andavo a visitare le mie maestre, ti raccontavano tutto di quando abbiamo vinto questa coppa. E come ti fa piacere sentire le cose, che hai fatto per questo istituto.

Ormai Andrej si era già abituato a vivere in questo istituto, per lui era come una casa, una casa piena di divertimenti. Capiva che se ti comporti bene con la gente, la gente si comporta bene con te, e lui viveva con questa frase: una frase che lo aiutava molto. ormai la gente si era affezionata a lui, e anche lui si era affezionato a loro: era un ragazzo molto desiderato, tutti scherzavano con lui, ormai il dietski dom era una casa per lui. sette lunghi anni di vita nell’istituto gli avevano fatto capire molte cose, le cose che l’aiutavano nella vita.

 È ora di andare a scuola
Andrej compì sette anni e doveva andare a scuola. Era molto contento perché voleva una nuova esperienza. Era contento anche perché lì dove sarebbe andato a studiare, studiava la sorella Anastasia, e così lui pensava che poteva vederla tutti giorni, e andare a casa tutti i venerdì.
era anche molto triste di andarsene dal dietskj dom, perché adesso non c’erano le maestre che ti guardavano: lì ti dovevi comportare bene e studiare, e nessuno ti chiedeva altro.
E così, un primo settembre, la scuola si riaprì, un lunedì molto soleggiato. i dieci ragazzi che vivevano nel dietskj dom si trasferivano per sempre; cambiavano casa e andavano a studiare nello škola internat, dove erano i loro fratelli e sorelle.
A quei tempi ti mandavano a studiare in una scuola dove c’era o una sorella o un fratello. infatti Andrej lo portarono dove c’era la sorella. In questo gruppo che andava a studiare in internat c’erano tutti i compagni del gruppo 7B. Il miglior amico di Andrej partiva per un’altra scuola lontano, perché suo fratello era in un altro istituto, però c’erano sempre gli amici di Andrej.
Così questi ragazzi sono stati portati a scuola. Lì hanno fatto una festicciola per i nuovi alunni, e poi li hanno portati nel gruppo, nel gruppo dove questi ragazzi stavano per iniziare la loro nuova vita.
I primi giorni era dura, dura perché ti dovevi abituare a un nuovo sistema, poi piano piano i ragazzi si abituavano, facevano la conoscenza con altri ragazzi del gruppo.
Così viveva giorno per giorno, e non c’è male a vivere così, solo che non hai la famiglia e non hai una persona cara vicino a te. era come vivere in una famiglia grande, dove tutti erano vicini a tutti. così lui ci si abituò e si fece molti amici.
La scuola iniziava alle 8.50 e finiva alle 13,45 o alle 14,45. Dopo la scuola andavi a pranzare e dopo il pranzo andavi a cambiarti. Poi, se non dovevi pulire la camera (perché lì facevamo i turni per le pulizie: ciascuno puliva la sua stanza a turno con i suoi compagni) avevi tempo libero: io andavo sempre a giocare a calcio! avevi tempo libero sino alle 16 perché dopo facevi la merenda, e poi andavi a fare i compiti per domani. sino alle 19 eri seduto in classe a fare compiti, alle 18 ti facevano uscire per dieci minuti e poi rientravi in classe. Alle 19 iniziava la cena; dopo avevi di nuovo tempo libero, sino alle otto: uscivi fuori, andavi a giocare, facevi quello che volevi. Quando rientravi andavi a fare la doccia se ne avevi bisogno. la doccia la facevi con un secchio: lo riempivi di acqua e te la buttavi addosso, e dopo andavi a dormire. e così era tutti i giorni.

Partenze
Poi entrarono nella vita di Andrej i suoi genitori italiani. Erano una famiglia molto buona e generosa; Andrej iniziò a andare in Italia con loro. gli piaceva molto l’Italia, era contento tutte le volte quando partiva per le vacanze. Ci andava per due mesi in estate e per un mese in inverno. Questa famiglia si era molto affezionata a Andrej. avevano un figlio, Francesco, e loro due andavano molto d’accordo. così tutti gli anni partiva per le vacanze.
invece la sorella partiva in Germania. anche queste, penso che erano brave persone. quando rientravano dalle vacanze i bambini avevano molto da raccontare, era bello. I genitori italiani mandavano anche regali per le maestre, per i direttori, e se il bambino che prendevano aveva i genitori veri mandavano anche un regalo per loro. Andrej aveva uno zio, una nonna, un nonno, le cugine e una zia: per tutte queste persone i genitori italiani mandavano qualche pensierino.
La vita era cambiata. Andrej stava dimenticando tutto il brutto che aveva passato, però nel cuore rimane sempre il dolore.

Il 2003 fu l’anno in cui la sorella partì per sempre in Germania. Andrej non poteva credere che la sorella se ne stesse andando. Avrebbe voluto partire con lei, però i genitori tedeschi non erano di questo parere. Eppure c’era una regola: che la sorella non si poteva separare dal fratello. per questo l’avevano portato a scuola dove c’era la sorella. se non ci fosse stata questa regola Andrej sarebbe potuto partire molto lontano da tutti…
la decisione fu presa dai genitori tedeschi che volevano una bambina, non una coppia di fratello e sorella.
Per salutare Nastja diede una festa. invitò tutti i suoi compagni. tutti raccontavano tutto quello che avevano passato, piangevano e ridevano insieme…
E poi arrivò il momento in cui Nastja doveva andare via. si avvicinò ad Andrej e gli disse: «Fratello, ho passato con te gli anni più belli dalla mia vita! tu lo sai, io ti voglio bene, e non ti dimenticherò mai. sei un fratello meraviglioso, sono contenta e fiera di te, ti voglio tanto bene.» Piangevano tutti e due. tutti li guardavano e loro piangevano. Nastja gli disse: «ti chiamo tutti i giorni, ci scriviamo tante lettere, poi se hai bisogno di qualcosa ti aiuto. devi avere fiducia in me e in te stesso. Sì, lo so, abbiamo passato insieme anni che non sono stati i più belli dalla nostra vita, ma ti dico solo una cosa: quando sono con te mi sento a casa.»
Andrej la abbracciava forte e le diceva all’orecchio: «prometti che tutto quello che hai detto lo farai: mi chiami tutti giorni. guarda che io aspetto.» nastja con le lacrime sulla faccia gli rispose: «Sì, te lo prometto.» lo abbracciò un’altra volta e se ne andò…

Per me dovevano ancora trascorrere anni di scuola, fino al diploma; poi la difficile decisione di partire. E il coraggio di iniziare daccapo, con tante speranze e anche qualche sogno.

A chi ha letto volentieri il mio racconto, dò appuntamento per la

Seconda Parte



[1] un pane pesa mezzo chilo.
[2] casa dei bambini
[3] scuola convitto



MARIO ALIPRANDI (Olginate, LC): “Nato a Rofrano (SA) l’11-05-1960, la fotografia da circa trent’anni e la poesia da un decennio, sono gli hobby che pratico nei pochi momenti di tempo libero. Non ho nessuna preparazione specifica, non conosco la metrica  e le mie, più che poesie, credo siano delle prose brevi, ballate romantiche, strumento/pretesto con le quali racconto la donna, gli amori, le malinconie degli amori difficili, sofferti, a volte impossibili, sfoghi nei momenti di incertezza sentimentale. Malgrado ciò, tante sono le soddisfazione raccolte; molte sono infatti le opere, sia letterarie che fotografiche, premiate con il primo, secondo e terzo posto o segnalate in vari concorsi in tutta Italia e molte ancora figurano nelle antologie di altrettanti concorsi.” 

II class. FOTO EQUILIBRIO (foto di copertina dell’ANTOLOGIA V EDIZIONE CONCORSO pennacalamaio@zacem.it)                                                                                                                     


 II class. SMS                                                                                                                               
Nascita di un Amore (frammenti) sotto forma di sms


… Mangiare ho mangiato, la macchina è fuori… Se inciampi nel desiderio di un mio abbraccio, volo.
Sto inciampando nelle parole di un uomo che sta correndo troppo in fretta e rischia di farsi male.
…Cosa mi stai facendo. Perché ti penso, anche se lui è qui al mio fianco e crede che sia solo sua… Ascolto la musica degli Evanescence e mi si stringe l’anima e sto soffrendo.
Essere a casa con mio marito e pensare ad un altro… Scrivere sms ad un altro mi mette una tachicardia pazzesca
Perché non prendi la macchina e vieni giù? Ti manco un poco? Vieni giù, avrai il pane da comprare… la spesa da fare?
Stupido… la spesa l’ho fatta oggi con lui e per domani, magari trovo una scusa… Ma guarda cosa mi ritrovo a fare e… Sì mi sei mancato un pochino… Solo un pochino.
Quando ti deciderai a dire quelle due parole?
Io so che ti penso sempre e questo vorrà pur dire qualcosa, ma è presto per dire qualcosa di più importante, ci vuole prudenza, però io ora ti sto baciando. La stella ribelle.
♥ ♥ ♥  ♥ ♥
Quando ci baciamo, scambiandoci tenerezze, il tuo trucco si posa tutto sulle lenti dei miei occhiali. Stamani erano lindi, trasparenti… Laura, dicono che ci manchi.
Io sento il tuo profumo sul mio cappotto e questo mi piace.
Sono sempre più stupito delle emozioni che si scatenano ogni volta che leggo qualcosa di carino che arriva da te.
E’ solo per i tuoi occhiali. Ciao ciao…
Gli occhiali contenti ringraziano per l’attenzione prestatagli. Dicono che ti amano. Pure loro…che palle!!!
Ricordi i miei baci delicati sul tuo viso, sulla tua nuca, sul tuo ombelico. Voglio poterti baciare così tutto il corpo e la schiena, là dove cambia nome.
TI AMO… NOTTE. LAURA.
Era ora !!!


III class. POESIA                                                                                                                         
COME UN DOLCE SETTEMBRE


Questa sera ti parlerò di lei, di lei che tornava ad ogni settembre per innamorarmi e di me che
ad ogni settembre m’innamoravo ancora. A te piace il mare, vero? Guarda lei, figlia di Nettuno,
lei è l’alta marea che fa sognare, che tiene a galla, lei è la bassa marea che ti porta negli abissi
agli inferi con la sua assenza.
Lei porta il mare dove mare non c’è.
Ricordo la prima volta che la vidi, io con i piedi d’argilla, sprofondato, lei con un soprabito
lilla che fluttuava, evanescente, eterea fra terra e cielo: ogni rumore si zittì, o così parve
al mio sentire, tutto si colorò di viola, nell’aria, profumo di lavanda, vento di Provenza.
Vuoi sapere una cosa? Prima che quel vento, in cui mi persi si placasse, mi nutrivo di lei.
E l’amo, l’amo, l’amo anche quando sono colpito dalle sue rabbie improvvise, che sfoga su di me con violenza, “In Cauda Venenum”, e mette tanti ostacoli tra me, le sue labbra, i suoi baci.
Lei porta il vento dove vento non c’è.
Ma poi torna con quel sorriso, e lì, credimi, trovi tutti i suoni del mare, tutti i suoi profumi e ti
senti volare, puoi volare, io lo so. T’illudi sia solo un vecchio batticuore, invece no, è di nuovo amore, è dolce schiavitù. Con quel sorriso, l’amerei fosse ancora quel rude macellaio di fine Ottocento. I suoi sorrisi, sai, regalano briciole d’eternità, stella ribelle, lei accende le mie notti.
Lei porta luce dove luce non c’è.
Vorrei raccontarle dei suoi occhi, dove si specchiano tutti i colori dell’autunno, che ogni anno
la riportano a me, delle emozioni che mi procurano al solo guardarli. Le direi che con la sua presenza cambia volto alle mie giornate. Le parlerei dei nostri piaceri segreti, del suo corpo,
che tremava sotto le mie mani, del mio, che ancora freme al ricordo delle sue; ma di questo, scusami, con te non parlo. Le direi che per farla tornare ho affidato a quel vento 1017 Gohei[1] con il suo nome. Vorrei sapesse che è nei miei pensieri anche quando penso ad altro, che
mi è necessaria, che sono perso di lei, perché lei è l’immenso, l’infinito, il mio infinito finito.
Le direi che voglio prendermi cura di lei, proteggerla, come la conchiglia il mare, come la
notte i sogni. Questo le direi - Solo trovassi le parole.
Lei porta musica dove musica non c’è.
Guardami, mi vedi, no? Sono qui con le mie rughe, pieno di dubbi, di conflitti, la mia barba
bianca a domandarmi cosa è stato dei miei sogni di ventenne, contro quale realtà si sono
infranti. Poi la guardo, e mentre le sue labbra si schiudono in quel sorriso che trafigge, li
ritrovo, sono tutti lì, integri, baciarle è vederli realizzati, baciarla è ritrovare i miei vent’anni.
Lei porta la primavera dove primavera non c’è.
Se poi cerchi il meglio di me, guarda ancora lei… Lei è la mia parte migliore.      
Lei porta amore dove amore non c’è – Lei… Mi ha portato via il cuore.
A settembre tornerà un altro settembre.  E tu?


MARIA CANDIDA BARABINO (Quiliano, SV): genovese di nascita, savonese di adozione, vive ora sulle colline di Quiliano coltivando orto e giardino. Liceo classico, laurea in giurisprudenza, per molti anni ha svolto funzioni di dirigente pubblico occupandosi fra l’altro di comunicazione ed eventi. La sua poesia elabora emozioni, ma anche problematiche sociali e ricordi legati a numerosi viaggi.

III class. FILASTROCCA
 FILASTROCCA UN PO’ LOCA

IL MIO bimbo
 gioca a palla,
la banana chiama “balla”!
 Il mio bimbo salta in culla

e poi l’uva
chiama “bulla”,

il suo cane, ovvio è un “bau”

mentre il gatto
chiama “mau”
e la luna in cielo

è “lullu”

mentre dorme

e sogna “frullu”
che vuol dire

un uccellino
tutto verde canarino
il mio bimbo dice mamma
 dice pappa e poi papà,
ma alla fine
prende “pappe”
poi le indossa

e se ne va.

I class. POESIA
LA PIANTA AMARA

CRESCE una cicoria stenta
 fra i viali polverosi
e l’ aguzza ghiaia

dei cimiteri urbani
mura di volti sbarrati
nel silenzio

e fiori pietosi

intrecciati fra plastica
e cemento,
io non riesco a sentire
le voci, le più amate neppure,

ma so che i morti parlano
rochi per la terra

che schiaccia, che comprime,
è forse un’altra guerra?

nel cimitero alpino

sotto i fianchi del Rosa
io le sentii le voci
risate e grida allegre

di ragazzi sfidanti
le pareti sublimi,
né roccia né valanga

suggella quelle labbra
dei morti di montagna
ma il singulto del vento…
altre grida gioiose

tu mi tiri la mano
sulla piazza elegante
si apre un mercatino…


CLAUDIO BATTISTA (Pescara):  “Nato a Pescara 48 anni fa, sono sposato e ho un figlio di quasi  15 anni. Lavoro in un supermercato alimentare del gruppo Gabrielli come addetto ortofrutta. Sono un divoratore di libri con la passione per la scrittura. Ho partecipato a tanti concorsi letterari tra i quali il ‘Premio letterario nazionale Cavallari di Pizzoli’ nel quale ho avuto una segnalazione di merito per il racconto ‘Il libro’, inserito all'interno della mia prima raccolta di racconti edita dal titolo Il carillon-dieci note d'amore e di morte con la quale ho partecipato al concorso internazionale ‘pennacalamaio@zacem.it’ classificandomi al terzo posto. Un’altra segnalazione di merito mi è stata attribuita al concorso ‘Città di Melegnano 2011’ con il racconto ‘Sotto un cielo crudele’.”


I class. RACCONTO                                                                                                                                                              IL DEBITO


La domenica è il giorno dedicato al Signore e alla famiglia. Ci si ritrova tutti in cucina attorno al tavolo imbandito per la colazione e si stila il programma per la giornata. Poi  s’indossa il vestito della festa e ci si reca in chiesa per la messa. Dopo la messa, fuori la chiesa, ci si ferma a scambiare due chiacchiere con gli amici: gli uomini da una parte a discorrere sul pomeriggio calcistico che li attende, le donne a scambiarsi ricette e pettegolezzi. I bambini giocano fra loro rumoreggiando come rondini nel cielo primaverile. C’è allegria, amicizia, voglia di stare insieme. Così avrebbe voluto trascorrere la domenica Fausto. Invece, alle sei del mattino, rispettando le disposizioni della sera, la sveglia cominciò a suonare. Un trillo lungo, insistente, di quelli che  perforano la testa da orecchio a orecchio. “Cazzo!”, imprecò Fausto schiacciando il pulsante sulla testa dell’orologio, mettendo fine a quell’urlo straziante. “Non dire parolacce, tesoro, non di domenica”, lo richiamò Luana con la voce ancora impastata di sonno, voltandosi dall’altro lato sistemandosi bene la coperta. “Oggi non è domenica, oggi è un altro fottutissimo giorno di lavoro…tesoro!”, rimbeccò Fausto sedendosi al bordo del letto. Infilò i piedi nelle ciabatte e si recò in cucina. Mise sul fuoco la caffettiera per il caffè, si sedette ed emise un lungo e rumoroso sbadiglio che risuonò nella casa ancora addormentata. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori: sarebbe stata una bella giornata di sole, una bella giornata di sole che avrebbe trascorso a impilare scatolette su uno scaffale. Il caffè cominciò a gorgogliare spandendo il suo aroma per la cucina. Ne versò una buona dose nella tazzina, un cucchiaino di zucchero e con pochi ma decisi sorsi finì il caffè.  Gli piaceva molto caldo, lo aiutava ad andare di corpo. Luana aveva ripreso sonno e il suo debole russare lo confermava. Beata lei, pensò Fausto cominciando a indossare la divisa da lavoro. Pronto per uscire, si avvicinò a Luana e le poggiò un bacio sulla fronte. Fuori l’aria era ancora fresca ma molto gradevole, il preludio ad una bella giornata. Salì in auto, accese il motore e inserì un cd nell’apposito vano. La splendida chitarra di Joe Bonamassa lo avrebbe accompagnato fino al lavoro aiutandolo a sbollire il nervoso. Ora ci voleva una bella sigaretta e una smorfia di disappunto distorse le sue labbra quando si rese conto di averle dimenticate a casa. Poco male, vicino al posto di lavoro c’era un tabaccaio con il distributore self-service. Le avrebbe prese lì e prima di entrare al lavoro si sarebbe fatto una bella fumata. Accostò sul marciapiedi, scese dall’auto e pescò dalla tasca del giubbino i soldi necessari per l’acquisto delle sigarette. Terminata l’operazione ne sfilò una dal pacchetto e la portò alla bocca. L’accese, tirò due profonde boccate e si poggiò all’auto. Non aveva proprio voglia di andare al lavoro. La primavera aveva permeato l’aria con i suoi profumi e per un attimo Fausto si sentì in colpa per il fumo della sigaretta che la scacciava via a malo modo. Ma ne aveva proprio voglia, tante volte aveva provato a smettere di fumare ma tante volte aveva ricominciato. Non aveva forse abbastanza forza di volontà o forse, versione più plausibile, non aveva alcuna intenzione di smettere. E’ vero, fumare fa male, ne era consapevole, ma non si viveva mica in eterno! Se non di fumo sarebbe comunque morto e forse a causa di qualcosa di più spiacevole e doloroso, perciò perché darsi tanta pena?! Guardò l’orologio. Le sette. Si stava facendo tardi, era il caso di rimettersi in macchina e partire. Stava per salire in auto quando notò sull’altro lato della strada, in prossimità dell’incrocio, un ragazzo in bici. Considerando che la domenica mattina per le strade non circolavano molte auto, il ragazzo non si preoccupò di controllare se la strada era libera prima di attraversare l’incrocio. Per sua fortuna, Fausto si accorse dell’auto che sopraggiungeva a velocità sostenuta. Probabilmente l’automobilista riteneva che la domenica mattina le strade erano tutte libere, o forse era ancora vittima della  nottata appena trascorsa. Fausto seguì con lo sguardo il ragazzo in bici, in attesa che rallentasse per controllare la strada, perché si rendeva conto di quello che sarebbe potuto accadere se il ragazzo non avesse prestato attenzione. Il ragazzo, poteva avere all’incirca una ventina d’anni, non rallentò in prossimità dell’incrocio e neanche si avvide dell’auto che stava per piombargli addosso. Senza pensarci su due volte Fausto corse sul ciglio della strada e cominciò ad agitare le braccia sbraitando all’indirizzo del giovane. “Fermati, arriva una macchina”, gli urlò continuando ad agitare le braccia come un naufrago che cerca di farsi scorgere da una nave lontana. Il ragazzo non lo degnò neanche di uno sguardo e Fausto si accorse che aveva alle orecchie delle cuffiette il cui filo era collegato al telefonino. Con la musica nelle orecchie non poteva certo sentirlo e l’auto si faceva sempre più vicina. Fausto non esitò neanche un attimo. Cominciò a correre sfidando la velocità dell’auto e strattonò il ragazzo proprio mentre l’auto li raggiungeva. L’autista si accorse all’ultimo momento dell’uomo che correva per strada e del ragazzo trascinato quasi a terra scardinato dalla bici e un urlo lancinante di freni artigliati all’asfalto ruppe la quiete di quella mattina. La bici finì sotto l’auto, trascinata per almeno una decina metri in un rumore stridulo di ferraglia contorta. Fausto finì a terra scorticandosi le mani nel tentativo di attutire la caduta, mentre il ragazzo riuscì a recuperare l’equilibrio e restare in piedi. Le cuffiette gli erano scivolate dalle orecchie e penzolavano tra le sue gambe diffondendo ancora la musica che sembrava il ronzio di una mosca impazzita di paura rinchiusa dentro una bottiglia. Alcune finestre dei palazzi circostanti si aprirono e occhi curiosi si affacciarono sulla strada. Qualche attimo per capire cosa fosse successo poi qualcuno urlò se avevano bisogno di un’autoambulanza. Il ragazzo non rispose, forse perché aveva appena realizzato che se le sue gambe, seppur tremanti, lo tenevano ancora in piedi, era grazie a quel signore che aveva visto gettarsi su di lui disarcionandolo dalla bici. Fausto si alzò, le mani doloranti e sanguinanti sulle palme scorticate. Guardò il ragazzo che guardava l’auto. Aveva finito la sua corsa al centro della strada, occupando entrambe le corsie. Fortunatamente non transitavano auto al momento dell’incidente. Fausto si avvicinò al ragazzo, scuotendolo con il gomito. Il ragazzo trasalì spaventato, gli occhi impallati e le labbra tremanti. “Stai bene?”, gli domandò Fausto. Non ebbe bisogno che il ragazzo rispondesse per capire che non stava bene. Con un gesto della mano richiamò l’attenzione dell’uomo che aveva chiesto se serviva un’autoambulanza e lo pregò di chiamarne una. Scosse di nuovo il ragazzo ma questo era tutto preso dalla visione dell’auto con la bici sotto, come un animale feroce che aveva appena catturato la preda e la stava mangiando. Fausto si avvicinò all’auto controllando le condizioni dell’autista. Sembrava svenuto. Aprì lo sportello e l’uomo al volante si accasciò di lato. Fausto lo prese al volo impedendogli di cadere a terra, imbrattandogli la camicia bianca di sangue. Era giovane anche lui, più o meno una trentina d’anni. Aveva un bozzo viola sulla fronte e il sangue che gli usciva dal naso. Lo tirò fuori dall’auto e lo stese a terra. Prese il fazzoletto dalla tasca del pantalone e gli tamponò la ferita al naso. Respirava e non sembrava in gravi condizioni, a parte la botta alla testa che si gonfiava a vista d’occhio. Il signore che si era offerto di chiamare l’autoambulanza uscì dal portone del palazzo e si avvicinò a Fausto. “Che diavolo è successo?”, domandò ansando per la corsa. Era piuttosto anziano e visibilmente preoccupato. “Credo di avergli appena salvato la vita”, rispose Fausto indicando con la testa il ragazzo ancora immobile sul ciglio della strada. Sembrava una statua. L’autoambulanza arrivò a sirene spiegate e Fausto e il signore al suo fianco si avvicinarono al giovane. “Tutto bene?”, gli chiese di nuovo Fausto. Le mani gli dolevano e gli bruciavano e si sarebbe fatto medicare, ma prima voleva essere certo che il ragazzo stesse bene. “Sì…sì, sto bene…”, guardò l’autoambulanza e l’uomo disteso a terra, “…lei mi ha salvato la vita”. Guardò Fausto e lo abbracciò. “Lei mi ha salvato la vita”, ripeté con voce rotta dall’emozione. Si era reso conto di quello che era accaduto e Fausto ritenne fosse più sicuro accompagnarlo dagli infermieri dell’autoambulanza: probabilmente avrebbe avuto una crisi ed era meglio che lo tenessero sotto controllo. Dopo essere stato medicato alle mani, Fausto si riavvicinò alla sua auto. Doveva comunque andare al lavoro per avvertire il direttore, poi se ne sarebbe tornato a casa. In tutto quel trambusto nessuno aveva notato l’uomo all’angolo della strada.
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Alle undici  di lunedì mattina il campanello risuonò all’interno dell’appartamento che Fausto divideva con la moglie Luana e la figlia quindicenne Sabrina. Comodamente sdraiato sul divano a guardare un film preso dalla sua collezione di dvd, optò per ignorare il suono del campanello. Un attimo dopo lo sentì di nuovo, seguito da due colpi discreti ma decisi sulla porta. Chiunque fosse, non aveva intenzione di andarsene e in qualche modo sapeva che lui era a casa. Si alzò, scivolò con lo sguardo sul pacchetto di sigarette sul tavolo e ne avrebbe presa una se Luana non gli avesse imposto il divieto assoluto di fumare in casa. Non mise in pausa il film dal momento che lo aveva visto già quattro volte e lo conosceva a memoria e si avvicinò alla porta. “Chi è?”, s’informò prima di aprire. Non aveva paura di un aggressione, quella sapeva fronteggiarla, era forte abbastanza, ma già da tempo non si usavano più le mani per aggredire la gente, ma qualunque oggetto potesse fungere da arma e lui non voleva rischiare. “Lei è il signor Fausto Paravati?”, domandò la persona dietro la porta. “Sì, sono io. Chi lo vuole?” “Una persona alla quale lei deve un favore”. Fausto rifletté, poi decise di non aprire la porta. “Io non devo favori a nessuno a quanto mi risulta, perciò addio”. Restò vicino la porta in attesa della risposta dell’uomo, ma sentì solo dei passi che si allontanavano. L’aveva capito, bene. Tornò in salotto, si distese di nuovo sul divano e riprese a vedere il film. Dopo dieci minuti il campanello della porta suonò di nuovo. Fausto sbuffò ma non si alzò. Questa volta poteva essere chiunque alla porta, non gliene fregava niente. Luana era al lavoro e Sabrina a scuola, perciò… “Hanno scritto una decina di libri sul galateo ma sembra che tu non ne abbia letto neanche uno”, asserì una voce alle sue spalle. Fausto scattò in piedi e il telecomando che aveva poggiato sullo stomaco volò all’altro capo della stanza finendo a terra aprendosi e spargendo le pile sul pavimento come le interiora ancora fumanti di un animale spiaccicato sull’asfalto da un auto in corsa. Il cuore gli esplose in gola con un unico, violento battito. Si guardò alle spalle. Sulla porta del salotto c’era un uomo vestito tutto di bianco, alto circa un metro e novanta, grasso più che robusto e una somiglianza impressionante con l’attore Jhon Landis. Come diavolo era entrato in casa sua? Era lui che aveva suonato alla porta? Lo guardava senza riuscire a parlare, aveva la bocca secca e la lingua appiccicata al palato. Se l’uomo lo avesse attaccato lui si sarebbe fatto travolgere senza accennare alcuna difesa. “Scusami se ti ho spaventato, non era mia intenzione, ma tu non mi hai dato altra scelta.” Indicò la porta d’ingresso con una mano grassoccia dalla quale sbucava un dito simile ad un salsicciotto. “Ho suonato due volte prima di entrare”, gli ricordò, come se questo spiegasse tutto. “Vuoi rapinarmi?”, gli domandò Fausto con voce tremula. L’uomo scoppiò a ridere reggendosi il pancione con entrambe le mani. “No, no, non sono qui per rapinarti. Ho solo bisogno di parlare con te.” Indicò una sedia. “Posso sedermi?” Fausto lo invitò indicando la sedia con la mano e quando l’uomo si fu seduto, sentendosi più tranquillo, si sedette anche lui. A debita distanza però. Sullo schermo del televisore il film cercava stoicamente di intromettersi tra i due ma senza risultato. “Sono qui perché ho un problema”, attaccò l’uomo prendendo una sigaretta dal taschino della giacca. Ne offrì una a Fausto che rifiutò. “Ieri mattina tu hai salvato la vita a un ragazzo”. Accese la sigaretta, tirò due boccate esalando il fumo verso l’alto. “A proposito, come vanno le mani?” Fausto le sollevò per mostrare le piccole fasciature che coprivano entrambe le palme. L’uomo annuì. “Un gesto eroico, devo riconoscerlo, ma quel ragazzo era mio e tu me lo hai tolto di mano”.  Fausto lo guardò senza capire il significato delle sue parole, poi il viso si illuminò di conoscenza. “Ho capito, anche tu avevi visto il ragazzo in pericolo e volevi salvarlo. Bè,..”  scrollò le spalle, “…non è un problema, quel ragazzo era talmente scioccato dall’accaduto che non mi avrà neanche riconosciuto e forse non si ricorderà la faccia del suo salvatore. Per me puoi benissimo dirgli che sei stato tu, non è un problema”. L’uomo fece un altro tiro di sigaretta e guardò Fausto sorridendo. “No, io non volevo salvarlo, è proprio questo il problema. Io ero lì in attesa della sua morte per portarmi via la sua anima ma tu l’hai salvato e io sono rimasto a bocca asciutta, capisci?”  In quell’istante Fausto ebbe la certezza di essere al cospetto di un pazzo e probabilmente anche pericoloso nonostante l’apparenza paciosa.  Lo guardava inorridito senza sapere cosa rispondere. E cosa avrebbe potuto dire ad un pazzo del genere! Il suo unico e prioritario pensiero fu quello di cercare di uscire di casa e chiamare la polizia o il manicomio criminale. L’uomo lo guardò e sorrise. “Non ti preoccupare, io non sono pazzo. Non devi chiamare né polizia né manicomio criminale.” Sorrise di nuovo, guardando lo sguardo attonito del suo interlocutore. “Posso leggere nel pensiero, sì, e adesso ascoltami perché è molto importante che tu capisca, d’accordo? Io sono un angelo e purtroppo sono quello più temuto e odiato dagli uomini, l’angelo della morte. Quel ragazzo era arrivato al capolinea della sua vita ed io ero pronto a prendermi la sua anima e portarlo con me ma tu...” agitò la mano in segno di stizza “…tu lo hai salvato e questo è un problema”. Fece una pausa. “Un problema per me ma anche per te”.  Fece un altro tiro di sigaretta, esalò il fumo, poi schiacciò la sigaretta nella mano, la chiuse a pugno, soffiò e la sigaretta sparì. Fausto avvertì un dolore acuto alla base del ventre, il dolore tagliente della paura che gli serrò le viscere in uno spasmo. Doveva andarsene da lì, doveva assolutamente lasciare casa sua o quel pazzo l’avrebbe ucciso. Doveva essere un maniaco psicopatico e anche un po’ prestigiatore visto il modo in cui aveva fatto sparire la sigaretta o come era entrato in casa sua. Fausto impallidì e l’uomo se ne avvide. Si alzò sollevando le mani sulla testa come per mostrargli che era innocuo e non voleva fargli del male. Fausto scatto con la sedia all’indietro afferrando un posacenere di vetro. “Avvicinati e ti spacco la testa”, gli intimò alzandosi. Si muoveva lentamente, cercando di guadagnare spazio sufficiente per darsela a gambe e chiamare davvero la polizia. “Non fare così, metti giù quel posacenere, non voglio farti del male. Ho bisogno della tua collaborazione”.  “Tu sei pazzo, esci da casa mia”, gli ordinò Fausto indicando la porta. Sempre con le mani sollevate sulla testa l’uomo si avvicinò alla porta del salotto. “Va bene vado via, ma tu mi devi un morto, ricordalo. Entro domenica devi farmi avere un morto se non vuoi diventare tu il morto di cui ho bisogno, hai capito?”. Non aveva più l’espressione pacioccona che aveva all’inizio. Ora il suo viso era duro e i suoi occhi cattivi. Fausto lo guardò con un espressione incredula sul viso.  “Cosa vuoi da me?!”. “Un morto, amico mio, un morto in cambio di quello che mi hai portato via”.
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Che diavolo stava succedendo? Guardava imbambolato la porta del salotto quasi si aspettasse di veder ricomparire quell’uomo misterioso. Era svanito così, all’improvviso,  davanti ai suoi occhi, come prima la sigaretta nella sua mano. Dio del cielo, aveva salvato la vita a un ragazzo compiendo un gesto di grande altruismo e notevole coraggio! Avrebbero dovuto premiarlo per quel gesto invece ora si ritrovava invischiato in una storia surreale. L’angelo della morte che reclamava un morto! Mai sentita storia più assurda. Gli aveva dato una settimana per dargli un morto. E che doveva fare, uccidere un uomo per pagare il suo debito?! Roba da matti. Raccolse i pezzi del telecomando da terra, vi reinserì le batterie e spense il televisore. Non aveva più voglia di vedere il film, aveva voglia di uscire, di prendere aria e schiarirsi le idee. Era quasi mezzogiorno, tra non molto sua moglie sarebbe rientrata dal lavoro e verso le due sua figlia da scuola. Aveva un po’ di tempo per una passeggiata. Era una giornata calda e camminare tra la gente lo fece sentire meglio. Raggiunse il parco vicino casa sua e si sedette su una panchina. Si guardò intorno. Bambini che giocavano mentre le mamme poco lontano si scambiavano pettegolezzi, anziani intenti nella quotidiana partita a carte sotto l’ombra di una quercia, giovani coppie che si scambiavano effusioni, il tutto allietato dall’allegro cinguettio degli uccelli. Chissà se anche in quella bella giornata avrebbe scorto la sagoma dell’uomo misterioso, l’angelo della morte, fermo in qualche angolo nascosto ad attendere la morte di qualcuno per portarsi via la sua anima. Il ragazzo era giunto al capolinea della sua vita. Lui l’aveva strappato al suo destino ma non pensava che avrebbe dovuto pagarne un prezzo così alto. Se solo non si fosse fermato a comprare le sigarette ma sarebbe andato dritto al lavoro, ora non si troverebbe in quel casino. Poi vai a fare del bene, ecco il risultato! Cosa avrebbe dovuto fare adesso? Pensò di parlarne con Luana ma poi scartò l’idea. Era una storia troppo incredibile per essere creduta. Ma Luana era anche l’unica persona che non l’avrebbe preso per pazzo. Per quanto potesse essere bizzarra quella situazione, lei gli avrebbe creduto.
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Silenzio. Un silenzio carico di attesa. E se vogliamo, imbarazzante. Fausto aspettava il verdetto di Luana con la stessa intensità con la quale un imputato attende che il giudice si pronunci alla fine di un processo. Anche quello, se vogliamo, era una sorta di processo. Luana avrebbe dovuto giudicare la sanità mentale del marito, avrebbe dovuto decidere se ritenerlo pazzo o capace di intendere e di volere. Molto difficile, lo capiva, ma Luana era una donna intelligente ed era certo della sua assoluzione. Luana lo guardava picchiettando con le dita sul tavolo. Sembrava il rullio del tamburo durante una condanna a morte. Poi le dita smisero di picchiettare. Luana trasse un profondo respiro e lo trattenne. Forse stava caricandosi del coraggio necessario per dire al marito che secondo lei era impazzito. “Ok, ti credo”, annunciò liberando il respiro, lasciandovi scivolare sopra le parole. Fausto sentì il peso che portava dentro liquefarsi all’istante, provando un immediato benessere e una sensazione di leggerezza che manifestò con un largo sorriso. “Grazie, sapevo che mi avresti creduto” le disse sfiorandole le mani con una carezza.  Luana continuava a guardarlo, gli occhi seri e concentrati. “Ora cosa hai intenzione di fare?”, gli domandò. “Non ne ho la più pallida idea”. “Ha detto che gli devi un morto. Questo vuol dire che tu… devi uccidere qualcuno?” Fausto non rispose. Si alzò, si avvicinò alla finestra e guardò fuori. La vita si manifestava in tutte le sue forme. Gente che lavorava, gente che passeggiava, un signore che portava al guinzaglio il proprio cane fumandosi una sigaretta, dei ragazzi che sarebbero dovuti essere a scuola si passavano un pallone cercando un posto dove organizzare una partita, gente comune, gente che ignorava che c’era un uomo che doveva scegliere uno di loro per poter saldare il suo debito e restare in vita. Uccidere. Solo la parola gli faceva venire i brividi. E pensare che andare al lavoro la domenica mattina gli era sembrato un problema insormontabile. Avrebbe lavorato tutte le domeniche per un anno intero piuttosto che avere quella spada di Damocle sulla testa. Aveva ragione il personaggio di quel film, Forrest Gump, quando diceva che la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita. Il viso riflesso sul vetro della finestra, si rese conto di come la sua vita aveva cambiato radicalmente direzione da un giorno all’altro. Fino al giorno prima era un addetto di un supermercato, con moglie, figlia e la solita routine. Quante volte aveva desiderato poter cambiare la sua vita! Certamente non pensava a questo, certamente non pensava di diventare il sicario della morte! Sentì la mano di Luana  poggiarsi sulla spalla. “Abbiamo un problema e come abbiamo sempre fatto, risolveremo insieme anche questo”. La sua voce era determinata, come se avesse già in mente come fare. Fausto si voltò e la guardò negli occhi. Era grato dell’aiuto che lei gli offriva ma anche spaventato. Forse lei un idea c’è l’aveva davvero: dopotutto si sa, le donne ne sanno una più del diavolo!
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“E’ lui”. “Lui? Un barbone?”. “Sì, un barbone. Non ha casa, non ha famiglia e quella panchina è il suo letto. Viene sempre qui a dormire, lo so perché me lo ha detto Gianna. Il marito è metronotte e lo vede sempre disteso a dormire su quella panchina. Tutte le notti. La sua morte non desterà tanto clamore. Un'altra vittima della strada”, dichiarò Luana accendendosi una sigaretta. Fausto guardò l’uomo seduto sulla panchina del parco. Un barbone. Una buona idea. Chi si preoccupava di un barbone morto? E se anche avesse avuto qualche parente che avrebbe potuto riconoscerlo attraverso i giornali o la televisione, non rappresentava un grosso problema. Era un barbone, rischiare la vita faceva parte del suo modus vivendi. “Come lo… come ci liberiamo di lui?”, domandò Fausto riconoscendo a Luana il ruolo di capo in quell’improvvisato duo di assassini. “Dovremmo farlo domenica mattina ma questo è un luogo pubblico e qui la domenica mattina è piena di gente fissata per la corsa. E poi non deve in nessun modo risultare che è stato ucciso intenzionalmente. Dovrà sembrare un incidente, una tragica fatalità”. Aprì il finestrino dell’auto e gettò fuori la sigaretta fumata per metà. “Guarda, lì c’è un cassonetto dell’immondizia. I barboni vanno sempre a controllare se tra i rifiuti c’è qualcosa di commestibile. Noi sabato notte veniamo, apriamo il cassonetto e spargiamo per terra un po’ di spazzatura, dando l’idea che qualcuno abbia frugato in cerca di qualcosa da mangiare. Avvolto in un pezzo di giornale mettiamo un cornetto farcito con del veleno per topi e lo poggiamo sulla panchina, accanto al barbone. Al mattino svegliandosi lo troverà, lo mangerà e morirà. E tu avrai saldato il tuo debito”. Sorrise come una bambina che aveva appena ripetuto la poesia di Natale. “Mio Dio, dovrò comportarmi sempre bene con te”, asserì Fausto con un sorriso forzato. Sua moglie aveva appena elaborato un piano per assassinare un uomo innocente e lui ne era complice. Non riusciva a crederci. Luana si unì a lui con un sorriso genuino, gratificante. Era un piano geniale e tutto sarebbe andato per il meglio. Fausto baciò Luana con passione e se non erano parcheggiati davanti all’ingresso del parco, le sarebbe saltato addosso e avrebbero fatto l’amore lì. Si sentiva leggero, il suo problema si andava risolvendo. “C’è un particolare però che non abbiamo considerato”, sottolineò Fausto cavando dal taschino della camicia una sigaretta. La portò alle labbra e l’accese. “Se sabato sera lui non sarà qui? Se domani o dopodomani decidesse di non amare più questo posto e andar via?”. A questo Luana non aveva pensato, in effetti. Era appena mercoledì e mancavano quattro giorni a domenica. In quattro giorni poteva accadere di tutto. Prese una delle sigarette di Fausto, l’accese e scese dall’auto. Passeggiò avanti e indietro e Fausto poteva quasi sentire il rumore degli ingranaggi del suo cervello al lavoro. Finì la sigaretta e risalì in auto. Il suo sorriso era tutto un programma. 
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L’età dell’adolescenza non aveva ancora intaccato in profondità il carattere di Sabrina. Era ancora piuttosto “normale” eccezion fatta per il tipo di abbigliamento che indossava. Pantaloni con il cavallo che strusciava quasi per terra, maglie di due misure più grandi e capelli con chiazze di colore così rosso che sembrava le fosse caduto in testa una latta di vernice. Era ben poca cosa rispetto a quello che si vedeva e sentiva in giro e a Fausto e Luana andava bene così. Per lo meno la loro figlia era lontana da fumo, alcool e droga e per quanto riguardava i ragazzi, bè, non sapevano ancora niente, anche perché lei non si sarebbe mai confidata con loro su un tema così scottante come il sesso. Forse Annalisa, la sua migliore amica, ne sapeva qualcosa. Quel mercoledì sera Annalisa era ospite in casa della famiglia Paravanti e per l’occasione Fausto aveva ordinato delle pizze nella pizzeria vicino casa. I preparativi per il piano escogitato da Luana avevano occupato tutto il pomeriggio perciò la pizza era una soluzione ottima e veloce. Sabrina e Annalisa sembravano due fidanzati che cercavano di nascondere il loro amore ai genitori ma il controllo delle loro emozioni era pressoché nullo. La mente di Fausto era occupata dal pensiero del barbone che tra quattro giorni sarebbe stato trovato morto su una panchina del parco. Il prezzo che doveva pagare per rimettersi in pari con l’angelo della morte. Certe volte, nel buio della notte, si chiedeva se per caso non era stato tutto frutto della sua immaginazione, o se era vittima di qualche esperimento o se semplicemente stava perdendo la ragione. E Luana? Stava accadendo la stessa cosa anche a lei? Non poteva credere che anche Luana stava perdendo la ragione! Forse era semplicemente accaduto. Il solo fatto che una cosa del genere era empiricamente impossibile che potesse accadere, non escludeva che comunque poteva accadere. Nulla è impossibile a questo mondo. Comunque sia, stava per risolvere il suo problema e grazie all’aiuto di sua moglie. Aveva fatto bene a parlare con lei. Luana, dal canto suo, aveva notato una certa complicità nello sguardo delle ragazze. Era stata anche lei una quindicenne e conosceva bene quegli sguardi. Come sapeva bene che non avrebbero mai parlato davanti a un maschio, esemplare la cui capacità di comprensione era ai minimi termini. Luana doveva restare sola con le ragazze così pregò il marito di andare in cucina a prendere il liquore da versare sul gelato. Conosceva bene suo marito e sapeva che ne avrebbe approfittato per fumarsi una sigaretta in santa pace. Rimaste sole, Luana lasciò che le ragazze esponessero la loro richiesta. “Posso restare a dormire da Annalisa questa sera? In televisione c’è un concerto dei Green Day e lei ha un sistema home theatre da paura”. Luana sorrise e non per la richiesta della figlia ma perché questo facilitava lo svolgimento del suo piano. Acconsentì, ricordando alle ragazze che il giorno dopo c’era scuola. Le ragazze saltarono sulle sedie felici e Sabrina si gettò al collo della madre riempiendola di baci. ‘Sono io che devo ringraziarti’, pensò, ‘io e tuo padre’. Fausto rientrò con la bottiglia di liquore. Le ragazze avevano già finito il loro gelato e si preparavano per uscire. “Mi sono perso qualcosa?”, domandò Fausto porgendo la bottiglia alla moglie. “No, le ragazze dormono insieme stanotte perché in televisione c’è il concerto dei Green Day e vogliono vederlo”, rispose Luana assaporando il gelato. “Ma domani c’è scuola, non faranno tardi?”, obiettò Fausto guardando Luana. Lei alzò le spalle. “Mi hanno assicurato che non ci saranno problemi per la scuola, vero ragazze?”. Le ragazze annuirono insieme, con una coordinazione quasi meccanica. Uscirono, lasciando soli Fausto e Luana. 
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A mezzanotte meno un quarto Fausto e Luana lasciarono l’appartamento per recarsi al loro appuntamento nel parco. Ignaro di quanto gli stava per accadere, il barbone dormiva sotto una coperta fatta di giornali e cartoni. Una bottiglia di vino vuota era rovesciata ai piedi della panchina. Il parco era deserto. In lontananza un cane abbaiava alla luna. Fausto e Luana si guardarono negli occhi prima di scendere dall’auto. Un pensiero corse alla loro figlia Sabrina. In quel momento forse dormiva o forse confidava i suoi piccoli segreti di cuore alla sua migliore amica e mai avrebbe immaginato quello che i suoi genitori stavano per fare. Fausto scese dall’auto e dal portabagagli prese il sacco della spazzatura e la corda. Luana gli si avvicinò, con la boccetta di cloroformio in una mano e un sacchetto di cotone nell’altra. Il loro piano era semplice: per non correre il rischio di perdere il barbone, lo avrebbero rapito, portato nella piccola casupola che il padre di Fausto aveva a circa dieci chilometri dalla città e lì lo avrebbero tenuto nascosto fino a domenica mattina. Fino all’ora della sua morte. Non c’era pericolo che il padre di Fausto si recasse nella sua piccola casetta, era a letto con l’influenza e per diversi giorni sarebbe rimasto tappato a casa. Tutto filava alla perfezione. Sembrava quasi che qualcuno stesse dando loro una mano. Se fosse stato l’angelo della morte?! Il barbone, aiutato dalla bottiglia di vino, dormiva della grossa e non oppose la minima resistenza. Fausto fu certo che non si era nemmeno accorto che qualcuno lo stava portando via dal suo giaciglio. Bene. Raggiunsero la loro meta che mancavano dieci minuti all’una di notte. Durante il tragitto Fausto si augurò che nessuna pattuglia di polizia o carabinieri fosse in servizio. Sarebbe stata una beffa crudele. Raggiunsero la casa, scaricarono il barbone e lo legarono ad una sedia, imbavagliandolo. Quella sorta di capanna attrezzata a mò di mini appartamento sorgeva in aperta campagna e nessuno lo avrebbe sentito urlare, ma la prudenza non è mai troppa. Prima di andar via Luana gli tamponò di nuovo il naso con il cotone imbevuto di cloroformio subendo le rimostranze del marito. Non doveva esagerare, non dovevano correre il rischio di ucciderlo prima del tempo. La puzza di vino che emanava il barbone si mischiava con la puzza della sua vita perennemente in mezzo alla strada e aveva appestato la stanza. Avrebbero dovuto aprire le finestre una volta finito per mandar via la puzza. Uscirono lasciando il barbone addormentato e legato sulla sedia. Che bella sorpresa avrebbe avuto al risveglio!
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Sembrava davvero che il fato stesse dando loro una mano quando Sabrina, seduta a cena, venerdì sera, fece una richiesta ai suoi genitori.  “Sabato sera c’è la festa di compleanno di Martina e ha invitato tutta la classe. Potrei restare a dormire da Annalisa sabato sera? Ci accompagnerà alla festa il padre di Annalisa poi ci verrà a riprendere. dormire da Annalisa sabato sera? Dite di sì per favore, lo so che l’ho chiesto anche mercoledì sera, però vi prego, è una festa di compleanno!” “Certo che puoi restare a dormire da Annalisa, tesoro, non c’è nessun problema e poi vi accompagna il padre di Annalisa e vi viene a riprendere!” Sabrina guardò anche il padre, in attesa di un suo commento. Fausto scrollò le spalle come a dire, tua madre ha deciso, perciò… “Grazie, vi voglio bene, telefono subito ad Annalisa”. Si alzò dalla sedia, prese il telefono e si chiuse in camera. Dalla cucina Fausto e Luana potevano udire il cicaleccio entusiasta della loro figlia. Chissà come l’avrebbe presa se avesse saputo che per la sua uscita serale avrebbe dovuto ringraziare un barbone!
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Sabato notte. Mezzanotte meno un quarto. L’ora ics. Fausto e Luana si destarono da una notte insonne, presero il caffè e uscirono. Il tutto senza dire una parola. In una busta era riposto il cornetto farcito al veleno per topi. La colazione del barbone. Non sapevano neanche il suo nome ma poco importava. Ben presto sarebbe stato solo un ricordo, un segreto che Fausto e Luana avrebbero condiviso per il resto della vita. In auto non parlarono molto, solo per ripassare il piano. A quell’ora il barbone era sicuramente sveglio, incazzato come una bestia e terribilmente affamato. Gli avrebbero fatto mangiare un pezzo del cornetto, non tutto, poi avrebbero atteso la sua morte. Lo avrebbe caricato in auto e riaccompagnato sulla panchina, coprendolo con giornali e cartoni. Il mattino dopo lo avrebbero trovato morto, ucciso da un pezzo di cornetto avvelenato. Fausto avrebbe saldato il suo debito, nessuno sarebbe mai risalito a loro per la morte del barbone e tutti avrebbero vissuto felici e contenti. Fausto si sentiva un peso sullo stomaco. In fondo quel povero barbone non c’entrava niente, ma a dirla tutta anche lui non c’entrava niente: in fondo si trovava nei guai perché aveva salvato la vita a un ragazzo. Raggiunsero la casa, scesero dall’auto e il cuore di Fausto si fermò, immobilizzato in una stretta morsa di paura. La porta di casa era leggermente aperta. Fausto guardò Luana e sul pallore del suo viso lesse la stessa paura. Il barbone si era liberato ed era scappato. Non c’era altra spiegazione. Fausto raccolse un ramo piuttosto robusto e si avvicinò alla porta. Solo allora si avvide dell’auto nascosta dietro la casa. C’era qualcuno. Qualcuno aveva trovato il barbone legato e imbavagliato e lo aveva liberato. Attraverso il proprietario della casa sarebbero risaliti a lui. Era la fine. Ma l’auto era ancora lì e questo forse era un buon segno. Non era ancora tutto perduto. Con le labbra aride e il cuore in tumulto, Fausto entrò in casa. Dietro di lui Luana, spaventata a morte. Una lama di luce filtrava attraverso la porta del soggiorno dove il barbone sarebbe dovuto essere ancora legato. Fece segno a Luana di allontanarsi di qualche passo mentre lui apriva la porta. La spinse lentamente con la mano fino ad avere metà stanza a portata d’occhio. Vide due gambe distese per terra con  un piede privo di scarpa. Un cadavere. Un verso acido gli salì su per la gola. Aprì del tutto la porta e vide altre due gambe, distese a terra a poca distanza dalle prime. Sentì le gambe vacillare e il cuore sussultare in uno spasimo violento, quasi volesse spaccargli il torace, incapace di sopportare tanto dolore. Una porzione di jeans indossato da quelle gambe distese a terra aveva una cucitura particolare, una piccola saetta ricalcata dal nome del gruppo degli “AC/DC”. Quel segno, quella specie di marchio all’altezza del polpaccio l’aveva cucita Luana sul pantalone di Sabrina, il pantalone che aveva indossato per andare alla festa delle festa. Quel segno che ora  vedeva sulle gambe inermi, distese a terra. Il ramo utilizzato come arma di difesa gli scivolò a terra rimbalzandogli tra piedi.  Un verso di dolore gli uscì dalla bocca e Luana si avvicinò preoccupata. Vide anche lei la saetta sui jeans. Urlò, precipitandosi accanto al corpo senza vita di Sabrina. Scivolò sul sangue che le usciva dalla gola recisa e cadde. Urlava il nome della figlia disperata. Fausto le fu accanto in un attimo, inginocchiandosi vicino al corpo della ragazza. Accanto al corpo di Sabrina c’era quello di un ragazzo che non avevano mai visto, anche lui con la gola recisa. Con gli occhi offuscati dal pianto e il cuore in frantumi dal dolore Fausto guardò la sedia sulla quale avevano legato il barbone. Vuota. Le corde erano state tagliate di netto. Quel bastardo doveva avere un coltello con se e si era liberato. Una persona che vive per strada giorno e notte deve essere attrezzato alla difesa. Cristo, la loro inesperienza era stata pagata dalla loro unica figlia. Ma cosa ci faceva Sabrina in quella casa  in compagnia di un ragazzo? Per terra, poco distante dal ragazzo, una scatola di profilattici era stata raggiunta dal sangue. Era ancora integra, non avevano neanche fatto in tempo ad aprirla. Luana urlava abbracciata alla figlia, Fausto si sentiva morire di dolore. Si sentiva colpevole per la morte della figlia, colpevole per aver deciso di dare la morte ad un innocente. Sabrina aveva pagato per il suo egoismo. Luana era distesa a terra, accanto al corpo della figlia, incurante del sangue. Le urlava di alzarsi, di finirla con quello scherzo macabro. Ma Sabrina non rispondeva e lei continuava a urlare. Era in piena crisi isterica. “Il patto era di un morto, ma se me ne dai due, chi più felice di me?” esclamò una voce alle loro spalle. Fausto trasalì riconoscendo la voce dell’angelo della morte. Era venuto a prendere l’anima della figlia e portarla con sé. “Bastardo figlio di puttana!”, gli urlò cercando di colpirlo con un pugno. Riuscì solo a smuovere l’aria, passando attraverso il corpo evanescente dell’angelo. “Non è colpa mia se vostra figlia vi ha mentito e voi le avete creduto. Sapete, non c’era nessuna festa sabato sera. Era solo una scusa per poter dormire a casa dell’amica, che poi è una scusa anche quella. Vostra figlia voleva trascorrere una notte con il suo ragazzo, voleva concedersi a lui, diventare donna, ma…” indicò i corpi distesi a terra, “…le è andata male”. Si accese una sigaretta, sbuffò il fumo verso l’alto e si avvicinò alla porta. Si voltò guardando Fausto. “Comunque il tuo debito è saldato. Non hai più pendenze con me”, e uscì. Fausto era imbambolato dal dolore, non riusciva a credere a quello che stava succedendo. La loro vita era stata stroncata da una tragedia della quale loro erano responsabili. Avevano ucciso loro Sabrina, la loro unica figlia. Raccolse la busta scivolata di mano a Luana, l’aprì e tirò fuori il cornetto. Lo guardò. Con quello avrebbero dovuto uccidere il barbone, invece il barbone era ancora vivo e Sabrina era morta. Avvertì un dolore atroce al petto. Le lacrime scesero dai suoi occhi colmi di rimpianto e con un morso staccò un pezzo di cornetto. Lo offrì a Luana, distesa accanto al corpo della figlia.  Lei guardò il marito, prese il cornetto e ne staccò un pezzo. Poi, anche Fausto si distese accanto al corpo della figlia. L’abbracciarono. E mentre l’alba rischiarava lentamente il mondo, Fausto e Luana si stringevano a Sabrina in un abbraccio mortale.





ROBERTO BIGOTTO (Piove di Sacco, PD): “Sono padovano e ho 47 anni, laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche,  all'Università di Padova. Sono appassionato di storia e sono stato appunto uno storico del diritto penale romano, materia in cui mi sono laureato. Scrivo poesie dal 1980 e ho pubblicato 3 libri: L'angelo di pietra, L'autore Libri Firenze, 2008 (Premio Internazionale Tulliola, Premio Internazionale Città di Bellizzi, Premio Karol il Grande + altri 11); L'angelo ubriaco, L'autore Libri Firenze 2010 (Premio Internazionale Associazione Chiese Storiche, Premio Scribere, Legere, Loqui + altri 17); Verso perduto, Centro Studi Tindari Patti, 2011.”


III class. HAIKU


SANTA CROCE
Sulla tomba del
Foscolo , là scriverò
il mio sonetto.
LA TEMPESTA.
Nuvole rotte,
sulla gobba del vento,
mar in tempesta.
OCCHIO DEL MARE.
Occhio del mare,
che bagni la terra col
pianto dell'onda.

III class. LIBRO EDITO DI POESIA VERSO PERDUTO                                                                    ME  NE  VADO  CON  LA  PIOGGIA.


Me  ne  vado
con  la  pioggia,
quel  giorno
ero  venuto
col  sole.

E  quest'acqua
leggera  leggera
sembra  che  tutto  si  porti  via
il  temporale
delle  mie  passioni.

Mi  rimane  unico
il  tuo  volto,
la  tua  figura  nervosa,
i  tuoi  occhi
pazzi  e  buoni,
di  ragazza  sperduta
nella  tua  malinconica
allegria.
Mi  rimane  soltanto,
unico  amico,
il  tuo  sorriso,
che  talvolta  ho  strappato
alla  tua  bocca  triste,
che  talvolta  ho  accarezzato
con  lo  sguardo,
che  talvolta  ho  diviso
con  altri.
Mi  rimane
il  sapore  dei  tuoi  baci:
il  tuo  profilo
sul  mio  destino,
la  tua  bocca
scolpita
sul  mio  corpo.

La  voce  della  pioggia
è  una  lingua  sottile,
ma  è  una  lingua  sincera,
sembra  quasi  che  bisbigli
piano  piano.
Ascolta!
Ascoltala  in  silenzio!
Ti  parlerà  delle  mille  illusioni,
dei  sogni  remoti,
delle morte  stagioni.
Ti  parlerà  di  quello  che  c'era
e  non  ritorna  più!

Anima  mia  strappata
dall'uragano
di  questa  passione:
dove  ti  ha  condotto
la  bufera?

Ti  parlerà  di  quest'amore
ormai  rarefatto
nei  bisbigli  della  sera.

Me  ne  vado  con  la  pioggia,
quel  giorno  ero  venuto  col  sole.

Me  ne  vado  con  la  pioggia,
con  la  pioggia  nel  cuore.
Mercoledì  16/5/1984.


ROSANNA BONOLDI (Castel Goffredo, MN)


III class. RACCONTO
LA SCOPERTA DEL SOLE A MEZZANOTTE

Stiamo uscendo dal porto ed osservo incantata la costa che si allontana e le montagne che lentamente scompaiono. E’ la prima volta che viaggio su una nave così grande e sono eccitata al pensiero che sto andando alla scoperta dei Mari del Nord. Ho già sistemato i miei bagagli in cabina e mi rilasso guardandomi attorno, sul ponte superiore. Incontro lo sguardo di un uomo che avevo già visto all’imbarco, ma è troppo grande per me, non gli do il tempo d’avvicinarsi e scendo per la cena. La sala è splendente e grandissima. Il cameriere mi fa accomodare al mio tavolo, mi sistema con due coppie d’anziani e una ricca befana che mi scruta curiosa. Un po’ tesa, solo per educazione inizio una breve conversazione, ma poi l’ansia mi prende, ne ho abbastanza di stare seduta con queste persone. Mi scuso con loro e torno in cabina. Sono esausta, mi butto sul letto e piombo subito in un sonno profondo. Al risveglio mi rattristo perché è tardi, sul depliant che ho letto al mio arrivo era pubblicizzato un “Buffet Magnifico” a mezzanotte, non voglio perdermelo. Mi siedo sul letto dondolando le gambe, mi guardo attorno e per mettere a fuoco le tinte pastello sgrano gli occhi. Le pareti sono di un tenue color pesca, le tende albicocca chiaro e l’arredo color ciliegio. Mi hanno sistemata sul ponte superiore in una cabina con vista mare, dotata di tutti i comfort: aria condizionata, telefono, tv, frigobar. Mi copro con una giacca, apro la porta scorrevole e cerco di svegliarmi con l’aria fresca, sul terrazzino. Rimango ferma con la schiena contro il vetro ad ammirare le visioni dei fiordi in lontananza, mantenendo la promessa fatta a mia madre. E’ stata lei a regalarmi questo viaggio, per il mio diciottesimo compleanno. Io non volevo venirci da sola, lei ha insistito affinché potessi soddisfare il mio proverbiale desiderio di vedere “le terre dei ghiacci”, aggiungendo che era arrivato per me il momento di fare qualcosa da sola. Adesso che ripenso alle sue raccomandazioni, mi sento fragile ed immatura considerando che lei alla mia età aveva già una bambina di un anno, mentre io non so ancora cosa farne di me. Decido di scendere adagio lo scalone che porta alla sala da pranzo per non scivolare con i tacchi a spillo, questo mi dà il tempo di godermi una panoramica dall’alto dei tavoli rotondi, in cerca di qualche ragazzo della mia età. L’uomo che ho intravisto alla partenza, e poi sul ponte, mi sta fissando, indossa una divisa, sicuramente fa parte del personale di bordo. Si muove venendomi incontro, ma io abbasso lo sguardo e mi dirigo dalla parte opposta. Durante il buffet lascio vagare lo sguardo nella sala, mi sento un po’ a disagio, sembro essere la più giovane qui, ma gusto volentieri gli squisiti snacks e la pasticceria mignon. Abili cuochi hanno realizzato una coreografia multicolore che rappresenta uccelli esotici e paesaggi variopinti. La signora che sedeva al mio tavolo durante la cena mi si avvicina sorridendo con gli occhi scuri, mi devo ricredere, non è affatto una befana, anzi, sembra leggermi dentro, mette la sua mano sulla mia mentre mi parla: “Mia cara è in vacanza da sola o lo è solo stasera?”. Cerco di scherzare e le rispondo: “Sono partita da sola, ma spero di non rimanerlo per tutto il viaggio”. Lei nota una certa tensione nelle mie parole e guardandosi attorno incalza comprensiva: “Mi pare non ci siano molti giovani, purtroppo…”. Ripercorro la sala con lo sguardo invano e sorrido stringendo le labbra: “Mia madre non è venuta con me perché dice che i ragazzi è meglio stiano coi ragazzi”. Appoggio il bicchiere sul piatto e con la mano strofino la gonna del mio abito da sera rosso, mentre penso a quanto la mia mamma mi manchi. “Credo fosse anche ora che mettessimo un po’ di spazio tra noi, lei mi ha cresciuta da sola e, fino a qualche anno fa, vivevamo in perfetta simbiosi… ultimamente le nostre discussioni si son fatte più frequenti, però...”. “Quindi è la prima volta che vi separate? Vedrai, può essere divertente, ora coraggio, vai un po’ in giro, non star qui a parlare con me”. Le sorrido volentieri quando la saluto. Attorno a me stanno tutti socializzando, ma non mi interessano i discorsi degli altri e le loro voci mi arrivano come in un sottofondo ovattato. L’uomo in divisa la osserva restando a distanza. Non gli è sfuggito quel gesto della mano sulla gonna, gli sembra di rivedere quella sala da ballo e la ragazza con il vestito rosso che lo accompagnava in una sera speciale vent’anni prima. La luce all’improvviso va via, mi sforzo di mandar giù il tramezzino, ma sto male perché gli altri passeggeri si muovono convulsamente da tutte le parti, la sala è completamente buia e strizzo gli occhi per cercare di vedere qualcosa, senza risultati. Il mio cuore corre come un pazzo, ho freddo, comincio a sudare, l’oscurità m’avvolge. Le funzioni della nave si riavviano automaticamente, si accendono le luci d’emergenza e i camerieri cercano di riportare la calma tra la gente. Piccoli candelieri d’ottone fissati alle pareti s’illuminano rendendo la penombra surreale. Ora posso lasciarmi andare e come una bambola di pezza, finisco a terra. I passeggeri s’accalcano su di me per curiosare, troppi, mi tolgono il respiro. L’uomo in divisa s’avvicina e la solleva dolcemente, non sa come si abbraccia una figlia e pensa che, forse, è troppo tardi. Vorrebbe scappar via, ma il suo ruolo di medico di bordo lo costringe al soccorso. La ragazza ha gli occhi chiusi, lui la guarda da vicino, con cautela per non spaventarla le sposta di lato una ciocca di capelli, l’emozione gli toglie le forze. Cerca di rimetterla in piedi, ha il timore di farla cadere. Qualcuno mi aiuta ad alzarmi. Sono in piedi, sostenuta da braccia amiche cammino muovendomi adagio, tutto dondola intorno a me, guardo il pavimento perché non si noti l’espressione disperata sulla mia faccia. Arriviamo in bagno, mi appoggio al lavandino, raggiungo il water e il buco m’inghiotte. Finalmente riesco ad uscire, vedo l’uomo in divisa che mi viene vicino, mi tasta il polso e mi dà da bere qualcosa promettendomi che mi farà bene. Gli voglio credere, ma mi sento sfinita e m’appoggio pesantemente a lui che mi sorregge. Andiamo fuori, sul ponte, mi sistema su una sedia a sdraio, mi avvolge con una coperta e si mette vicino a me. “Mi chiamo Roberto Bassi e sono il medico di bordo”, mi dice mentre mi prende la mano. “Io sono Roberta Viardi”, gli rispondo con un filo di voce. “Non preoccuparti, può succedere, è stato solo un momento di forte emozione. Viaggi sola, vero?”. Come se mi trovassi sull’orlo di un precipizio non riesco a fermare i singhiozzi e m’affloscio sulla sdraio. Lui cerca di tranquillizzarmi: “Capita a tutti di trovarsi indifesi davanti a questo spettacolo e sentirsi persi in un silenzio irreale, ma non vorrai lasciarti sfuggire il caldo miraggio del sole, vero?”    Lui guarda davanti a sé e io m’abbandono mentre cerco di vedere tra le lacrime il ponte lunghissimo che taglia il cielo giallo. “Senti? Il mare s’increspa, respira l’aria salmastra, guarda… tutto si fa giallo. E’ il sole a mezzanotte. Quando posso vengo qua, nel silenzio che chiama la notte e sembra che tutto si fermi. Scusami…  ti ho dato del tu, ma sei così giovane”. Lo sento vicino, ma mi sembra innocuo e lo lascio parlare. “Prima ti ho vista da lontano, non ti volevo infastidire. Devo dirti una cosa e non so da dove iniziare… hai il suo viso, i suoi capelli mossi, assomigli molto a tua madre…”. D’impulso mi giro per guardarlo negli occhi: “Tu conosci mia madre?”. Come a cercare una risposta inclina la testa di lato: “Sì, ero suo amico al liceo. L’ho rivista solo alcuni giorni fa, quando è venuta a parlarmi di te”. Mantengo lo sguardo su di lui e gli faccio gli occhi cattivi, ma lui s’affretta a giustificarsi: “Io non ho mai saputo d’avere una figlia”. Mi sale la rabbia capendo l’inganno di mia madre, lui deve averlo intuito perché mi guarda preoccupato, ma poi mi sorride spostando solo un lato della bocca e riconosco in questo dettaglio la mia stessa espressione nervosa. Sono persa in un groviglio di pensieri, non riesco a dire nulla. Lui mi guarda come se avesse le risposte giuste e io ho un disperato bisogno di credergli e lascio, così, che il vento freddo spazzi via il tempo e la colpa. Non è tardi per questo sole di mezzanotte. Molti passeggeri sono usciti sul ponte, quasi in punta di piedi e rimangono, ora, in silenzio. Mi rilasso nel suo abbraccio dondolante e vorrei gridare a tutti: “Questo è mio padre!”. Poi mi scosto un po’ per ritrovarlo ancora, mi piace il suo profilo contro il blu del mare lontano, e nell’alba fredda e dorata penso che questo momento è solo per noi.


SILVIO CARLINI (Savona): nato a Savona, ha sposato Maria Saraceno, venuta dall’antica Sicilia, dalla quale ha avuto i due magnifici figli Marco e Patrizio. Essi hanno, a loro volta, regalato i meravigliosi nipotini Claudio e Arianna che illuminano la vita dei nonni. “Continuo -egli dice- a cercare sogni tra ombre e luci della vita.”


IV class. POESIA SINGOLA                                                                                                                   I class. SILLOGE DI POESIE OLIMPIADE                                                                                                   


VOCI E RICORDI


Siamo nella capitale della Gedrosia ostile e dimenticata dagli dèi,
qui in questo dolce verde,
quasi assurdo e inconcepibile dopo l’infuocato deserto
pieno di sabbia e incubi, ritornano le immagini
nitide - come cielo azzurro dopo rabbiosa tempesta - del passato:
echi di voci riarse
che vengono da lontano
come torrenti di ombre lamentose riportano altre immagini, altre sensazioni:
Leonnato con i tuoi veloci cavalieri
supera con l’anima e l’aiuto di Ares
questi ostacoli posti in lande sconosciute,
che io possa spezzare questi lacci sconosciuti
simili a ignote ragnatele di ragni giganteschi,
Peucesta! Presto lo scudo di Atena - senza amori né figli - sfolgorante
nella luce serale indiana, la freccia senza fine dei Malli
mi trascina nell’Ade, fantasmi pietosi mi fanno svenire…
Momentaneo risveglio dei sensi: Cristobulo, presto! estrai questo
dardo mortale, come hai estratto la freccia
dall’occhio di mio padre Filippo, ferma
questo flusso di sangue e ritorni così
la linfa immemorabile dei miei antenati
che mi ricorda tutte le loro emozioni e i nostri sogni…
Perdicca! Nell’ombra di questa sera sul mare
scuoti le porte d’Alicarnasso
corrose dal vento salmastro,
che arriva, costante ma mutevole,
da questo mare odoroso di cedri:
portiamo una nuova civiltà a tutto l’oriente!
Laggiù dove il mare prolunga le sue onde
nel cielo azzurro - Nearco nato nell’antica Creta -
noi scopriremo nuove vie della umana conoscenza verso gli dèi.
O Clito, ferma la tua lingua
ancora troppo legata alle tradizioni
delle antiche montagne macedoni:
prima che la lancia guidata da Dioniso
trapassi il tuo cuore di guerriero indomito!
Aristotele tu che tanto hai insegnato,
vorrei averti qui con me
per farti conoscere la sapienza di questi “barbari”
che ha fecondato queste lande asiatiche.
Ah, Persepoli: nella notte nera, tra le fiamme
luminose delle torce che si lanciavano
in alto dipingendo le cento colonne,
ho sentito il sangue caldo di Filippo
ferito a morte, sul mio corpo giovane:
e sia vendetta, sì, sì, bruciano come
un bosco d’alberi le cento colonne
sull’altopiano persiano inondato di luce.
Ermes, messaggero degli dèi, lega ai tuoi piedi divini
gli aurei sandali alati e portami,
- velocemente - notizie di Filippo - ombra immortale -
e di Olimpiade - regina devota agli dèi più misteriosi -.
Crudele e luminosa infuria
la lotta estrema sulla piana
orientale sotto il sole mesopotamico:
ormai i pensieri e gli spiriti
di Omero e Achille sono ad affilare la lama della mia spada!
Il vento scuro delle selve
corre veloce verso le colline lontane:
nuvole e sogni vibrano nell’aria
con noi nelle azioni più audaci.
Innumerevoli volte la morte mi ha sfiorato,
provato a ghermirmi con tenebre assordanti e insieme suadenti,
altre - troppe - volte si è avvinta
ad amici, compagni, nemici, sconosciuti:
sempre avvertivo l’invalicabile
vetta ignota e misteriosa, ma che
una volta scalata era già segnata
nel suo percorso dagli dèi, e questo
rafforza l’amore per la vita effimera
sempre alla ricerca di nuove
vie misteriose e affascinanti.
Peucesta! a me l’armatura del “giovane” eroe Achille
- a cui un fato benigno ha concesso l’immortalità -
il sangue caldo delle mie vene mi porta messaggi
urgenti delle mie “ultime imprese”;
l’età adulta e peggio la vecchiaia non lasciano
spazi alla “sola gloria”, altri sentimenti prendono il sopravvento.

AGONIA


Come nei sogni dove
appaiono dei piccoli particolari della nostra vita
– un sentiero, degli alberi, un volto
che non riusciamo a identificare,
ma associamo a una persona da noi conosciuta
– provo a ricordare frammenti della mia vita…
Prima di riuscire a scorgere una qualsiasi forma,
è l‘incantevole rumore dello scorrere di fresche acque
che lenisce i miei sensi e
per un lungo istante sembra spegnere l’incendio che mi divora…
Cammino sul giovane sentiero della mia infanzia a Pella…
Le verdi foglie mi accarezzano il volto e
sembrano raccontarmi le storie che questi alberi hanno vissuto…
Rossanne “piccola stella”, il mio corpo nel cimitero di Pella,
tra l’alberi più belli e l’erba leggera che mi farà da cuscino…
Ancora lotto con le residue forze che sono rimaste;
vorrei risentire il dolce mare di Alessandria
che dal Nilo riceve l’antica storia dell’Africa,
rivedere i relitti con intessute
le voci dei miei compagni sulle acque di Tiro e
l’acque indiane con l’imprevedibili maree e animali sconosciuti
e nel futuro il mare arabico con il vento
di orientali spezie che sospinge
le mie nuove navi cariche di nuovi marinai e di grandi sogni…
Oh dèi, riempite l’aria di forte vento,
riempite gli spazi di Babilonia di pioggia,
fate vibrare le verdi foglie dei peri,
lastricate con scintillanti acque
i leoni della via professionale
che attraverso la porta di Ishtar porta alla sala del trono…
Date sollievo alla mia agonia…
Madre… ricordi il sorgere del sole macedone
che trafiggeva basse nuvole sul mare di Sesto
e il vento tremava con le nuove foglie primaverili…
L’inquieto Bucefalo che presentiva
tra di noi l’addio e non l’arrivederci,
già anche noi sapevamo che il tempo era breve e il percorso infinito…
Le pietre più splendide e misteriose
che mai nessuna donna greca aveva mai visto,
insieme alle mie lettere erano la risposta al tuo amore e fede per me…
Oh madre, bellissima come solo tu sai essere,
come vorrei averti vicino,
con la tua energia misteriosa
avresti spezzato le trame insidiose
che avvolgevano i palazzi di Babilonia;
questa è una sconfitta anche per gli dèi.
Immenso drappo con lento movimento
verso ovest ed est, con centro il palazzo reale di Babilonia,
cercando di rinfrescare l’aria mortale che incombe sul talamo reale
porta il mio spirito a cercare una musica variata… Orfeo…
poeta e musico divino, mortale ma immortale,
incontrò Caronte, Cerbero i tre giudici dei morti e commosse Ade
fino a indurlo a restituire l’amata Euridice al mondo dei vivi…
I miei occhi mi riportano in Tracia
tra antiche querce di montagna
disposte come ballerine dalla lira d’Orfeo e
le mie orecchie sono ai picchi del monte Olimpo
– che raccolgono le membra di Orfeo –
ad ascoltare il canto degli usignoli
più melodioso che in qualsiasi altra landa del mondo…
Nel delirio febbrile che m’assale
il pianto del canto lungo d’Orfeo
muove Efestione, Rossane, Barsine e Statira come querce danzanti…
I veterani sfilano uno ad uno,
sono come alberi che si muovono lentamente,
vorrei dire a ognuno le parole che si aspetta…
Ma il fiato muore nella gola,
parlo con gli occhi e loro piangono…
E come il tessuto di un  sogno ci copriva i cuori e le nostre anime.


ALFREDO CASERI (Villa d’Adda, BG): “Sono un medico di Medicina Generale in un piccolo paese della provincia di Bergamo. Mi piace molto leggere e qualche volta scrivo racconti brevi.”


I class. RACCONTO                                                                                                                   
…FINO ALLA FINE


Emanuele, seduto in poltrona, osservava assorto un’enorme bandiera tricolore che si scorgeva dalla finestra della sua stanza, esposta su una casa antica in cima a una collinetta e rimasta lì a ricordare il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Era ricoverato da circa un mese all’Hospice “Il Nespolo” di Airuno, in provincia di Lecco. Non si accorse della mia presenza ed io rimasi ad osservarlo in silenzio. La testa e la metà faccia di destra erano avvolte in un cappuccio bianco di bende e garze, a coprire le immonde ulcerazioni di spinaliomi multipli che conoscevo bene. Tumori devastanti della pelle comparsi uno dietro l’altro, trattati con radioterapia fino al massimo dosaggio possibile e poi lasciati liberi di scavare e deturpare testa collo guancia e braccio di Emanuele. Erano insorti a coronamento di una rara malattia linfoproliferativa di cui soffriva da anni e che ora sembrava stabile, ma che in qualche modo aveva generato figli che continuavano a minare la pur forte fibra dell’uomo.  Emanuele sembrava ormai stanco di resistere agli assalti della malattia, ma mai avrebbe lasciato il Castello, come veniva chiamata casa sua per le sue origini medievali, se non fosse stato che nel frattempo la moglie era stata ricoverata per un tumore al pancreas e doveva essere operata a breve. Per questo si era deciso ad entrare all’Hospice. “Ma è una soluzione temporanea, dottore”, mi disse la prima volta che l’andai a trovare, “in attesa che mia moglie torni dall’ospedale e si rimetta in sesto. Anche perché qui…” aggiunse sottovoce stringendomi un braccio e guardandosi intorno, “…anche perché qui muore troppa gente per i miei gusti. Quasi tutti i giorni è un bollettino di guerra.” La sua vena ironica non era ancora venuta meno. Forse anche perché gli avevamo lasciato credere che fosse davvero una “soluzione temporanea”. E adesso era li, a guardare quella grande bandiera, perso in chissà quali pensieri, seduto sulla sua poltrona, che gli avevano permesso di portarsi da casa. Lo chiamai. Si girò lentamente e a fatica. Mi sorrise.
- Buongiorno, dottore. Cosa fa ancora da queste parti? E’ venuto a trovare il suo vecchio paziente in attesa di morire in questa specie di clinica di lusso?
Mi strinse la mano e la trattenne tra le sue un attimo più a lungo del solito. Almeno così mi parve.
- Non sono mai stato in una clinica svizzera ma questa, se non è uguale, poco ci manca.
- Come sta, Emanuele? La trovo abbastanza bene o sbaglio?
Con un mezzo sorriso mi fece accomodare su una sedia e si mise a raccontarmi la sua giornata-tipo all’Hospice. Sembrava abbastanza soddisfatto del trattamento, elogiava medici, infermiere e volontari. Aveva fatto amicizia soprattutto con un signore che insegnava musicoterapia. Sembrava si fosse ambientato facilmente nella sua nuova residenza, sia pure “temporanea”, come sosteneva lui, anzi sembrava quasi a suo agio in quell’ambiente e ciò mi stupì non poco, conoscendolo da molti anni. Emanuele era sempre stato per sua natura piuttosto ombroso, quasi asociale. Usciva raramente di casa, si considerava un misantropo ed era contento di esserlo. Non aveva amici o quelli che aveva erano già tutti morti prima di lui. Anche con i vicini aveva pochi contatti. Diceva che bastavano la moglie, i due figli sposati e i tre nipotini a riempirgli la giornata e a colmare i suoi bisogni di rapporti sociali. “Bastano e avanzano”, affermava. Negli ultimi anni poi, forse anche per il suo aspetto fisico che si stava trasformando, si limitava a qualche passeggiata in giardino, a coltivare l’orto e a potare gli  alberi, per quanto riusciva a fare. Perché Emanuele si riteneva un esperto botanico e non lesinava osservazioni e suggerimenti al suo giardiniere. Oppure si dedicava, con qualche successo, ad incisioni in legno con un pirografo ormai superato. Quando, per riposare, si metteva in poltrona davanti al televisore, preferiva documentari di storia e di animali, mentre criticava brontolando ad alta voce la maggior parte dei politici di oggi. La moglie, molto più giovane di lui e di origine veneta, lo assecondava in tutto e lo chiamava scherzosamente Sior Mànuel brontolòn. Io ero uno dei pochi che lo frequentava, all’inizio solo per motivi medici. Ma poco a poco si era instaurato tra noi un feeling che andava oltre il rapporto medico-paziente, forse perché era un vecchio amico di mio padre (“compagno di caccia e di morose”, mi diceva) o forse perché mi piaceva stare a sentirlo, mi piaceva fargli raccontare i suoi trascorsi giovanili, di guerra ma non solo. “Lei ha una dote particolare”, mi disse una volta, serio e solenne, “una dote che non tutti i medici hanno: sa ascoltare. O meglio, sa mettersi in ascolto degli altri.”  Mi schernii ma lo ringraziai di cuore. Anche quel giorno, all’Hospice, dopo aver solo accennato al suo stato di salute e dopo avermi parlato delle  condizioni della moglie in ospedale, che gli giungevano sia pur filtrate dai figli, prese spunto dalla bandiera che si vedeva dalla finestra per riportare il discorso ai tempi della guerra. Sapevo da sempre che Emanuele era stato fascista convinto. “Come lo erano tutti a quei tempi, almeno all’inizio” ripeteva spesso. Sapevo anche che dopo il ’43 aveva combattuto nelle fila dei repubblichini. “Ma non ho mai ucciso nessuno se non in azioni di guerra -ci teneva a rimarcare- né ho mai fatto la spia per i tedeschi!” - Vede, dottore, allora eravamo tutti o quasi tutti entusiasti di Mussolini e del fascismo. L’Italia sembrava in vetta al mondo. E chi ce l’aveva portata? Lui, il Duce! Io mi ero arruolato volontario e ho combattuto su diversi fronti. Ci credevo, ci credevo veramente, all’Uomo della Provvidenza, al sogno dell’Impero, all’Italia maiuscola che Mussolini stava costruendo. Sono sempre stato uomo di destra, lei lo sa, dottore. Non mi sono mai piaciuti i comunisti. Erano, e sono, altro da me. Due mondi diversi, culture diverse, agire diversi. Eppure, la guerra e la prigionia mi hanno insegnato una cosa molto importante, che devi cercare l’uomo prima della bandiera, e io l’ho trovato anche sotto una bandiera che non era la mia. Rimase pensieroso e tornò a guardare fuori dalla finestra. Il tricolore, come evocato dalle sue parole, si mise lievemente a ondeggiare alla brezza della sera.  - Non le ho mai raccontato, dottore, di quella volta che sono stato salvato da un partigiano? Un fascista repubblichino convinto come me salvato da un partigiano, per giunta comunista! Incredibile, vero?
Lo incoraggiai a proseguire ed Emanuele continuò a parlare con gli occhi fissi sulla grande bandiera, come vi leggesse le  parole che stava pronunciando. - Eravamo nell’entroterra ligure ed ero stato assegnato, insieme ad altri camerati, a una missione che non sentivo, che dentro di me rifiutavo di accettare. Ma non avevo avuto il coraggio né la forza di oppormi agli ordini del comandante. Del resto avevo sempre sostenuto che gli ordini non si discutono. Dovevamo accerchiare un casolare un po’ isolato dove si diceva si nascondessero due paracadutisti americani in mezzo a un gruppo di sfollati, protetti dai contadini del luogo e da alcuni partigiani, il cui capo era un noto avvocato comunista della provincia di Savona. Quando arrivammo sul posto, di americani nessuna traccia e neppure dei partigiani. Trovammo solo un paio di famiglie di sfollati con mogli e figli e una coppia di contadini, forse i proprietari del casolare. Il nostro comandante, schiumante di rabbia per lo scorno subito, ci ordinò di radunare tutti quei poveretti sull’aia e di ammazzarli immediatamente, come collaboratori. Gli ordini sono ordini ma quella volta dentro di me qualcosa si ribellò e mi rifiutai categoricamente di uccidere quella povera gente inerme e sicuramente incolpevole. Ho ancora davanti a me gli occhioni terrorizzati di una bambina, saldamente attaccata alla gonna della madre, che mi supplicava di non farle del male. No, non avrei mai potuto ammazzarle. “Con te faremo i conti dopo, sporco traditore!” mi urlò in faccia il comandante, dandomi un gran colpo in testa col calcio del fucile. Caddi svenuto e seppi solo più tardi cos’era  successo. I miei camerati trucidarono senza pietà quei poveretti. Erano nove. Ma i partigiani c’erano davvero lì vicino, nascosti nel bosco di una collinetta sopra il casolare. Quando capirono le nostre intenzioni, scesero a valle ma era troppo tardi. Ci fu una sparatoria. Caddero tre dei miei, compreso il mio comandante, gli altri riuscirono a scappare. Rimasero a terra anche due o tre partigiani, non ricordo bene. Io rinvenni quando tutto era finito. I partigiani si accorsero di me e volevano farmi fuori ma il loro capo intervenne. “No, lasciatelo stare. Ho visto tutto dall’alto col binocolo: lui è stato il solo a ribellarsi a quel carnefice del suo comandante e sicuramente sarebbe stato fucilato sul posto subito dopo questa carneficina. Lo porteremo al comando e decideranno loro.” Seppi, a guerra finita, che quel capo partigiano era un comunista importante di Savona che fu poi eletto deputato alla Costituente nel ‘46. Capisce, mio caro dottore? Un fascista salvato da un partigiano, per di più comunista, per di più futuro padre costituente!
- Ma poi come finì, Emanuele?
- Dopo qualche giorno di galera, fui deportato in un campo di concentramento inglese in Toscana, vicino a Pisa. Ci facevano scavare continuamente delle buche che magari il giorno dopo ci comandavano di riempire di nuovo. Le assicuro che anche sotto gli inglesi si pativa la fame: certe volte una tazza di tè allungato e quattro biscotti secchi dovevano bastare per tutta la giornata. Ma almeno lì non c’erano i forni crematori. Si girò ancora verso la finestra e rimase in silenzio per cinque minuti buoni. Si sentiva solo il ticchettio di una sveglia a muro. Poi riprese a parlare.
- Sa, dottore, cosa stavo pensando? Che quella bandiera là fuori, in fondo, ci accomuna, me e il partigiano che mi salvò la vita. Entrambi combattevamo per un ideale, giusto o sbagliato che fosse, il mio o il suo. Un ideale  rappresentato da quella bandiera, in forza del quale entrambi ci siamo comportati da uomini, prima ancora che da fascista io e da partigiano lui. Ma questa è retorica bella e buona, dottore. Lasciamo perdere, parliamo d’altro. Non voglio annoiarla coi ricordi di un vecchio nostalgico.
- Come vuole, Emanuele, ma lei sa che a me piace molto ascoltare queste storie. Mi ci immergo completamente. Mi sembra di leggere la Storia da dietro le quinte, la Storia vera vissuta e raccontata dai protagonisti, senza le interpretazioni di storici di parte che si dicono al di sopra delle parti. Ma forse anche questa è retorica, Emanuele. Lasciamo perdere, ha ragione lei.
- Vede, dottore, quello che le ho raccontato è solo un episodio, è poca cosa rispetto a una vita intera ma è da lì che mi sono accorto che c’è una supremazia dell’anima prima che dell’idea. E stranamente ho ritrovato questo concetto proprio qui, all’Hospice. Quando esce di qua, se non l’ha ancora fatto, legga quella targhetta che c’è sul tavolino all’entrata, un po’ nascosta in mezzo a riviste e  materiale pubblicitario. Capirà quello che voglio dire.
Non chiesi altre spiegazioni. Emanuele era visibilmente stanco e io abbastanza  confuso dalle sue parole. Ci lasciammo così, quel giorno, con la promessa di rivederci al più presto. Uscii dall’Hospice pensieroso e neppure ricordai di cercare quella targhetta a cui lui aveva accennato.
Tre giorni dopo seppi dai figli che Emanuele era peggiorato. Tornai da lui. La bandiera era stata tolta. Anche la sua poltrona non c’era più. Al suo posto c’era una carrozzina. Emanuele, allettato e un po’ soporoso, mi riconobbe e mi salutò con un sorriso. Mi indicò la carrozzina e con molta fatica, prendendosi delle lunghe pause  tra una parola e l’altra, cominciò a parlare.
- La vede, dottore, la mia nuova poltrona? Sono passato di categoria, da semplice malato sono diventato handicappato…
- Ma cosa dice, Emanuele? Sarà solo una misura provvisoria, in attesa che…
Mi interruppe con un gesto della mano e continuò. - Qui di provvisorio ci sono solo io, e per poco… Sono solo contento che mia moglie stia meglio, l’operazione è andata bene e tra poco sarà a casa…
Scambiai uno sguardo fugace con la figlia, che era dall’altra parte del letto, e confermai la pietosa bugia, pur conoscendo la reale situazione clinica della moglie.
- Peccato che io non ci sarò, a casa…
Non seppi dire niente. Gli presi solo la mano e guardai fuori dalla finestra, cercando di trattenere l’emozione che mi saliva dentro. Emanuele sembrava assopito ma intuì i miei pensieri e con immensa fatica volle lasciarmi il suo testamento spirituale.
- La  bandiera non c’è più, dottore, ma si ricordi della supremazia dell’anima…
La figlia mi guardò con aria interrogativa, gli occhi pieni di lacrime silenziose.
- Niente, -spiegai- è una cosa tra noi due. Vero, Emanuele?
Non rispose, ma mi sembrò di vedere un lieve sorriso sulle sue labbra, dolce, appena accennato. Non ce la feci a rimanere oltre e uscii dalla stanza in preda a un turbamento indefinibile. Mi fermai solo di fronte al portone d’uscita, ricordandomi di cercare la famosa targhetta.
La trovai, la presi tra le mani e lessi:
“TU SEI IMPORTANTE / PERCHE’ SEI TU,
E LO SEI / FINO ALLA FINE.”  (C. Saunders)
La supremazia dell’anima, appunto. Su tutte le povertà dell’uomo.
Due giorni dopo Emanuele morì. Lo rividi in camera mortuaria, elegante nell’abito blu delle grandi occasioni, con una specie di turbante bianco in testa a nascondere il male, in realtà a donargli un sereno profilo da pontefice che sicuramente avrebbe stimolato la sua vena ironica. Una volta a casa, la bara fu opportunamente collocata  in giardino, sotto un tasso ultracentenario alla cui ombra Emanuele amava riposare d’estate. Fu cremato. E le sue ceneri disperse nel vento sull’Adda e tra i prati, nel tramonto di una sera di fine maggio.


SALVATORE D’APRANO (Montreal, Canada):  nasce a Castelforte, provincia di Latina il 28 -11-1940 e dal 1960 vive in Canada senza aver mai acquisito la cittadinanza canadese poiché, malgrado le tante cose che non vanno in Patria, ama tanto la sua mitica Italia. Autodidatta, scrive dal 1980 ed ha pubblicato in Italia tre raccolte di Poesie: la prima Alla mia patria, Edizioni Caramanica, nel 1987,  la seconda Le radici dell’anima,  Edizioni Libroitaliano,  nel 2002, e  Oltre cielo e mare nel 2009, regalo della Casa Editrice  NUOVI POETI per il Primo posto assoluto ottenuto al Concorso ‘Spazio Autori’. Alcune sue liriche sono presenti in 49 Antologie Nazionali ed Internazionali. Dal 2007 ha incominciato a partecipare a dei Premi Letterari italiani vincendo numerosi Primi, Secondi e Terzi Premi. È iscritto alla  S.I.A.E. (Società Italiana Autori Editori).


II class. POESIA SINGOLA                                                                                                           TRISTE AUTUNNO


È ormai autunno
e piove da tre giorni
ininterrottamente,
e la pioggia che scende dal cielo
intristisce il volto della gente.
Dagli alberi cadono le ultime foglie
ad ogni alito di vento
e tutto è così irreale
senza il verde intorno;
le campagne hanno assunto
un aspetto sepolcrale
mesto e disadorno.
Il tempo scorre lento
e con monotonia
e dà sbalzi di umore,
l’aria trasuda di malinconia
e incupisce il cuore.
Triste è l’autunno
più d’ogni altra stagione
d’una tristezza muta e dolorosa
che invita alla riflessione;
nel cielo mancheranno le rondini
e nel giardino la rosa.


PAOLANGELA DRAGHETTI (Siena): nata a Mirandola (MO), felicemente sposata, è in pensione dal luglio 2010. Pur non avendo avuto figli, ha sei adorabili nipoti, ora adulti, che, fin da piccoli, sono stati una fonte d’ispirazione per le sue fantasie, unitamente ai numerosi bambini che frequentavano la prestigiosa scuola di Recitazione e Danza del Piccolo Teatro di Siena, presso cui ha lavorato a lungo come segretaria organizzativa. Da alcuni anni partecipa agli “Incontri con gli autori” organizzati dalla Provincia di Siena e dal Comune di Colle Val D’Elsa in collaborazione con la Biblioteca comunale, nell’ambito delle rispettive “Mostre Mercato del Libro per Ragazzi”, grazie alle quali ha la possibilità di conoscere alunni delle Scuole per l’Infanzia, Elementari e I Media. Molti suoi scritti, sia editi che inediti, fiabe, favole, racconti, filastrocche, hanno ricevuto ambiti riconoscimenti e primi premi assoluti. Ha pubblicato con Delta 3 Edizioni di Grottaminarda (AV): Serenella e l’abito da sposa, 2004; La Fonte delle Fate, 2005; Fiabe senesi, 2006; Il cappello a cilindro, 2007, I Premio; Una magica notte d’estate, 2009; I campanellini d’argento, 2010.  Per Concorsi vinti sono stati pubblicati: Il Drago del pennacchio, 2009, I Premio, Nicola Calabria Editore; Gocce di sogni / Filastrocche da colorare, 2009, I Premio, La Versiliana Editrice di Fucecchio; La brocca fatata, 2009, E.diGio.


II class. RACCONTO
LA BALALAIKA

Era la vigilia di Natale di alcuni anni fa. L’aeroporto di Fiumicino a Roma brulicava di persone di ogni razza e colore.  Approfittando delle festività, esse si apprestavano a partire per raggiungere le famiglie lontane o per concedersi qualche distensivo viaggio di piacere. Nonostante la folla riempisse quasi al limite gli ampi saloni, non c’era confusione. Tutti si muovevano in un frenetico ma composto andirivieni, snodandosi ordinatamente in lunghi corridoi e scale mobili, oberati dalle valigie strascicate su carrelli per raggiungere i banconi dove, adunati in interminabili file, attendevano pazientemente di svolgere le modalità d’imbarco. Nel bel mezzo dell’immenso salone centrale, antistante l’ingresso ai voli internazionali, si trovava un magnifico Albero di Natale, addobbato con nastri in raso rosso, a forma di fiocco, e con enormi candide stelline di neve. Un lungo filo di lucette gialle intermittenti lo avvolgeva tutto intorno a spirale, a mo’ di coda della grande e luminosissima stella posizionata sulla cima. Ivan, un biondissimo e lentigginoso ragazzino di quasi dieci anni, appena ebbe varcato le porte automatiche dell’entrata, si precipitò incuriosito proprio davanti al grande abete, ammaliato dalle sue luci sfavillanti. Vi sostò però solo pochi istanti, avendo premura di consultare l’orario delle partenze dei voli. Scorse subito, sulla sinistra, il tabellone degli orari appeso al soffitto. Con lo zainetto sulle spalle ed il nasino all’insù, gli si avvicinò di corsa e, guardando le scritte, tentò d’interpretare l’ora di partenza del volo per Mosca, ma non riuscì a capirci un gran ché. Purtroppo molti dati erano in lingua inglese, che viene convenzionalmente usata per le tratte internazionali, e quel poco che Ivan aveva imparato a scuola, non poteva aiutarlo sufficientemente. Per giunta, accanto a ciascuna località c’erano enigmatiche lettere accompagnate da numeri, che sicuramente rappresentavano una sigla, ma che lo confondevano ancora di più. Nonostante, per la sua giovane età, fosse un ragazzino assai perspicace, tutte quelle lettere e quei numeri iniziarono a ballare senza sosta nella sua inesperta testolina. Ma ciò che lo turbava maggiormente era il fatto che da nessuna parte appariva la destinazione ‘MOSCA’. Ma perché poi voleva andare proprio a Mosca?
Ivan aveva volato una volta soltanto in vita sua, cioè il Natale dell’anno precedente quando, con suo padre, aveva accompagnato la mamma nel suo ‘ultimo viaggio’. Naturalmente in quell’occasione fu suo padre a sbrigare tutte le formalità. La mamma, che era nata a Mosca, aveva conosciuto il babbo a Roma durante un convegno della banca, presso la quale entrambi lavoravano. Innamoratisi perdutamente, si erano subito sposati e l’anno successivo era nato lui. La loro unione era stata serena e felice fino al giorno dell’incidente d’auto, accaduto proprio la vigilia di Natale, nel quale la madre morì sul colpo. Sapendo quanto la moglie amasse la propria patria, il marito volle tumularne la salma nella sua terra natia.
Seduto su di una panchina della sala d’aspetto, Ivan continuava a fissare interrogativamente il tabellone, frugando nella memoria alla ricerca di qualche ricordo sul tragitto che avevano percorso. ‘’Accidenti!’’ esclamò sottovoce, girando la visiera del cappellino sulla nuca. ‘’Potessi almeno rammentare quale corridoio imboccammo!’’ e sospirò. Un’anziana signora dall’aspetto ben curato, che sedeva sulla panchina di fronte alla sua, notò i movimenti di Ivan e il turbamento del suo viso. Con discrezione si avvicinò a lui e gli domandò, con un sorriso amichevole: “Ti serve aiuto, ragazzo?” Ivan si scostò meravigliato e pure contrariato per l’intrusione. Non desiderava relazionarsi con alcuno, per nessuna ragione al mondo, ma… il volto di una luminosa serenità di quella donna, la sua voce dolce e pacata, e soprattutto i suoi occhi di un azzurro intenso, simili a quelli della madre, gli ispirarono, chissà come, fiducia. “Grazie, signora. Forse… sì, forse lei sa indicarmi a che ora parte l’aereo per Mosca?” disse tutto d’un fiato, dopo la prima esitazione.  “Hai detto per Mosca?...” ripeté la donna per averne conferma. “E… potrei sapere per quale motivo vuoi andare proprio a Mosca?...” Ecco! Ivan si morse rabbiosamente il labbro inferiore, pentito di averle dato fiducia. Perché quella donna si era incuriosita? Perché voleva conoscere il motivo della sua partenza? A lei che importava?... E se avesse voluto sapere anche il suo nome?... o da dove veniva?... E se poi avesse fatto la spia a suo padre?... o alla polizia?...
Eh, già, perché Ivan se n’era andato senza dir niente a nessuno. Aveva lasciato solo poche parole scritte sopra a un bigliettino: “Vado a trovare la mamma. Ciao.” Un bigliettino del quale forse il padre non si sarebbe neppure accorto. Dalla morte della moglie era caduto in una profonda depressione. Non parlava quasi con nessuno, non rideva, non giocava più con Ivan. Al lavoro andava solamente quando la banca gli domandava di mettere la firma su certi documenti importanti. Quasi tutto il giorno vagabondava senza meta, con la barba incolta e lo stomaco vuoto. La sera, quando rincasava, dopo aver consumato qualche boccone di cibo che la domestica riusciva a fargli trangugiare, si rintanava nella sua camera, senza manco dire una parola al figlio. In quelle poche ore di sonno che riusciva a fare, spesso si lamentava per sogni burrascosi. Il piccolo Ivan soffriva per quello stato di apatia e indifferenza del padre. Ne soffriva più della mancanza della madre, la cui presenza era viva in lui come un angelo protettore. Avrebbe desiderato dividere col padre quel dolore, parlarne, scuoterlo da quello stato di inedia in cui era caduto, ed insieme trovare la forza per andare avanti. Una sera si rammentò che la madre gli aveva confidato di voler regalare al padre per Natale un balalaika, la classica chitarra russa, e che l’avrebbe acquistata a Mosca, in occasione della visita ai nonni. Gli balenò quindi nella mente l’idea di sostituirsi alla madre e di andare lui a Mosca a comprarla. Forse quell’oggetto l’avrebbe distolto dalla sua indolenza. Questo era il motivo per cui Ivan si trovava all’aeroporto di Roma la vigilia di Natale.
 “Probabilmente la signora vorrà solo aiutarmi.” penso’ Ivan. “I suoi occhi non possono mentire… Assomigliano tanto a quelli della mamma…. Sono certo che la sua curiosità sia dovuta al fatto che mi ha visto da solo.” Confortato da queste considerazioni, Ivan le confermò la sua intenzione di voler andare a Mosca, ma non le spiegò il motivo. “Ah ma… puoi stare tranquillo! Anch’io devo andare a Mosca, per cui ti aiuterò a salire a bordo.” “Grazie, signora. Lei e’ molto gentile.” disse Ivan con un sospiro di sollievo.“Per me sarà un piacere. Sai… ci vado per trascorrere il Natale con i miei nipotini. Ne ho quattro: due femmine e due maschi. Gabriel ha più o meno la tua età, e …” La donna seguitò a raccontargli dei suoi nipoti, ma anche delle bellezze della Russia, con le sue sconfinate praterie, i suoi buffi campanili a bulbo di cipolla, la sua soffice ed abbondante neve che in inverno copre ogni cosa. Nel narrare, la sua voce era dolce, soave, pacata, come una ninnananna. Ivan l’ascoltava rapito, soggiogato, dimentico del suo problema, finché si addormentò, e sognò di essere già a Mosca. Anzi si trovava seduto sopra una slitta trainata da renne, comodamente avvolto in una coperta di pelliccia. Accanto a lui c’era la mamma che, nell’attraversare la Piazza Rossa ammantata di neve, gli descriveva, con l’entusiasmo e l’euforia di un bambino, la bellezza di quei luoghi, nei quali aveva trascorso la sua infanzia. Nei suoi stupendi occhi azzurro-cielo si riflettevano, come in uno specchio, i coloratissimi tetti della cattedrale di San Basilio e i muri rosso mattone del Palazzo del Cremlino. Ivan era felice, ed aveva l’impressione di trovarsi immerso in una fiaba dal sapore natalizio, nella quale la slitta era quella di Babbo Natale, mentre il Cremlino era il suo castello incantato. La mamma stringeva fra le mani la balalaika, già acquistata per il babbo. “Tieni Ivan.” gli disse a un tratto porgendogliela. “Pensaci tu a consegnarla al babbo.” Ivan prese lo strumento, scambiando con lei uno sguardo d’intesa, poi…
 “Ivan!... Ivan, svegliati, figliolo!” gli  sussurrò il padre all’orecchio e lo scrollò leggermente su una spalla. Ivan aprì gli occhi e trattenne il respiro attendendo il suo rimprovero. “Grazie a Dio ti ho ritrovato!” aggiunse il padre, mentre una lacrima gli rigava il volto. Avendo capito che il padre non lo avrebbe sgridato, Ivan gli buttò le braccia al collo, chiedendo perdono per essersi allontanato senza permesso. “Su, vieni, figlio mio, torniamo a casa adesso.” disse il padre prendendolo per mano.  Ivan, con lo sguardo, cercò l’anziana signora, ma non la vide.“Papa’, dov’è?… Dov’è andata la signora?” domandò supponendo che  fosse stata lei ad avvertire il padre. “Quale signora?...” domandò l’uomo, stupito. “Quella che era seduta accanto a me, prima che mi addormentassi! Pure lei doveva andare a Mosca e aveva promesso che mi avrebbe aiutato… Forse è già partita e, visto che dormivo, non mi ha voluto svegliare.” concluse Ivan. “Guarda, Ivan, che quando sono arrivato accanto a te non c’era nessuno. E ti dirò di più. Oggi tutti i voli per Mosca sono stati annullati, a causa del ghiaccio e della nebbia. Forse la signora, te la sei sognata…” precisò il padre sorridendo.“Oh, no, papà. Non l’ho sognata. Mi ha raccontato di voler andare a trovare i suoi quattro nipotini a Mosca… Non può aver mentito, ne sono certo! I suoi occhi erano uguali a quelli della  mamma. Li ricordi vero?... Erano bellissimi e inconfondibili. A proposito… la mamma sì, che l’ho sognata e guarda…” disse nel raccogliere da terra la balalaika. “Mi ha lasciato questa per te. Poiché sapevo che lei te l’avrebbe regalata il Natale scorso, volevo andare a Mosca per comprartela io, ma ora… eccola qui.” concluse Ivan, convincendosi che forse non era stato tutto un sogno. Il padre lo guardò negli occhi con infinita tenerezza e pensò che probabilmente un miracolo era accaduto per davvero. Forse il Signore, impietosito dei loro crucci, aveva permesso a sua moglie di scendere sulla terra, anche per pochi istanti e in altre sembianze, per consolare i suoi cari. Comunque, che fosse stato un sogno oppure no, Ivan e suo padre preferirono credere all’intervento miracoloso. In fondo, la presenza di quella balalaika, piovuta chissà da dove, poteva esserne la testimonianza. Tenendo per mano lo strumento, i due si avviarono all’uscita, consci che la mamma li avrebbe sempre protetti dal cielo.


AGOSTINO FRUMENTO (Savona):  “Caro lettore, sei capitato per caso su questa pagina e allora mi sembra doveroso presentarmi subito: io sono un dilettante che si arrabatta fra le parole cercando di collegarle in modo piacevole. Non sono poeta, nè artista e neanche scrittore, ma se partecipo a qualche concorso mi piazzo quasi sempre abbastanza bene e questo vorrà pure dir qualcosa, o no! In questo caso mi sono cimentato in un bonario sorvolo geopolitico della nostra penisola. Detto ciò, se proprio vuoi proseguire la lettura, non mi resta che augurarti buona fortuna.”


II class. RACCONTO
LINEE DI DEMARCAZIONE


Ho sempre osservato con un certo sospetto le linee di confine. All’inizio erano quelle delle carte geografiche e, senza alcuna intenzione di negarlo, riconosco che il disagio era in parte dettato da esigenze scolastiche, in altre parole dall’obbligo di presentarmi a scuola con un minimo di preparazione. Questo vincolo, e lo era veramente pena la radiazione solenne dal consesso degli scolari perbene, m'indusse a studiare con attenzione, fra le altre cose, i confini della nostra nazione. Non credevo di dover sostenere un grande sforzo, in fatto di geografia dell’Italia intendo, perché, com’è noto a tutti, la nostra penisola, proprio perché è una “quasi isola” collegata da un lato alla terraferma, è bagnata per la maggior parte dai mari. Si trattava quindi di fare un piccolo sforzo per imparare a memoria i loro nomi ed il gioco era fatto. La parte restante che consisteva, com’è noto, nel ricordare il nome di quattro o cinque nazioni, era cosa di piccola entità... ma, c’è sempre un “ma” che collega, come un anello matrimoniale le cose semplici a quelle complesse. Nel mio caso, il “ma” consisteva nell’ormai nota legge secondo la quale, le cose che al primo impatto sembrano le più semplici, recano al loro interno un groviglio imprevisto di problemi che inducono via via a cambiare il giudizio iniziale secondo una scala convenzionale rappresentante gli incrementi delle difficoltà. Scala che va dal “banale”, inteso come grado minimo, sino al “a cosa serve sapere tutte queste cose” che è il punto di saturazione dell’impegno richiesto, oltre il quale ogni sforzo profuso è subito frustrato.  Fu così che l’ordine delle difficoltà s’invertì rispetto alla percezione iniziale, non per le caratteristiche intrinseche, bensì per problemi, diciamo così, geometrici. Infatti, mi trovai, mio malgrado, a ricordare facilmente il nome delle nazioni a noi vicine e a riscontrare difficoltà nel memorizzare i nomi dei mari.  Sostenni un approfondito esame di coscienza, senza approdare a nulla che potesse accendere una luce nel buio della mia memoria. La riflessione non fu, tuttavia, inutile perché mi suggerì un marchingegno mnemonico in anteprima sulle moderne tecniche di memorizzazione. Esso consisteva nel piazzare in ogni stanza della casa, fortunatamente molto grande, il nome di un mare e legarlo mnemonicamente al vano ben noto dell’appartamento.  Tu puoi dire: «Bella scoperta, è una delle tecniche più elementari.» Sì, oggi è così, ma quando andavo a scuola io, si doveva apprendere a memoria e basta, senza tante stupidaggini, ma lasciamo stare. In conformità a questo principio sistemai nell’ingresso il vicino Mar Ligure, nella camera delle due sorelle misi il Mare Ionio, in quella molto grande dei genitori feci entrare il Mare Tirreno, nella mia cameretta trovò posto il Mare di Sicilia mentre approfittai delle vaste dimensioni della cucina per infilarvi il Mar Adriatico. Mi accorsi di aver dimenticato il mare di Sardegna, non intenzionalmente ma semplicemente perché erano finiti i vani dell’alloggio. Fortunatamente venne in mio soccorso il terrazzo soprastante che, molto soleggiato, si prestava molto bene alla scopo  e... che cosa c’era di meglio da accoppiare alla solatia isola non ancora assurta, a quel tempo, al rango di centro turistico internazionale? La soluzione prevedeva un mare a due strati ma, sapendo che  ciò che contava era il risultato, decisi di ignorare i più elementari principi fisici.
I
l problema dei mari sembrava risolto e mi dedicai allo studio della terraferma. Qui il contesto, contrariamente a come sembrava all’inizio, era molto più delimitato, più definito perché mi accorsi che i confini, rappresentati da linee fisiche ben visibili, erano più chiari e la forma stessa delle linee poteva dare un ulteriore aiuto. Era subito evidente dove finiva l’Italia con il conseguente inizio della Francia, che a sua volta continuava sino alla Svizzera, dalla quale si separava mediante una linea ben demarcata e così via. Elencai su di un foglio i nomi dei vicini paesi confinanti e mi apprestai a sfruttare il già sperimentato “trucchetto” usato per i mari. Con mio rammarico, notai che se per questi ultimi era stato abbastanza semplice adattare la sostanza fluida alle forme quadrangolari delle stanze della casa, non altrettanto potevo fare per i paesi di terraferma che, per propria caratteristica, presentavano una certa reticenza a lasciarsi inserire fra i muri precostituiti, per di più realizzati con notevoli spessori, com’era nella tradizione muraria dell’epoca. Abbandonai, allora, i meccanismi di memorizzazione e dedicai il tempo ad un più proficuo studio della sequenza fisica partendo da ovest e procedendo vero est. Notai, con soddisfazione, che le forme concrete, ben delimitate da linee, potevano essere confrontate con altre figure già catalogate in memoria e questo era di notevole aiuto per ricordare. Nacque da questa constatazione una sorta di forma mentale che privilegiando i modelli concreti a sfavore di concetti aleatori, mi orientò verso lo studio delle scienze tecnologiche. Scelta che a tutt’oggi valuto positivamente, ma che non m’impedisce di fare altre considerazioni del tipo: “Perché sentiamo la necessità di tracciare tanti confini?” Ho valutato a lungo questo problema a cominciare dall’istinto che sente il cane da guardia, peraltro animale simpaticissimo, soggetto notoriamente alla programmazione del padrone, istinto, dicevo, da lui percepito come bisogno irrinunciabile a proteggere il proprio territorio. Ebbene, mi si perdoni la congiunzione a inizio frase ma serve proprio per enfatizzare il seguito, ebbene dicevo, ho notato che molti cani, quando sono lasciati liberi al di fuori del loro territorio, perdono l’aggressività. Questo fa pensare che le linee di demarcazione siano una sorta di barriera soggetta a varie funzioni, dalla più semplice e naturale consistente nella delimitazione di una zona da lavorare, zappare o disboscare, che comunque oggigiorno non troverebbe molti estimatori, sino ad arrivare alla funzione più complessa e coercitiva che traccia confini netti ed invalicabili la cui violazione potrebbe scatenare le peggiori punizioni che mente umana possa mai escogitare. A proposito di cani, non hai mai notato che l’aggressività si sviluppa, non per loro stesso volere, ma in relazione a quella dei padroni? Tu non vedrai mai un “cagnone” del tipo pitbull, tanto per citarne uno di moda, al guinzaglio della vecchietta indifesa, te lo immagini, piuttosto, passeggiare libero e sicuro a fianco di un individuo fiero di sé che ha scritto chiaro sul display della fronte “Guai a chi mi sfiora”.
F
ermi tutti ragazzi! Sostiamo un attimo a raccogliere le idee, avevamo iniziato scherzando e quindi manteniamo questa linea. Stavamo parlando di confini. Una volta c’erano quelli delle carte geografiche che qualche malintenzionato ha cercato di realizzare anche fisicamente.  C’erano i confini che delimitavano le proprietà ma, come può facilmente ricordare chi ha una certa età che mi astengo diplomaticamente dal quantificare, una volta era molto difficile trovare case rurali fornite di recinzioni, e i fondi agricoli circostanti erano delimitati, nei casi più appariscenti, da alcune pesanti pietre piantate a terra ben distanziate fra loro. Immagina un po' un tizio che partiva con una pietra, diciamo come esempio di 10 o 15 Kg fra le mani per andarla a depositare 100 metri più avanti, e poi un'altra ancora e così di seguito sino alla definizione  dei limiti. Penso che l'idea che gli balenasse più spesso fosse: “al diavolo i confini”. Forse è per questo che non c'erano fondi con recinti. Per contro oggi puoi affermare senza tema di smentita: «Vammene a trovare una senza».  Certo che abbiamo tutti i nostri bravi motivi: i ladri, la delinquenza, senza dimenticare quanto amano cinghiali e caprioli divertirsi nell'orto del loro vicino che, com'è noto è più verde. Certo, proteggere lo spazio vitale è essenziale  quindi è giustificabile erigere barriere sempre più alte.
A
bbiamo abbattuto muri fra nazioni e barriere bisettrici nell’ambito degli stessi stati ma, dovendo compensare gli abbattimenti con nuove opere, ci sentiamo obbligati ad erigere altre costruzioni. E’ bene ricordare, a tale proposito che per evitare reazioni di rigetto contro le nascenti barriere, sarà posta ogni cura nel dissimulare forme coercitive.  Si procederà, pertanto, gradualmente, partendo da una soluzione virtuale poco appariscente e a basso impatto ambientale per procedere in seguito, secondo un programma prestabilito, al consolidamento fisico. Potremmo iniziare con il ripristino delle barriere fra nazioni europee per passare subito dopo alle regioni, alle città, ai paesi, alle case e, finalmente, anche agli uomini. Ci pensi che bello sarebbe se ognuno avesse il proprio spazio, ben separato da quello degli altri, dove potervi esercitare le libertà individuali? Avresti un’ambientazione più ordinata con tanti “rettangolini” squadrati e ben allineati che assomiglierebbero stranamente a gabbie.


MANUELA ANNA GRECO (Milano): in arte Mag, è nata a Milano, dove vive e lavora. Con Ennepilibri, Editore di Imperia, a novembre 2007, ha pubblicato il suo primo romanzo Ma il cuore non si arrende... e il 21 marzo 2009, in occasione della Giornata Mondiale della Poesia, è uscita la sua prima raccolta di poesie Su e giù per l'anima. A maggio 2009, ha vinto il concorso "Incipit da favola. Il racconto lo scrivi tu.", indetto da ilmiolibro.it e Scuola Holden, con la fiaba Una rosa per Tea. Grazie al premio ottenuto, ha pubblicato, con Ilmiolibro.it, la raccolta di racconti Anime perse e no. Il 23 novembre 2009 si è classificata al 3° posto nel concorso Montblanc “A story to tell”, organizzato da Secretary.it, con il racconto Anima bambina. A dicembre 2009 si è classificata al 2° posto al Concorso Nazionale Letterario “pennacalamaio@zacem.it”,  indetto dall'Associazione Culturale Savonese Zacem, con il racconto I sassi si sono messi a parlare e ha ottenuto una segnalazione di merito per la poesia Che t'amo. A giugno 2010, si è classificata al 3° posto con il racconto Spira il vento. Nasce mia sorella. Giovanni al “Premio letterario Angelo e Angela Valenti - XVII Edizione”, indetto dall’Amministrazione Comunale di Garbagnate Milanese e dall'Assessorato alle Politiche Culturali, in collaborazione con l’Associazione “Famiglia Agirina” di Milano. A giugno 2010 è uscito il suo secondo romanzo “Cherry Sweet Love”, edito da La Vita Felice, classificato poi al 2° posto al Concorso Nazionale Letterario “pennacalamaio@zacem.it”.  Ad aprile 2011, è uscita la raccolta poetica Dentro il mare, edita da LietoColle. A gennaio 2011, ha ottenuto, con il racconto Com'è bella la tua Genova!, un premio come finalista al concorso “Angelo ed Emilio Moriondo”, indetto dall'Associazione Cattolica Artisti di Genova. Il suo sito è www.manuelagreco.com

MENZIONE D’ONORE POESIA A TEMA LIBERO
DIVERTISSEMENT


Trrr...

Tremo sulla tradotta.
A stento trattengo il traboccante desiderio.
Traino il tempo, travisando verità e menzogna.
Trotto come un baio triste.
Traballo su intrepidi trampoli.

Stop.

Tranquillizzami amore.
Trita il basilico, trifola l'aglio
e cucina per me le trenette.
Stregami sul tuo trumeau.
Ho sciolto le trecce.
Ho tradito il senno.
Ho truffato la notte.
Travolgimi, trastullami amore,
tra le trine delle tue lenzuola proibite.
Lasciami tracce di te.

III class. RACCONTO
ANTHEA DAI CAPELLI VERDI

Aveva i capelli color del luppolo. Sì, di un bel verde chiaro scintillante. Intrecciava con la lingua i fili d'erba e parlava solo con il vento, nelle giornate lunghe. Quando la tramontana che soffiava da Ponente portava la pioggia e a lei, i capelli verdi si gonfiavano di pensieri. E parevano alghe marine fluttuanti, sospese nel cielo carico di nuvole.  Sul viso pallido, la natura ci aveva spruzzato una manciata di efelidi disordinate, che, giurerei, mutavano posizione con l'avvicendarsi delle stagioni.
Ogni mattina mamma le raccoglieva i capelli in una lunga treccia. Diceva che altrimenti la gente si sarebbe fatta beffe di quel colore bizzarro, ma quando mia sorella era certa che non la guardasse nessuno, scioglieva la treccia e lasciava che api e farfalle la scambiassero per una pianta. Io mi nascondevo dietro il muricciolo che delimitava la nostra proprietà e la stavo ad osservare per ore, mentre sorrideva al merlo e carezzava il dorso delle vespe. Lo sapevamo tutti che era una bambina diversa. Speciale. Lo sapevamo tutti: mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle. Perché quando mamma l'aveva data alla luce, in quello stesso istante, i muri della nostra casa si erano infestati di asparagina e l'aria, dentro le stanze, si era fatta irrespirabile. Amara. Nostro padre si era messo in spalla una bisaccia, aveva aspirato con voluttà il fumo malato di  un altro sigaro e se ne era andato.
“La gramigna, in casa mia, non ce la voglio.”, aveva detto, incamminandosi verso il sentiero che portava oltre la montagna, dietro il campo dei girasoli. E io e i miei fratelli avevamo compreso che non sarebbe più tornato indietro. Istigati dalla curiosità, avevamo fatto le scale a due a due per andare a vedere quella creatura indifesa che, tuttavia, aveva cacciato di casa nostro padre. E nella culla di vimini, in cui tutti noi avevamo posato il capo molle, avevamo scorto l'ultimogenita: una bambina coi capelli verdi e il respiro amaro come il fiele. Le mie sorelle avevano tirato il grembiule sul naso e i miei fratelli si erano coperti la bocca con il fazzoletto. Io ero rimasto interdetto, alternando lo sguardo dal volto serafico della mamma a quello strampalato dell'ultima nata che, per contro, mi aveva donato un sorriso. Il primo. Era così che si era venuto a creare quel legame particolare, tra lei e me. Io ero stato l'unico, assieme alla mamma, a non temere il miasma amarognolo dei suoi vagiti di neonata. E dei suoi pianti di bambina. Non imparò mai a parlare mia sorella.  E del resto, chi l'avrebbe ascoltata? Mia madre la chiamò Anthea, che in greco significa fiore, sperando forse che il profumo intrinseco al nome aleggiasse intorno a lei. Qualcuno ipotizzava che se le avessimo tagliato i capelli, se ne sarebbe andato via anche quel sapore acre che Anthea si trascinava dietro, ma nessuno ebbe mai il coraggio di avvicinarsi. E nemmeno io o la mamma che temevamo, al contrario, di spezzare la magia di quella creatura  speciale, dono del Cielo. Così i miei fratelli si convinsero che il problema stava nell'asparagina che seguitava ad  arrampicarsi sui muri di casa. E si inerpicarono su scale e trampoli per sradicarla, ma più la strappavano, più la pianta cresceva sana e rigogliosa, insieme ai capelli di Anthea. Come se l'asparagina e Anthea condividessero la stessa esistenza.  Passarono molte primavere e i miei fratelli e le mie sorelle, un po' alla volta, se ne andarono da casa. Rimanemmo noi tre soli e i muri, ostinati di oblio e di rampicante. La mamma si ammalò. Chiamai il medico condotto; venne un ometto curvo con il volto coperto da una sciarpa. In fretta e furia, scarabocchiò la diagnosi su un foglietto e aggiungendo rassegnazione al silenzio, se ne andò facendo spallucce. Come se la depressione di mamma fosse un male incurabile o giù di lì. Anthea, in quei giorni, parlò tanto con il vento. Da arrossarsi quelle sue gote perennemente chiare. E la tramontana l'ascoltò. Ma i consigli del vento, si sa, van presi con le dovute precauzioni, perché si nutrono con la fantasia dei popoli. Perché la tramontana li raccoglie un po' qua e un po' là, dalle bocche ciarliere della gente, dagli urlatori delle piazze, dai venditori ambulanti dei mercati. E poi li riconsegna, contaminati dalla chimera della speranza. Anthea vergò i suoi pensieri su una foglia d'acero e me li affidò: la tramontana le aveva suggerito di  strappare l'asparagina per farne infusi contro la malinconia. Rimedio balzano, lo ammetto, figlio del vento e di una bambina coi capelli verdi, ma io riposi la mia fiducia in entrambi.
Convocai i miei fratelli e dissi loro che la tramontana aveva soffiato all'orecchio di Anthea la soluzione per guarire la mamma. Mi giudicarono un folle e mi dissero che mai e poi mai avrebbero sradicato l'asparagina dai muri, con il risultato che la pianta si sarebbe rinforzata e con lei, la chioma e il miasma di Anthea. Cagione, magari, della depressione della mamma. Mi lasciai convincere dalle argomentazioni dei miei fratelli e tornai da Anthea. A malincuore. Rosso di vergogna. Anche. Per non averle creduto abbastanza. Per non esserle stato fedele. Anthea mi guardò dal fondo dei suoi occhi grandi e arrotolò sul dito una ciocca di capelli, sfuggita alla treccia. Assentì, mi parve, con rassegnazione. Nei giorni a venire, la mamma iniziò a migliorare. I frequenti scoppi di pianto si assopirono, lasciando il posto all'allegria. I miei fratelli, dunque, avevano avuto ragione. L'idea di Anthea altro non era che una fantasiosa invenzione, di cui avevo subito il fascino.
E poi anche Anthea mi sembrava più felice. Non rimaneva tanto in giardino, a parlare con la tramontana. Stava accucciata ai piedi di mamma, a intrecciare le rose sulle canne di bambù, a colorare le spighe di grano, a costruire nidi per passeri spaventati. Di tanto in tanto, spiccava un sorriso cucito dietro le labbra secche e screpolate. E la sera, si coricava dopo che noi eravamo già crollati di stanchezza sui nostri materassi. Eppure, più la guardavo, più sentivo crescere dentro una strana agitazione.  E mi chiedevo se fosse soltanto la mia mente a produrre immagini tanto plumbee: quel suo naturale pallore che si faceva ogni giorno più terreo, gli occhi smeraldo che annegavano nel bianco e soprattutto i suoi capelli che perdevano forza e lucentezza, ma, per mettere al riparo la coscienza dai rimorsi, distoglievo la vista. Passò il rigore dell'inverno. E terminarono le giornate bianche, che nascondevano sotto la neve il manto verde di asparagina abbarbicata sui muri.
Uscimmo all'aperto per la prima volta, dopo la prigionia del freddo. La pelle non era più avvezza al  tepore giallo del sole. Ci lasciammo invadere, mai paghi. Anthea non si sciolse la treccia. Anzi. Raccolse i capelli in una crocchia triste e misera. Non dissi nulla alla mamma, per timore che si preoccupasse e ripiombasse, nella depressione, proprio ora che sembrava quasi guarita. Fu solo rientrando che rividi le pareti chiare della nostra casa. Con pochi ciuffi di asparagina. E tracce di muffa, laddove un tempo la pianta cresceva forte. Rivolsi uno sguardo angosciato a mia sorella, in attesa di risposte che non potevano venire. Preso dal tormento, le sciolsi i capelli. Della sua splendida chioma arborea, non restavano che fili sottili e spenti, privi ormai del tipico colore verde.
Fu allora che compresi: Anthea aveva fatto tutto da sola. Notte dopo notte, aveva strappato l'asparagina per fare gli infusi alla mamma. Aveva sacrificato la pianta e con lei, se stessa. Mi prese una gran voglia di piangere e mi sentii stupido e insensibile: come avevo potuto trascurare i miei presentimenti? Come avevo potuto lasciare che mia sorella si consegnasse alla morte proprio  sotto i miei occhi? Anthea mi sorrise e mi carezzò la guancia bagnata, poi estrasse dal suo cesto di vimini la boccetta con l'infuso. L'ultima.  Con delicatezza, l'avvicinò alle labbra della mamma che la bevve  in un solo fiato. Qualcosa mi si ruppe dentro, quando sentii quella voce dolce e bambinesca, nonostante le sue quindici primavere. “Ti amo, mamma.” Un aroma delicato si diffuse tutto intorno, quando esalando l'ultimo respiro, Anthea mi morì fra le braccia. Non mi perdonai mai. Per tutti gli anni a venire. E' così che sono diventato quello che sono: un vecchio che si trascina sui piedi stanchi. E che, fuori dal muricciolo di casa, carezza l'asparagina. Riamata, lei mi offre i frutti del suo amore. Ed io la racconto a tutti la mia storia, intorno ai boccali di birra.


RITA IACOMINO (Limbiate, MB): nonostante l’età “pensionabile”, lavora ancora a tempo pieno come impiegata, mamma e nonna di un bimbo di quasi cinque anni al quale dedica le sue fiabe… Ha sempre avuto una  grande  passione:  leggere e scrivere, ma solo all’inizio del 2011 ha deciso di partecipare a qualche concorso letterario, senza crederci molto. Nel giro di pochi mesi, invece, sono arrivati risultati inaspettati, quali segnalazioni, menzioni speciali e piazzamenti ai primi tre posti, sia in poesia che in narrativa. Le poesie sono scritte solamente per ispirazione, arrivano ed ella le cattura, soprattutto di notte. Infatti, viaggia sempre con un quaderno e una biro, che di notte sono appoggiate sul comodino in attesa di essere riempiti di parole. Per quanto riguarda la narrativa, scrive un po’ di tutto: fiabe, storie d’amore, testi commoventi e di fantasia. Prende spunto dalla vita o da quello che ha vissuto, cercando di arricchire il tutto con parole sue.


II class. RACCONTO
IN… TRENO


Un viaggio in treno! Quanto tempo era che Anna non  prendeva un treno? Almeno trent’anni, da quando a sedici anni aveva lasciato il suo paese.  Era rimasta senza genitori a tre anni, l’avevano cresciuta i nonni che, diventati anziani, ritennero di dover mandare la ragazza da una zia che viveva nel nord Italia. Si era appena diplomata quando si trasferì a Milano e a quei tempi non fece nessuna fatica a trovare un posto da impiegata.
Lì conobbe l’uomo che solo dopo tre anni di fidanzamento sposò. Anna aveva poco meno di vent’anni e Vittorio quasi venticinque, ma il loro non fu un matrimonio felice.
Ora la donna, si trovava alla stazione centrale di Milano, vedova da pochi mesi, distrutta da tutto il suo pesante vissuto e, forse, l’unica motivazione che avrebbe potuto aiutarla a riprendersi era quella di andarsene via per qualche tempo e magari tornare al suo paese d’origine. Sicuramente non le sarebbero mancati il tempo e la tranquillità per rimettere insieme i pensieri e capire qual era il futuro che le si prospettava davanti. Aveva da poco compiuto cinquant’anni, un’età che per lei cominciava a diventare pesante, essere rimasta sola accentuava questo malessere.
Eccolo il “suo” treno, una fiammante “Freccia Rossa” che avrebbe impiegato solo tre ore per fare tutto il tragitto. E pensare che quando era partita per il Nord, aveva preso il diretto Lecce-Milano che fermando in tutte le stazioni aveva impiegato dodici ore per fare seicento chilometri. Ma il progresso aveva accorciato le distanze e in poche ore si poteva raggiungere Milano.
Ora il suo viaggio era all’incontrario, ma il suo entusiasmo non era più quello di quando era partita, né la sosteneva la forza fisica. Era troppo provata dalle ultime vicissitudini e da un matrimonio avvenuto troppo presto e che aveva interrotto la sua adolescenza per introdurla in un mondo di adulti, con tutte le responsabilità che ne sarebbero derivate.
Erano le tre del pomeriggio, Anna salì sul treno con il posto prenotato in prima classe, ora poteva permetterselo, non era più povera. Vagone numero quattro, posto dodici, mese e giorno della sua data di nascita e questo le sembrò di buon auspicio.
Sedette vicino al finestrino e pochi minuti dopo il treno uscì dalla stazione di Milano prendendo in pochi minuti l’alta velocità che era la caratteristica della “Freccia Rossa”
Anna aprì il libro che aveva con sè e cercò di concentrarsi nella lettura, ma il suo sguardo si perse fuori dal finestrino mentre la sua mente entrava nei ricordi della sua vita.
Chissà quanto tempo era passato. Sentì un rumore strano, aprì gli occhi ed era seduta su una panca di legno, dura e scomoda. Il treno ora andava pianissimo, tanto è vero che guardando fuori dal finestrino si potevano contare gli alberi che  passavano davanti.
Si fregò forte gli occhi e guardò in giro. La carrozza era completamente vuota, c’era un finestrino leggermente aperto che faceva svolazzare la tenda scura parasole.
Ma no, lo scompartimento non era completamente vuoto, proprio di fronte a lei c’era una bambina di circa tre anni, seduta compostamente sulla panca con le manine appoggiate sulle ginocchia. Aveva un vestitino rosso arricciato in vita,  indossava  calzettoni di lana grossa fatti a mano e  scarponcini blu che arrivavano alle caviglie.
Il suo visino era tondo e molto bello, ma serio. I suoi occhi grandi guardavano Anna come se volessero penetrarla. Alle orecchie aveva due cerchietti in oro, così piccola e portava già gli orecchini. Improvvisamente la donna si toccò i lobi delle orecchie, sentì un bruciore misto a un dolore fortissimo, ma fu solo per un attimo. Lei non portava gli orecchini, li aveva tolti da ragazza e buttati via, non le erano mai piaciuti, i buchi delle sue orecchie si erano richiusi da tempo e non li aveva più rimessi. Guardò la bimba e le chiese: - Cosa ci fai tu, così piccola da sola in treno ? Come ti chiami?- Lei rispose seria e con la voce da adulta: -Mi chiamo Anna, sto andando a cercare i miei genitori, sono andati via un anno fa e non li ho più rivisti. La mamma prima di partire, mi ha messo gli orecchini,  mi ha stretto forte forte fra le sue braccia, mi ha detto che andava a cercare mio papà e poi sarebbe tornata a prendermi.- Le faceva impressione sentire una bambina così piccola parlare con la voce da donna matura. Le chiese di nuovo: - Ma tu, con chi vivi? Chi ti cura? Hai fratelli?-
La piccola rispose: -Sì, ho un fratello, ma l’ha portato via la mamma.- La donna era sconvolta, si stava chiedendo cosa stesse accadendo in quel treno; chiuse per un attimo gli occhi e li riaprì dopo pochi minuti,  tutto era tornato normale. La Freccia Rossa volava sui binari, la poltroncina dove era seduta era comoda e soprattutto non c’era nessuna bambina davanti a lei. Aveva sognato, anche se tutto le era sembrato molto reale. Guardò l’orologio, era passata un’ora dalla sua partenza,  le conveniva riprendere la lettura del suo libro, il tempo sarebbe passato più velocemente. Iniziò a leggere, la trama del romanzo la prendeva, ma la stanchezza prese il sopravvento sul piacere della lettura e si riaddormentò. Quando riaprì gli occhi, era di nuovo sola nello scompartimento con le panche di legno, la scena era la stessa, l’unica differenza era che ora davanti a sé vedeva una bambina più grande. I suoi capelli erano ricci e di media lunghezza, gli occhi grandi e profondi,  lo sguardo   le perforava  il cervello. Anna turbata abbassò il suo verso terra, sul pavimento c’era una pozza d’acqua,  lo rialzò lentamente e guardò la bimba: aveva il vestitino tutto bagnato. Le prese un grande malessere, ma riuscì a parlarle con molta dolcezza: - Come ti chiami? Quanti anni hai? Cosa ti è accaduto? Perché sei sola?- La bimba serissima e sempre con quella strana voce da adulta rispose: -Mi chiamo Anna, ho sei anni. Ero in strada con le mie amichette, aspettavo mi chiamassero per giocare con loro. Ho aspettato tutto il pomeriggio che lo facessero, ma nessuna ha fatto il minimo cenno. Allora sono tornata a casa dalla nonna, ma non ce l’ho fatta a fare la rampa di scale, mi sono fatta la pipì addosso e  non sono ancora riuscita a cambiarmi.- Anna provò una pena lacerante per quella bambina che stranamente si chiamava come lei. Guardò di nuovo fuori dal finestrino, gli alberi scorrevano lentamente e monotonamente, si riappisolò con un macigno sul petto. La Freccia Rossa si fermò ad Ancona, mancava solo un’ora all’arrivo al suo paese,  però ad Anna quel viaggio sembrava interminabile e pesante. Ogni volta che chiudeva gli occhi e li riapriva la scena cambiava, ma solo per l’altra ospite dello scompartimento.
Eccole,  ancora loro due, ma ora di fronte alla donna un’adolescente magrissima, aveva  un pacco di libri legati con un grosso elastico  appoggiati sulle ginocchia. Che strano, la ragazza non aveva gli orecchini, come se li avesse appena tolti,  ma si vedevano  ancora il segno dei buchi aperti nei lobi.
Questa volta Anna non le chiese neanche il nome, sapeva già la risposta, però aveva voglia di parlarle. - Ciao Anna.- -Ciao.- -Stai andando a scuola vero?- -Sì, per me questo istituto è stato un ripiego, non è quello che avrei voluto frequentare, ma è questo che ho dovuto fare. Quest’anno mi diplomo, con un anno di anticipo, ho fatto il biennio in un solo anno.- La donna si accorse che nonostante questa risposta un po’ amara, la ragazza non era triste, anzi le sembrava molto solare. Le chiese di nuovo: -E dopo il diploma cosa farai?- -Sicuramente andrò ad abitare a Milano dagli zii, i nonni sono diventati anziani.- -E i tuoi genitori?- - Non lo so, non li ho più visti da quando avevo tre anni. So che si sono rifatti una vita, hanno altri figli e vivono in una città della Campania, ma oltre questo non mi è stato detto null’altro. Sto bene con i nonni, mi danno tanto amore e mi hanno insegnato a darlo.- La donna aveva sempre di più il cuore compresso in una morsa, ma il treno correva, era già entrato nella regione dove si stava dirigendo, però le restava ancora un po’ di tempo per leggere qualche pagina. Riaprì per l’ennesima volta il libro, ma non era giornata. Anna guardò per un attimo fuori dal finestrino, il treno aveva rallentato molto.  Che strano,  proprio in quel punto.
Come in un film le immagini iniziarono a scorrere veloci davanti ai suoi occhi. Alla sua sinistra poteva vedere il mare, il suo mare, il grande scoglio piatto, dove andava a sedersi quando voleva stare da sola e piangere tutte le sue lacrime, fino ad avere gli occhi completamente asciutti affinché la nonna non intuisse la sua sofferenza, così aveva imparato a mascherare tutto sotto i sorrisi. Sulla collina vedeva la sua scuola, le stavano consegnando il diploma con il punteggio più alto. Gli abbracci delle amiche, i complimenti della preside e dei professori, i suoi sedici anni con la voglia di scoprire un universo che non era mai stato il suo. Ora eccolo il suo mondo di oggi: moglie, mamma, vedova e quel treno preso all’incontrario, che ancora una volta aveva le panche di legno.
Diede un’occhiata al sedile di fronte a lei, c’era una donna matura, di cinquant’anni, stanca, triste e demotivata, che la guardò e le chiese: -Cosa ti aspetti da oggi in poi?- -Perché sei tornata qui, al tuo paese dove non troverai più nessuno?- Anna rispose con un filo di voce: -Devo ripartire da qui per ritrovare Anna.-


GABRIELE LAGANARO (Savona)
Ciao, sono Gabriele vi ricordate di me? E’ passato un anno dall’ultima antologia che ho fatto. Adesso ho 9 anni. Quest’anno farà un’antologia anche un mio amico. Forse. Adesso non mi piace tanto il telegiornale come negli anni passati, preferisco i cartoni animati, e adesso quando la mamma vuole guardare il telegiornale io vado in sala per guardare i cartoni animati.
Al pomeriggio appena arrivo a casa metto subito su <> una rete televisiva di solo cartoni animati. Non so più cosa dire. Ciao



GIACOMO MANZONI DI CHIOSCA (Lavìs, TN): nato a Milano nel 1940, dal 1975 risiede a Lavìs. Laureato in Ingegneria Chimica, per trent’anni ha prestato servizio come impiegato con funzioni tecniche presso aziende industriali. Attualmente è pensionato. Amante della vita semplice e della natura, nei momenti tranquilli e solitari compone poesie, racconti e favole. Da alcuni anni trascorre con la moglie la maggior parte dell’estate ad Albisola Superiore, dove, più che alla vita di spiaggia, si dedica al bricolage, ricavando sedie, tavolini e altre cose dai rami degli alberi del frutteto e dei boschi che circondano la villetta. Ha conservato le liriche scritte dai tempi del liceo, ma solo negli anni ’90 ha iniziato a partecipare a concorsi letterari, con lusinghieri risultati. Fa parte del «Gruppo Poesia 83» con sede a Rovereto. Ha pubblicato cinque brevi sillogi nella collana «Il Portone/Letteraria» (ed. ETS - Pisa): Il tempo, le cose, i sentimenti (2003), Primo amore (2005), Sterpi (2006), Credere e amare (2007), Cristalli di ghiaccio (2009). Nel 2003 è uscita la sua raccolta di favole L’ippopotamo e altri animali, con illustrazioni dello stesso autore (ed. ARCA - Lavìs).


III class. FILASTROCCA
AL MERCATO DI ALBISOLA

Alla domenica,
giorno di festa,
niente mercato.
Ma al lunedì...
È proprio questa
la volta buona:
si va a Savona.

Là c’è un mercato
proprio grandioso.
È favoloso:
trovi golfini,
maglie e calzini,
chicche e giocattoli
per i bambini,
frutta e verdura
bella e matura.

Poi piante e fiori
che lor signori
posson guardare
ed annusare...
e forse, un giorno,
anche comprare
e, senza spendere
molti denari,
far buoni affari.

Anche il marito
può divertirsi:
lui perde un’ora
per il posteggio
(se non va peggio).
Poi si rincuora
cercando i ferri
del suo mestiere.
Da cavaliere
poi porta i pacchi.

Al martedì
un occhiatina
alla Marina
dove passava
la ferrovia:
altro mercato
non tanto grande,
ma per comprare
calze e mutande
può ben bastare.

Mercoledì
si resta qui!
Ad Albisola
c’è un mercatino
molto carino.

Il giovedì,
se hai proprio voglia
un bel mercato
trovi a Mioglia
o a Cogoleto.

Il giorno dopo
le due sorelle
per il mercato
van fino a Celle.

Poi viene il sabato:
le due ragazze
vanno a Varazze.
Vanno al mercato
mentre il marito
calmo e beato
fa ancor di peggio:
lui va a passeggio!

Vanno al mercato
senza comprare
niente di niente.
Vanno a guardare
mentre la gente
spinge, e si sente
mugghiare il mare.

Mugghiare il mare
sulla battigia.
La gente pigia
mentre il marito
più divertito
va a passeggiare
sul lungomare.

Così finisce
la settimana:
Ed è un peccato:
senza mercato
non si può stare!
04.09.2010


GUIDO PALLOTTI (Genova): nato a Genova Sampierdarena il 18 agosto 1939, è autore di due romanzi: Niña, III classificato  al Premio Letterario Internazionale Siracusa nel 2006 premiato con assegnazione del Decagrama d'argento, e I biondi capelli della sposa.
Il suo racconto Balzi eroici e antichi rimorsi si è classificato primo nel 2007 al Premio di Poesia e Narrativa Città di  Celle Ligure; Alcol è risultato secondo classificato nel 2008 alla Fiera del mare di Genova in occasione del meeting dell’Auser Filo d'argento; ha pubblicato, inoltre, nel 2011, O Goìddo o ne-a cónta, libro di racconti in lingua genovese,  nella collana Bolezumme dal Secolo XIX°, e Pe fâse 'n pö de rîe, libro di barzellette in lingua genovese, sempre nella collana Bolezumme dal Secolo XIX°, in collaborazione col professore Franco Bampi, presidente de A Compagna.


II class. POESIA IN VERNACOLO con ACCIPICCHIA COM’E’ VECCHIO
III class. LIBRO EDITO DI NARRATIVA con I BIONDI CAPELLI DELLA SPOSA

Ve sei mai sentîi in corpa pe’ avei  amiòu a gente da vòstra etê e pensòu: “Mi no pòssu
pai coscì vegio”! Se v’è za capitòu, sta stòia a rigoarda voatri ascì.
Êo asetâ, pe o primmo apontamento,
in ta sala d’ateisa d’en dentista
aveivo fæto all’ASL o prenotamento
e m’éa tocòu o primmo ch’e gh’éa in lista.
In scia miagia e ben apeiso drîto
con in gòtico o seu nomme stampòu
gh’éa u diplomma, a-o  stesso mòddo scrîto
e’n t’en barlumme a tutto ò ripensòu.
O l’aiva i cavelli longhi insimma a-e spalle
quand’êmo in tâ mèxima classe a-o liceo
‘n bèllo mòu, in figo, atro che balle,
ma co foise davei lê, següa no éo.
Che eugiæ che da nascoza ghe tiâvo
e ‘n pâ de vötte gh’éo ascì sciortia,
ma ciù in là de quarche baxo no andavo
pe questo a stòia a l’éa finia a-a spedia.
Quande però o m’à fæto asetâ
i mæ pensê se son dæti a-a fûga,
ma quæ cavelli longhi, o gh’aiva a piâ,
e o môro o l’éa diventòu tutto ‘na rûga.
O l’éa asê vegio p’êse pròprio lê,
però a corioxitæ a m’éa restâ
coscì, quande son stæta torna in pê,
a smanzaxon ma son voscioa levâ.
E pe caciala lì gh’ò domandòu,
se i seu anni de scheua o se aregordâva,
e  in te coæ liceo o l’aiva studiòu,
e se quarcösa ancon o se ramentâva.
“L’anno do diplomma, scia-a me o porieiva dî”?
Me pâ che foiximo in to meximo licéo"
“No gh’ò niscciun problema, in to setantedoi”.
E mì:“Liceo classico Giordan Bruno? L’è  o véo”?
O m’à goeciòu pensandoghe ben ben
brutto, vêgio e peiòu, n’a vea schifessa,
poi o m’à dîto, sto gran figgio de puten:
“Quæ mateia, scia l’insegnava ciù? Profesoressa”!

Vi siete mai sentiti in colpa per aver guardato gente dela vostra età e pensato: «Io non posso sembrare così vecchio». Se vi è già capitato, questa storia riguarda pure voi.
Ero seduta per il primo appuntamento,
nella sala d’attesa d’un dentista,
avevo fatto all’ASL la prenotazione,
e m’era toccato il primo ch’era in lista.
Sul muro, e ben appeso dritto,
con in gotico il suo nome stampato,
c’era il diploma allo stesso modo scritto
ed in un barlume a tutto ho ripensato.
Aveva i capelli lunghi sopra le spalle
Quand’eravamo nella stessa classe al liceo,
un bel moro, un figo, altro che balle,
ma che fosse davvero lui non ero sicura.
Che sguardi da nascosto gli tiravo
e un paio di volte c’ero pure uscita,
ma più in là di qualche bacio non andavo,
per questo la storia era finita alla svelta.
Quando però mi ha fatto sedere
I miei pensieri si son dati alla fuga:
ma quali capelli lunghi, aveva la pelata,
e la faccia era diventata tutta una rûga.
Era troppo vecchio per essere proprio lui,
però la curiosità m’era rimasta,
così quando sono stata nuovamente in piedi,
la voglia di sapere me la sono voluta togliere.
E per buttarla lì gli ho domandato,
se i suoi anni di scuola si ricordava,
in quale liceo avesse studiato
e se qualcosa ancora si ricordava.
“L’anno del diploma, me lo potrebbe dire?
Mi pare fossimo nello stesso liceo».
«Non c’è nessun problema, nel settantadue».
«Liceo classigo Giordano Bruno. È vero»?
«Mi ha sbirciato pensandoci per bene,
brutto, vecchio e pelato, una vera schifezza,
poi mi ha detto da gran figlio di p…:
«Quale  materia insegnava allora? Professoressa».


RADA RAJIC RISTIC (Vicenza): nata in Serbia, laureata in lingua serbo-croata e letteratura jugoslava presso l'Università di Belgrado; ha pubblicato 11 libri di poesia, libri bilingue in serbo, con la traduzione a fronte in lingua italiana; ambasciatrice di pace dell'UPF delle Nazioni Unite, lavora come mediatrice culturale e insegna l'italiano ai bambini stranieri, presso le scuole pubbliche di Padova. Tiene conferenze sull'intercultura presso gli enti pubblici e le scuole di ogni ordine e grado; membro permanente dell'Accademia culturale “Le tre Castella” di San Marino; due volte presidente della giuria del concorso letterario organizzato dalla biblioteca civica di Grisignano di Zocco in provincia di Vicenza; numerosi premi letterari in Italia e in Serbia; ha vinto il premio “Petar Kocic” a Banja Luka in Bosnia; ha patrecipato tre volte al festival internazionale di poesia “Poestate” a Lugano, in Svizzera; inviata speciale per un quotidiano belgradese” Ekspres-politika” dal 1991 al 1993; collaboratrice delle riviste  “Voice of peace” di San Marino e “ Cittadini dappertutto”- rivista interculturale di Padova; ha partecipato alla edizione 2011 “ Ad alta voce”, una maratona della lettura, a Venezia.

I class. POESIA SINGOLA
 TESTAMENTO A MIO FIGLIO

Io, la mamma part-time,
porto ancora le cicatrici delle ferite
inflitte dal modo
e dal mondo in cui viviamo.
In questo mondo,
fare la mamma è una scelta,
non un bisogno naturale.
Fare un figlio,
per me era fare un dono alla società,
in cui il latte artificiale costa,
dove non è un diritto ma un dovere,
dove tutto è invertito,
una società che io mamma part-time,
non ho sognato per te.
Tu, con il sole sulle labbra,
non vivere nella trappola dei pregiudizi,
rigetta queste barriere mentali.
Sappi che l’intelligenza inizia
dove finisce la stupidità dell’odio razziale
e dell’intolleranza.
Ti ho lasciato libero
di scegliere un giorno il Dio giusto,
il tuo Dio,
non ti ho imposto quello mio.
Ragiona con le proprie possibilità e capacità,
non con i desideri,
se vuoi realizzare i tuoi sogni.
Non essere affascinato dal denaro,
non diventare suo schiavo.
Quelli che ne hanno in abbondanza,
non capiranno il tuo cuore,
ma tu non preoccuparti,
il loro cuore è stato educato in un altro modo.
Non avere mai dei desideri anonimi,
non elemosinare i sentimenti altrui,
lasciati sempre dominare dal tuo intuito,
non lasciarti tradire per una mela.
Parla sempre amore-
la lingua degli altruisti,
perché loro erediteranno il mondo.
Non rifiutarti di amare per paura di soffrire,
anche la sofferenza fa parte dell’amore
parla sempre l’amore,
fa che le tue debolezze siano momentanee.
e le virtù permanenti.
Cosa erediterai da questa mamma part-time
piena di rimorsi per colpa del destino avaro?!?
Ti lascio il seme che ho impiantato in te
di vivere da persona onesta,
e ricordati che la dignità
è il rispetto per sé stessi,
abbi la sempre,
ma non solo per te
soprattutto per gli altri,
perché non dimenticarti che siamo tutti figli
di un unico Dio - LA VITA.
  
MARIA ISABELLA TOMASELLO (Rovigo): poeta da sempre, ma senza voce per molto tempo. La prima volta che decisi di pubblicare le mie poesie, avevo già accumulato mezzo secolo di vita. Mi divertii a mettere insieme poesie scritte anche su ritagli di carta, sui sacchetti gialli del pane o sui bordi di un quotidiano, in periodi diversi della mia esistenza. Nacque così “Margherite nude” (anche segnalato a un concorso nazionale) una raccolta di poesie uscita dal mio ragionare a voce alta su ciò che avevo visto con l’anima e vissuto con il corpo. Dopo, non mi sono più fermata e scrivo ancora. Ho partecipato e partecipo ancora a diversi concorsi e proposte di scrittura creativa.  In più occasioni, le mie poesie sono state segnalate e a volte premiate. Anche qualche racconto breve è stato apprezzato.  Un tema a me caro è quello della libertà e proprio ad essa mi ispiro nella mia ultima silloge: “La libertà non è tra i pali”. Alla ricerca della libertà, c’è un istinto che guida le nostre azioni e prima ancora i nostri desideri. Ma l’uomo ha un pensiero cinto da confini e questo suo muoversi dentro gli schemi imposti dai limiti umani fa sì che egli si senta insoddisfatto e in continua lotta contro gli inevitabili muri, che si ergono tra il suo essere e il suo desiderio insopprimibile d’assoluto. In ogni nostro movimento, sia esso fisico, affettivo o speculativo, incontriamo un punto che non sappiamo oltrepassare, che non possiamo interpretare e che ci lascia soli nel nostro “Sapere di non sapere”. E’ in questo punto che nasce la mia poesia.


III class. SILLOGE DI POESIE LA LIBERTA’ NON E’ TRA I PALI
PAROLE

La “Li – ber – tà” si porge ben scomposta
come a guardare dentro per vedere
se c’è davvero un senso di riscatto,
se c’è il concetto intero letterale.
Parola  libertà, cosa s’intende,
la gente pensa in grande a un assoluto
ma io non vedo niente di totale
io sento solo un volo, un desiderio
che da un recinto chiuso lancia l’ali
a un infinito senza alcuna sponda
e chiude  il volo addosso ai suoi contorni
umani  come i limiti d’inchiostro
nelle parole piene di ideali
… ma no, la libertà non è tra i pali.

CAMERE SEPARATE

C’è un sordo rumore di dentro
lo senti?
Fa male e lo devo accettare
né andare
per farlo tacere.
Ti tenta provare?
Sapere la morsa di male
se anche il tuo è uguale?
Tienilo in petto
più stretto …
ma vedi non resta
ritorna e mi prende
di nuovo le ossa
il dolore
di essere sola .
Sei solo?
Un castello diverso
di guglie o di spade
un pozzo di male
ti assorbe e
mi tiene diversa
la stanza  che chiude
il mio volo,
io sola
tu solo.

TEMPO PRESENTE

Guardo le nuvole in volo
e Berlino di sotto
in frammenti di sole.
Rivedo qualcosa di mio
un pugno  sospeso
un addio.                                                                             

LA BALLATA DEGLI SMARRITI

Spesso sono stata
sul punto di lasciare,
ho pensato di andare
di non tornare,
pensavo che tutto
sarebbe franato
tra me e loro
solo un vuoto bucato:
io qui 
coi pensieri infiammati
là loro, con  regole
e saperi prestati.
Io avrei guardato,
ma no, mai più parlato.
In manicomio
avrei dovuto andare
ancora da bambina,
quando ero poverina
e non piacevo alle compagne
neppure ai maschi grandi
perché ero bambolina.
Piacevo alle signore,
alle nonne, alle suore
perché ero –ina
come stava bene
a una bambina
bella principessina,
ma ero furibonda
nella mia pancia
più profonda,
ero secca nelle gambe
che volevano saltare
e nelle mani
che bruciavano di fare,
ero sovraffollata di fantasia
e giovane di poesia.
Solo in giardino
solo nel mio lettino
solo da sola
ero una fucina
di pensieri esagerati,
di chiare riflessioni,



di lucide emozioni,
ma non piacevo
per la mia paura
per il mio star sola
e sola restare,
solo dalle vecchie
mi facevo amare.
Tante volte ho pensato  
“la faccio finita”
e vado altrove
dove c’è la mia vita,
vado dissociata
dove sono capita
perché smarrita
e per me è finita.
Ciao, mi va di dire,
neanche addio
perché rimango io
perché sono sincera
e so di esser vera.
Questo mio testamento
è per chi resta solo,
a casa o in ospedale,
per strada o anche in prigione
libero scaraventato
nel vuoto più isolato
dove non c’è più amore
e la vita è di dolore
Questo mio testamento
va a chi vive contento
dell’essere diverso
e fuori dal contesto
perché dolore e amore
dan frutti disperati
ma i loro semi aspri
aiutano i dannati.




ALESSANDRA VERDINO (Savona): nata a urbe (SV), laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università di Genova, è appassionata di Letteratura italiana e straniera. E’ critica cinematografica su internet. Come scrittrice e poetessa ha raccolto numerosi e prestigiosi riconoscimenti in Premi nazionali e internazionali.


III class. POESIA SINGOLA
IL FUOCO E LA LUCE

Tenebre
squarci di luce
fuoco
nel buio.

La lama
attraversa
il cuore
degli uomini.

La lama
del desiderio
di qualcosa
o di qualcuno
che ci sconfiggerà
o che ci farà
vivere
nel chiarore
di un’alba infuocata
con
gocce di rugiada
che spegneranno
la sete
della verità
nascosta nel cuore.

III class. RACCONTO
ALLA MIA CARA BAMBINA

Non so quando sei cambiata, o quando me ne sono accorta. Ero abituata ad avere tutto, e tu mi tenevi sempre per mano. Ora, ho capito che devo farlo io. Sei sempre un angelo. Hai 83 anni, vivi da sola come un gattino ribelle. Vivi nel ricordo del grande amore di papà e, forse, nella gioia per me. Non è così, mamma. Ti nascondo molte cose, per non farti stare male. Sei vecchia. Non voglio che tu abbia emozioni negative. Qualche volta, fai i capricci. Vuoi essere al centro dell’attenzione. E li fai quando siamo da sole. Non davanti agli altri. Sei come i bambini. Vuoi che faccia come vuoi tu. Se lo facessi, sarebbe un disastro. Vuoi vincere. L’ultima parola è sempre stata la tua. Te lo faccio credere. La mia bambina viziata. Mi diverto, a farlo. Ti compero rose di ceramica e quadretti per abbellire la tua casa. Secondo te, faccio male. Brontoli. Dici che butto via i soldi. Lo faccio per strapparti un sorriso. Perché ho capito che sei contenta. Non vuoi mai che venga a trovarti. Abiti in una cittadina a 3 Km. da casa mia. Prima di venire, te lo devo dire. Fai l’emancipata. Inventi delle scuse. Quando arrivo, mi mandi regolarmente a quel paese. Se non  lo faccio, mi dici che ti senti abbandonata, ed ecco la trafila degli amici perduti, del “non so se ce la faccio più”. Hai ragione. Hai avuto la fortuna di fare parte di una famiglia meravigliosa.  Sei nata in campagna, davanti ai grandi spazi. In libertà. Uno dei nostri bisticci è questo: dici che non ci vuoi più andare. Io ti ci trascino. Quando sei là, ti senti meglio. In compagnia dei ricordi e dei tuoi amici. Puoi uscire in ciabatte e respirare l’aria dei monti. Ti dedico il tempo libero dell’estate. Fai finta di non accorgertene. Vengo tutte le domeniche a controllarti. E, una settimana, a luglio, e’ dedicata a te. Ti dico la verità: è dedicata anche a me. Mi godo la campagna e i vecchi amici. Cerco di non farti arrabbiare. Mi vorresti sempre in casa come il tuo gatto. Invece, approfitto degli inviti, con attenzione verso di te. Cercando di farti uscire il più possibile. Non riesci a capire che sono cresciuta. Per i genitori, i figli sono sempre dei bambini. La vera bambina sei tu. Una delle mie paure è quando incominci a dire che hai male agli occhi: è la spia della depressione. Allora, le visite del Geriatra.  Ringraziando il cielo, questo medico ti piace. Ti fa parlare e ti coccola. Amore mio, è solo quello che vuoi. Vuoi  sentirti ancora importante, e io te lo devo fare credere. Qualche volta, quando ti guardo, soffro.  Non riesco ad accettare la tua vecchiaia.  Mi consolo, pensando che la tua salute va abbastanza bene e che ci sei sempre. Anche se ti faccio tutto. Anche se devo tacerti molte cose. Riesco a capire il tuo umore per telefono.  Se ti sento triste, chiamo un taxi per vedere il tuo viso. Che non mente mai.  Bisogna, assolutamente, non sgridarti.  Altrimenti, fai la vittima. So di viziarti. Non posso farne a meno.  E’ la ricompensa per quella che sei stata e per quello che mi hai dato. Un amore immenso. La vecchiaia si deve perdonare. Ho il compito di regalarti un po’ di gioia di vivere. Avrei voluto  essere mamma, come te. Il destino e’ stato diverso. Ma ora lo sono la mia bambina sei tu. Una bambina capricciosa, esigente e dolcissima. In maturità, sono riuscita a diventare madre.  Il tuo ultimo,  inestimabile,  regalo.


FLAVIA VIZZARI (Messina): pittrice e autrice di versi è la presidente dell’ “Associazione siciliana arte e scienza” (Asas) di Messina  e anche referente per la regione Sicilia dell’associazione culturale onlus “Mecenate” di Arezzo. Ha intensificato e sviluppato la sua produzione poetica circa una decade fa, arrivando poi nel luglio del 2009 a pubblicare il suo primo libro ... e chiovi, edito da “Edizioni del Poggio” di Poggio Imperiale (Fg).  Con le sue poesie ha ottenuto ad oggi buoni meriti e riconoscimenti, tra i quali si citano progressivamente: le menzioni ai concorsi Emozioni in armonia (2002 e 2009) a Messina; IV premio al concorso Severino Caspanello 2003 a Messina; X posto al VII concorso Poesia e immagine 2005, dell’associazione “Urania Lombardia” di Cislago (Va); premio al concorso internazionale Vincenzo Rispoli 2005 a Salerno (Paestum); menzione d’onore al  VI Premio Creatività itinerante 2005 a Rodi Garganico; IV premio sezione dialettale al concorso Mario Luzi 2005 dell’associazione “Raggio di sole” di Brolo, a Gliaca di Piraino (Messina); finalista al III premio letterario nazionale Le parole che nascono dall'anima 2005 a Roma; finalista al IV concorso letterario nazionale Gens Vibia 2005 dell’associazione culturale “Pegaso” a Marsciano (Perugia); menzione d'onore per la poesia dialettale alla XVII edizione del premio nazionale Madonna di Montalto a Messina; menzione per la sezione dialettale al XXI premio Colapesce 2006; menzione d'onore al VI concorso Mistic Rose 2008 di Siracusa; finalista al concorso letterario nazionale Città di Sortino 2008; finalista al premio letterario nazionale Il Calatino 2008; II premio sezione lingua siciliana al premio Rosario Piccolo 2008 dell'associazione culturale “Beniamino Joppolo” di Patti (Me); menzione premio Asaf la Rinascita di Messina: Pilastri della Speranza 2008; premio speciale per la poesia in vernacolo (IV posto) al concorso Itinerando l'arte: Il tram a Messina 2009; II premio alla II tappa di Poesia in Piazza dell'associazione “Teatro-Cultura Beniamino Joppolo” 2010 di Patti; finalista al II e III concorso Sinfonia Dialettale (2009 e 2010) dell’associazione culturale “Il faro” a Roma; menzione d’onore Premio di poesia Sebastiano Mafodda 2011; premio Presidenza alla quarta edizione del premio Sotto l’egida dell’amore 2011 di Messina; I premio al concorso Luce e Concezione 2011 di Siracusa; II premio al concorso Messina città d’Arte 2011 di Messina.  Nel maggio 2012, è in uscita edito dalla Bastogi, il suo secondo libro: , contenente la Silloge (III parte) vincitrice del I premio per la sezione Silloge inedita al concorso pennacalamaio@zacem.it 2012, di Savona.
I Premi per il Libro edito … e chiovi:
I premio per il libro edito di poesia al concorso pennacalamaio@zacem.it 2009/2010 di Savona.
Riconoscimento di merito al concorso internazionale di poesia Premio Vittorio Bodini dell’associazione culturale salentina “Vitruvio” 2010 a Lecce.
Segnalazione di merito all’VIII premio nazionale di poesia e narrativa Surrentum 2011 a Sorrento.
Sue poesie sono inserite in diverse raccolte e antologie, su vari siti web e sul suo sito web personale: www.flaviavizzari.jimdo.com .

I  class. SILLOGE DI POESIE
ALTRO RACCONTO

A PIEDI SCALZI
A piedi scalzi
camminerei
per ricchi giorni
d'armonia
intrisi di sapere.

A piedi scalzi
correrei
in riva al mare
per rinascere
in ore felici.

Ad occhi aperti
costantemente vicino
con amore alimento
il presente
di fantasie e realtà.

VOGLIO RINGRAZIARTI

Voglio ringraziarti
perché tu non mi spezzi le ali
ma mi spingi a volare,

voglio ringraziarti per
essere il mio sostegno nei momenti
in cui la vigoria mi abbandona

perché sei la mia arte,
la mia poesia, la gioia dell’anima
che mi fa rinascere.

E MI SEGUI

E mi segui
in punta di piedi,
dolcemente
come solo un angelo sa fare,

alito gradevole
che impercettibile
naviga nell’oceano dei giorni
donando energia.

E ti seguo,
supporto tangibile
mentre entusiasmi al sogno
tra nuvole di pensieri;

brezza vitale di rugiada
al mattino festoso
ricco dell’immenso calore
di scenario al tramonto.

ANGELO

Angelo visibile dei sogni
già contempli le mie prime ore
nel susseguirsi dei giorni,

palpiti fuggevoli indorano
quotidiani momenti del vissuto,
mentre rintocchi scuotono il torpore

e piacevoli indugi ritmano attimi
resi dolci da nuove inattese
che colorano l’infinito di tinte pastello;

ma oltre il luminoso orizzonte
logiche svettano su aurei picchi
innalzati verso il cielo lontano,

a liberare invitano salde fiocine,
tra gaie luci e ritagli di cieli,
saldanti equilibri dell’anima.

DIMMI SE CI SEI

Dimmi se ci sei
in questo spazio oltre il pensiero
se sei reale, se sei come sei,
o come mi appari,
talmente vero.
Ascolta i colori di un nuovo mondo
senza tristezze,
apriti liberamente
ad una realtà frammista al sogno
affinché non lasci
che io mi riempia con te
del vuoto assoluto
che ci circonda.

SENSAZIONE DI GIORNI

Sensazione di giorni vitali
bellissimi, forse
gli unici ancora da vivere;
quale sarà il mio domani?

Vorrei che fosse libero, finalmente unico
vorrei che fosse un’emozione
grande e infinita,
lunga per l’eternità e ricca di Amore.


[1] Strisce di carta che i pellegrini shintoisti appendono all’entrata dei templi per chiedere favori agli dei.



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premiati----2011


AURORA FIOROTTO

“Sono nata il 30/12/49 a Treviso dove tutt’ora risiedo. Sposatami giovanissima ho lasciato il lavoro per dedicarmi alla famiglia e alla educazione dei figli. La prematura ed improvvisa scomparsa di uno dei due figli, Francesco, avvenuta nel marzo del 2005 mi ha portato, passati alcuni mesi, a dialogare con lui con racconti e poesie, poesie che ho raccolto in quattro volumi più uno di lettere e racconti: EMOZIONI – ALITI di VENTO - ANGELO a PRIMAVERA- PENSIERI e PAROLE – DICIOTTO ORE
Tra i riconoscimenti ricevuti segnalo:
La mia Luce si è classificata al primo posto ex-aequo nel Premio Triveneto di Poesia “Luce come fonte di pensiero” organizzata dal Circolo El Sil di Treviso per l’anno 2007
La mia Luce  si è classificata seconda nella VII Edizione del Concorso Letterario Internazionale Città di Savona  2008
La mia Luce si è classificata IV nella XI Edizione del Premio “L’albero di Sicomoro” 2009
8 Marzo 2005, racconto è stato segnalato nel 1^ Concorso di Prosa “Bar al Borgo di Treviso 2008
Parole e musica è stata segnalata nel Concorso di Poesia “La  parola è musica” organizzato dal circolo poetico El Sil nell’anno 2008
Passo Double ha ricevuto la Menzione d’Onore nel concorso Poetico “ L’oro dell’Oselin” organizzato dall’ ANFFAS di Mestre per il 2008
Il mio Angelo ha ricevuto una Menzione di Merito  nel Concorso Letterario Internazione “ Penna e Calamaio” per l’anno 2009
Pomeriggio d’Estate ha avuto la Menzione di Merito nella 14^ Edizione del Concorso di Poesia
“Tra Piave e Livenza” organizzato dal circolo culturale  Arcobaleno di Refrontolo (Tv) per l’anno 2009
Mattino di Natale  ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria nel Concorso “Nicola Mirto 2009”
e sempre un premio speciale della giuria nel Concorso “Agape Natale 2009
Luce e Ombra è risultata tra le 23 finaliste del Concorso “Quantarte II Edizione” 2009
La nostra vita ha avuto il diploma d’onore nel concorso Donna 2009 di Estro-Verso Roma
Dedicato a … è arrivata seconda nel Concorso Internazionale “Messaggi di Natale” 2009  organizzato dalla LAPS di Fucecchio, nella sezione poesia a tema libero in Castelnuovo del Garda.
Finalista nel Premio Artistico Letterario “Nicola Mirto” 2010
Menzione d’onore Concorso Letterario Internazionale “Enrico Bonino” Prima Edizione 2010
Pensieri e Vita ha ricevuto il III premio nel Concorso Letterario “All’Albero dei desideri” 2009 nella sezione poesia a tema libero in Napoli
Finalista punteggio 28 su 32 nel Concorso di Poesia “Santo Stefano in versi” febbraio 2010
Il viaggio ha avuto una menzione d’onore nella Sezione Racconti del Premio Penna e Calamaio 2009/2010 in Savona
Angelo a Primavera (raccolta di poesie) ha avuto il secondo premio nella sezione libri editi del Premio Penna e Calamaio in Savona.
Premio Città di Venezia 10/04/2010
Ho rubato si è classificata prima nella sezione poesia a tema libero del Gran Gala di Poesia e Festival dell’Amore 2010 in Tirrenia
Premio Città di Venezia nell’ambito del Premio Letterario Internazionale San Marco Città di Venezia XVII Edizione per essersi classificata nella Sezione A con la lirica Espressioni e nella Sezione C con il volume di poesie Angelo a Primavera
Natale con un Angelo si è classificato terzo nella Sezione D – Racconto a tema libero- nel Concorso di Poesia e Narrativa Premio Autore 2010 nell’ambito della fiera del libro di Torino
Premio speciale sezione racconti nel Concorso Letterario caARTEiv in Millesimo 2010
Un soffio ha ricevuto il premio speciale della giuria nel Concorso Artistico Letterario “Nicola Mirto” 2010
Finalista nella XXVIII  Edizione del Premio Città di Firenze Sezione poesia inedita
Premio Golfo dei Poeti nell’ambito del Premio Letterario Internazionale “Città di Lerici” XVIII Edizione per essersi classificata sia nella Sezione A (Poesia a tema libero) sia nella Sezione D (Racconti inediti) anno 2010
Si esiste solo è risultata finalista nel Premio Artistico Letterario “Nicola Mirto” 2010
Serata di festa Premio Golfo dei Poeti nell’ambito del Premio Letterario Internazionale “Città di Lerici” XVIII Edizione per essersi classificata sia nella Sezione A (Poesia a tema libero) sia nella Sezione D (Racconti inediti) anno 2010
La vie en rouge Premio Golfo dei Poeti nell’ambito del Premio Letterario Internazionale “Città di Lerici” XVIII Edizione per essersi classificata sia nella Sezione A (Poesia a tema libero) sia nella Sezione D (Racconti inediti)  anno 2010
Lettera a mio figlio … a un angelo  IV classificata p.m. nel Concorso Nazionale di Poesia “Città
di Livorno” 2010 nella sezione B poesia inedita
Segnalata nel Premio di Poesia,Narrativa e Fotografia “L’Oro nell’Oselin” 2010
Lo scrigno Primo premio assoluto Poesia a tema libero Concorso Letterario caARTEiv di Millesimo 2010
Finalista (20) Concorso Poetico “Il rifugio dei sogni” 2010
Aria di Natale II^ Classificata Messaggi di Natale e di Pace 2010 – Sezione D
Forse domani finalista XVIII Edizione Premio La Rocca – Città di San Miniato Novembre 2010
Day Hospital Premio Speciale della Giuria nel Concorso Nazionale “Agape Natale 2010” Carpenedo-Mestre
Lettera a Francesco segnalata nel Premio di Poesia, Narrativa e Fotografia “L’Oro nell’Oselin” 2010 Sezione C Racconto inedito
Nel Paese che non so  IV Classificata p.m. nella sezione Filastrocche del Concorso Nazionale Penna e Calamaio 2011 organizzato dalla Zacem di Savona
Pensieri e Parole II^ Classificato p.m. nella sezione libri editi del Concorso Nazionale Penna e Calamaio 2011 organizzato dalla Zacem di Savona

IV PREMIO SEZIONE FILASTROCCA
Nel paese che non so

                       Nel paese che non so
                        in fondo alla via
                        c’è una vecchia fattoria
                        piene di allegria.
Nel vuoto fienile
il gallo cedrone
confabula con il pavone.
In mezzo al cortile
c’è un canile
dove danzano le galline.
C’è la Carolina
smorfiosa come una gattina.
C’è la Gioconda
tutta tonda.
C’è la Gianna
con la cresta color panna.
C’è la Rossella
con in becco una caramella.
E danzano al suono di una tromba,
di una chitarra e di un mandolino
suonati da un porcellino.
Danzano come solo loro sanno fare.
La Signora Camilla,
bevendo una camomilla,
le guarda dalla finestra
scuotendo la testa.
Agostino, il cagnolino
danza cantando con loro,
mentre il barbagianni
dall’alto dei suoi anni
chiude gli occhi assonnati.
Delle oche stanno a guardare
ma non hanno il coraggio
di partecipare.
E nel paese che non so
il tempo è sempre bello,
non si apre mai l’ombrello.
Si canta, si balla,
si ride nella fantasia
è tutto una magia

Treviso, lì 24 Febbraio 2010



GABRIELE LAGANARO

(Savona): “ho 8 anni, vado in seconda elementare. Casa mia è a Savona in via Scotti 4 interno 6. Adesso vi dico altre cose: per prima cosa vi voglio dire che sono molto bravo a scuola. Sono un bambino un po’ strano perché ascolto il telegiornale.”


Il pescatore

C’era una volta un signore che quasi tutti i giorni andava a pescare però un giorno il mare era troppo agitato per andare a pescare e quindi decide di non andare a pescare.
Però sua moglie non voleva assolutamente che suo marito non va a pesca e lo ammazza.
Arrivano le guardie e arrestano la moglie del pescatore.
Fine



GIULIA VANNUCCHI

(Viareggio, LU): “Ho iniziato a leggere molto presto, così è stato naturale scrivere sia poesie che racconti. Sono un’ottimista, nonostante la vita mi abbia già messo a dura prova, e ciò lo si vede dai miei scritti che hanno avuto numerosi riconoscimenti e che mi hanno permesso di mostrare come sono anche a chi non mi conosce.”

I PREMIO POESIA SCUOLE MEDIE
Occhi (dopo un incidente)

Sognanti occhi
su un volto
di pietra,
di carne
mutata in pietra.

Profondi occhi
su un viso
di gomma,
di carne
sembiante gomma.

Eloquenti occhi
su un aspetto
d’inganno,
di uomo
cambiato in maschera.
(15/01/08)

I PREMIO POESIA A TEMA L’ARTE
Macchia (Davanti a un quadro di E. Treccani)

Si inseguono
in rutilanti
colori
le frastagliate
significanti macchie.

Distraggono
in sferzanti
forme
le spezzate
nigre linee.

L’occhio
travalica
l’inquietante aspetto
e si immerge
nella magia dell’impressione.
(07/05/08)

I PREMIO FAVOLA-RACCONTO
Le stelle

In una notte scura da far paura due piccole stelle si guardavano da lontano. Tutte e due brillavano tremule per il freddo e la solitudine. L’immensità intorno a loro le avvolgeva di mille domande: da dove siamo arrivate? Chi siamo? Perché siamo qui? Perché brilliamo e quelle grandi palle colorate laggiù invece no?  Insomma le domande solite di ogni essere pensante gli affollavano la mente. Le due stelle non sapevano di essere così in sintonia di pensieri, vedevano che il loro sbrilluccichio era molto simile  e ciò le rendeva simpatiche l’una all’altra. I giorni e le notti passavano e le due stelle si guardavano e tacevano; alla fine quella più a destra, se guardate bene la potete vedere anche voi sopra il primo monte a nord, cominciò a mandare impulsi brillanti a intermittenza sempre uguali e sempre più luminosi. L’altra stella dapprima ristette, poi provò anche lei a comunicare, purtroppo i loro messaggi di luce non erano codificati, così non si capivano. Passarono altri giorni e altre notti e le due stelle insistevano nei loro splendenti e vani messaggi, ma qualcosa stava per accadere. Anche Dio aveva notato in quel angolo di universo tutta quella voglia di amicizia e aveva compreso che le due stelle dicevano la stessa parola ma in lingue diverse. La sera, quando la notte era più nera che mai, un alito tiepido si sparse nel vuoto e resosi comprensibile alle stelle parlò: “Da un po’ vi osservo, mie care, e mi sembrate due gocce d’acqua che uscendo dalla stessa fonte cantano la stessa canzone d’amore. Posso esaudire il vostro desiderio di compagnia e nello stesso tempo far brillare ancora di più la vostra luce interiore. Da ora in poi sarete angeli, le stelle del Signore.” La notte fu squarciata da un roseo chiarore e al posto delle stelle apparvero due angeli biondi che guardandosi cominciarono a ridere e dalla loro gioiosa risata sgorgarono mille sogni leggeri che andarono a cullare i cuccioli dell’uomo.



MIRIAM DE MICHELE

(Torre del Greco, NA): frequenta con profitto il IV Ginnasio del Liceo Classico “G. De Bottis” di Torre del Greco. La sua poesia non è monotematica, i suoi versi spaziano a tutto campo e da essi scaturiscono versi maturi e duri come la realtà, a volte le mostra; altre volte è il suo spirito bambino a scrivere e le poesie sono delicate e dolci. Da ottobre 2008 ha iniziato a partecipare a premi e concorsi letterari di poesia e dal 2010 anche di prosa, ottenendo ottimi risultati. Si è qualificata ai primi posti in premi nazionali ed internazionali, ha  ottenuto premi speciali, menzioni di merito e riconoscimenti per le sue capacità artistiche. E’ presente in moltissimi siti web dedicati alla poesia. Ha pubblicato tre raccolte di poesie: “La mia vita in versi” nel 2009, “Io e me stessa” nel marzo 2010, “Un tratto di tempo” nel luglio 2010.

I PREMIO p.m. POESIA A TEMA LIBERO SCUOLE SUPERIORI
La mia adolescenza

Io vivo d’amore,
di voglia di vivere ne ho tanta,
di essere tenera,
di dare un bacio,
di godere della mia età.
Preferisco essere lenta e vivere così,
invece di correre e rimpiangere i miei giorni.
Preferisco sedermi sull’aria
e ringraziare perché vivo questa età.

I PREMIO LIBRO EDITO con “UN TRATTO DI TEMPO”
II PREMIO p.m. RACCONTO                                                                                                                        Una leoncina ferita

Era una tranquilla giornata di sole. Come sempre stavo andando a caccia da sola, i miei genitori me lo avevano insegnato, adocchiai un bel pollo e pensai “che buono ed è anche sostanzioso”, stavo per prenderlo finché dei cacciatori di frodo non mi attaccarono. Cercavo di scappare, ma non mi fu possibile. Sentii dei rulli di tamburi e mentre cercavo di attaccare i cacciatori con i denti, feci delle strane capriole, senza purtroppo alcun risultato. Mia madre che si trovò a passare per quel sentiero, sentì i miei lamenti e senza pensarci si mise davanti a me. Cercava di difendermi, ma purtroppo persi l’ equilibrio, le frecce divennero già due e il mio corpo non riuscì a sostenerle… cercavo di non piangere ma non riuscii a evitarlo. La mia immaginazione mi riportò il ricordo di mio padre, il leone che mi insegnò a cacciare e a darmi un affetto che non mi sarei mai sognata. Alla fine i cacciatori mi ferirono alle zampe posteriori e questo mi privò di alcuni movimenti, ebbi molte cure da parte dei miei genitori. Io cercavo di vedere sempre i lati positivi della mia vita e mantenere sempre il mio sorriso, questo forse mi faceva distinguere dagli altri leoni miei amici, che tendevano ad essere un po’ pessimisti. Approfittai del periodo in cui stavo male per sviluppare gli altri organi di senso, specialmente l’odorato che mi permetteva di sentire quando si avvicinava quel magnifico pollo di cui ero “innamorata” , mi immaginavo sempre di  mangiarlo a colazione. Mia madre per mesi andò a caccia con mio padre e mi portava ogni animale,  le zampe di mio padre erano molto abili, ma  anche quelle di mia madre non erano da meno. Per quanto riguarda me, una volta riacquistata l’autonomia ricominciai a prendermi cura del mio aspetto (a volte un po’ troppo). Una volta stetti troppo tempo a specchiarmi nel fiume che mi dimenticai che era ora di pranzo. Un’altra volta stetti troppo tempo ad allenarmi che sudai come un caprone e non sentii che  i miei amici mi stavano chiamando, ma mia madre mi difese e disse che ero sudatissima e li avrei raggiunti dopo aver dormito, ma non feci in tempo, me ne dimenticai e mi giustificai dicendo “La salute di Milly è una!” I miei amici infine capirono e furono d’accordo con me. Purtroppo non a tutti sono simpatica, a volte sono criticata per le cose che faccio, “beh questa è la vita: se fai le cose vieni criticata, se non le fai vieni criticata lo stesso!” Queste sono le parole veritiere di mia nonna, a cui voglio un mondo di bene. Insomma questa è la vita nella foresta e se ci si riflette un po’ è anche la vita reale.



ANGELO RUGGERI

“Sono nato a Formello (RM)  il 21/12/ 1944 e risiedo a Collazzone PG in Umbria. Mi sono laureato in ingegneria civile idraulica nell'Università "La Sapienza" di Roma nel 1971. Ho successivamente lavorato come ingegnere civile in Sudafrica  fino al 1976 e per brevi periodi in Nigeria e Arabia Saudita , prima di svolgere la libera professione in Italia. Ho cominciato a scrivere libri nel 2004, poesie e narrazioni di genere autobiografico prima, poi letterario , ispirandomi alla tradizione
classica e umanistica. Fra i libri da me pubblicati: "La Confessione" poesie autobiografiche, " Le Origini della Poesia", saggio accompagnato da traduzioni dal latino e dai primi poeti italiani che ho portato in lingua moderna, " Il Ritorno di Odisseo", commento all'Odissea, "Africa", libro
autobiografico che racconta le mie esperienze di lavoratore immigrato nell'Africa governata dai bianchi," Giacomo Leopardi fra gli opposti estremismi" "Leopardi a Poe" " Leopardi dopo l'Unità" libri nei quali ho mostrato  cosa può accadere in occidente ai poeti che non giudicano il nostro mondo il migliore fra quelli possibili.  Ho poi scritto le raccolte poetiche "Sulla Violenza", "Uomo e Natura", il saggio storico poetico "San Francesco e Iacopone da Todi" e, ultimo mio libro appena uscito di stampa "L'ira di Achille", commento all'Iliade. Ho affrontato i problemi della scuola nei due libri "Vita di studente" e" Lezioni su felicità e amore in un liceo romano".

III PREMIO POESIA A TEMA L’AMORE, L’ARTE, GLI ANZIANI
Dolore per i nostri soldati caduti in terra straniera

“Il lutto delle famiglie per questi nostri soldati
morti in terra straniera sia di tutta la nazione
perché essi sono caduti in missione di pace",
disse il vescovo benedicendo le bare
fra profumo d'incenso e corone di fiori.
Ma non ci fu l'inno del poeta, solo un tenue sussurro
che nessuno udì pur nel mesto silenzio.
"Siamo tutti uniti nel lutto e nel dolore
tanto più grandi  perché essi non sono morti
a difesa dei sacri confini della patria,
e ci consenta di dubitare, Eminenza,
che armi straniere possano portare la pace
ad un popolo per lunga tradizione indipendente.
Quando mai si è vista entrare la Pace
su carri falcati e fra scoppi di bombe in città
 forestiera trionfalmente accolta?
Fu talvolta armata dipinta la Pace
seduta però e con la spada nel fodero,
più spesso fu dipinta come Cerere
fra rigoglio di messi e tripudio di fiori.
Fu fischiato ad Atene un poeta
che in teatro una volta posto aveva
Cerere accanto alla Fame:
"dove c'è l'una non può esserci l'altra".
E voi fate viaggiare la pace sopra carri armati!
Si racconta che in Roma una volta
nel tempio di Giano irruppe armata la Pace
per costringere il Dio a chiuder la porta.
Prontamente obbedì il Dio, chiuse la porta
prima che uscisse la Pace e fuori fu guerra."



MARIA DIANDRA CRISTACHE

“Mi chiamo Cristache Maria Diandra e sono nata a Bucarest, in Romania, nel 1995; nel 1996 sono arrivata in Italia con i miei genitori, e da allora vivo a Cartigliano (VI) con la mia famiglia.
Leggo sin da quando ero piccola, ma ho cominciato a scrivere solo alle medie, incoraggiata dal successo di un racconto horror nato come compito in classe. Scrivo poesie, racconti brevi e prose liriche, alcune delle quali pubblicate sul sito www.ars-gratia-artis.de.gg.  La mia poesia “Inchiostro sulla neve” è stata pubblicata nell’antologia Habere Artem edita dalla rivista letteraria Orizzonti, e nel settembre 2010 ho partecipato ad una mostra artistica a Cartigliano con un fascicolo contenente i miei scritti e quelli di Lisa G., amica e compagna di classe. Inoltre collaboro con il giornale d’Istituto della mia scuola, affiancando la scrittura narrativa a quella giornalistica. In futuro mi piacerebbe studiare lettere moderne o giornalismo, per poter svolgere una professione legata a queste attività.”

I PREMIO HAIKU

Verrò stasera:
castelli di vento
attendono gli amanti.
II PREMIO RACCONTO
L’arte di bere a piccoli sorsi

Sapete quei momenti così speciali che avete paura di non riuscire a vivere fino in fondo? Quelli che vorresti ricordare per sempre, certo che d’ora in poi la tua vita sarà diversa? Io ne vivo molti, di momenti così. La mia paura più grande è di dimenticarmi quello che ho fatto. Ho bisogno di mantenere i ricordi vividi nella mia mente e sfogliarli come un album quando mi perdo. Ho bisogno di essere sicuro di essere stato qualcosa per qualcuno, di essere passato in certi posti, di aver comprato determinate cose. Per questo tengo tutto, specialmente i biglietti. Del cinema, dell’autobus, del traghetto quella volta al lago con Sandra. Non sono un fanatico, se è questo che state pensando. A volte mi capita di esagerare, certo, ma sono molto sereno. Riesco a vivere i momenti. Guardate la mia camera, ad esempio. Le pareti sono piene di fotografie dove io e Sandra facciamo cose pazze e tanto stupide, come scavalcare il recinto della piscina del mio vicino di casa e andare a fare il bagno di notte. L’ultima volta che ci siamo andati siamo stati scoperti dal proprietario che ci ha inseguiti. Sapevamo che saremmo stati scoperti, prima o poi, ma non ce ne importava. E infatti, dopo qualche giorno abbiamo ricominciato ad andare lì ogni notte, anche a rischio di essere scoperti di nuovo. È di questo che parlo! Vivere tranquilli, alla leggera, ignorando il vicino che ti rincorre e ti ordina di fermarti, come se si aspettasse che tu lo faccia davvero. E immortalare tutto per ricordarsi che si è stati pazzi, senza voler dimostrare a nessuno di essere in grado di infrangere le regole. Con la serenità di chi sa che ridere allunga di qualche minuto la vita, e che per questo non perde nemmeno un’occasione per farlo. Pensare che la vita è troppo corta per rinunciare a certe cose, no, questo significa vedere il bicchiere mezzo vuoto. Volete sapere come lo vedo io il bicchiere? È il miglior bicchiere per brindare alla gioia di avere un bicchiere, ed è pieno. Mezzo pieno due volte. Quasi trabocca: manca giusto qualche sorso al bordo, la vita che ho già assaggiato, quella che ho bisogno di non dimenticare. È buono. Se guardo in controluce il liquido che manca vedo cose che riesco ad interpretare, altre no: vedo gente. Gente che pazienta e gente che ha fretta. Bambini che non crescono e adulti prigionieri della loro anima di bambini. Vedo molte persone, e vedo Sandra. Lei c’è nel mio passato e ci sarà nel mio futuro. Spero che voglia dire una cosa sola. Sì... mi piacerebbe tanto. E poi, sul fondo del bicchiere, lì dove rimangono le ultima gocce che nessuno si cura di bere, il colore si offusca. Ingrigisce, diventa più scuro. Non si capisce bene. So che non sono immortale. Lo so. Eppure vorrei riuscire a bere così lentamente da non finire mai il mio bicchiere, mai. Oh, sì, so di non essere immortale. Solo, vorrei ridere tantissimo. Perché per ridere dovrò staccare le labbra dal mio bicchiere: ecco perché ridere allunga la vita.



ILARIA CERRUTI

Nata a Savona il 15 luglio 1993, qui vive con i suoi genitori e la sua amata sorella maggiore. Frequenta con profitto il liceo classico Chiabrera. Ama molto le materie classiche e la matematica: infatti ha vinto un’edizione dei Giochi della Matematica. Ha giocato a pallavolo per tanti anni a livello agonistico. Nel tempo libero le piace frequentare gli amici, leggere, ascoltare e “fare” musica: suona la chitarra da autodidatta; qualche volta ha suonato anche per la sua parrocchia. Adora viaggiare e spera di poterlo fare sempre di più quando sarà adulta. Ha partecipato a vari concorsi letterari perché ama molto scrivere.

I CLASS. RACCONTO SCUOLE SUPERIORI
Complotto rinascimentale

Il castello è tutto in fermento. I cuochi sono all’opera da stamattina presto: il mio signore ha ordinato ai cuochi di preparare tutte le loro specialità gastronomiche per un banchetto coi fiocchi. Le cameriere girano freneticamente per tutte le sale riassettando e pulendo. Nella sala da pranzo cominciano a preparare il tavolo per questa sera. Questa sera, nella sala delle feste, dove il pittore di corte Michelangelo Buonarroti ha appena concluso un magnifico affresco, si farà un favoloso banchetto. Io non ho ancora visto l’affresco, anche tra i vari servi e camerieri gira voce che sia magnifico. Bo?!? Si vedrà stasera… Io non l’ho ancora visto perché da due ore (praticamente da quando mi sono svegliato) sto cercando di consolare la disperata principessa a cui faccio compagnia che sta piangendo nella sua camera. Piange perché stasera, tra i vari invitati, ci sarà anche il principe che dovrà sposare. Suo padre, il mio signore, aveva stretto un’alleanza con il re padre di questo ragazzo, e stasera quasi sicuramente i due si metteranno d’accordo per la data del matrimonio.
-Io non lo voglio sposare…sniff sniff, è, sigh, brutto e antipatico…- continua a lamentarsi.
-Dai, non ti preoccupare… vedrai che andrà tutto bene…- non so proprio come fare a consolarla.
-Sì, tu non conosci mio padre! Quando lui si mette in testa una cosa non gliela leva più nessuno! Ha detto che mi devo sposare con quel troglodita lì, e così sarà! …sniff…sob sob… L’unica cosa positiva di questa sera è il vestito che la sarta di corte mi ha cucito. Guarda!- Meno male che si sta un po’ riprendendo. Apre l’armadio per farmi vedere il vestito e vedo che è pieno di vestiti bellissimi, con pizzi, stoffe, pietrine molto pregiate. Quanti vestiti che ha, e tutti al massimo li avrà messi una decina di volte… Il vestito nuovo è stupendo: di raso rosso, con pizzetti finissimi, filini d’oro, nastri e nastrini, fiocchi, perline, piccoli zaffiri e smeraldi. Ha le maniche corte (ormai siamo quasi in estate) e lo strascico lungo. -…e queste sono le scarpe che metterò stasera, sono di raso rosso, con tre smeraldini sui fianchi.- Che lusso! Le mie sorelle, cadette come me, non hanno mai avuto dei vestiti belli come questo, anche se i loro erano molto carini. -Vorrei scrivere un po’ sul mio diario segreto, se non ti dispiace. Solo che è finita la candela della scrivania! Non è che per favore me ne puoi prendere una nuova?-  -Sì sì, subito.-  -Grazie.- mi risponde.

Quando s’è accesa la candela, me ne vado, visto che deve scrivere i suoi segreti. Intanto mi aggiro un po’ per il palazzo. Vado a vedere giù nel salone delle feste. Le cameriere entrano ed escono dalle due porte, sistemando tovaglie (ho scoperto che ci saranno tre tavoli. Il marchese ha fatto le cose in grande!), tovaglioli, bicchieri, sedie, posate, fiori, bottiglie…così non mi lasciano guardare l’affresco perché sono d’impiccio. Me ne vado in giardino, dalla fontana, lì almeno non c’è nessuno. Mi sbaglio: a una decina di metri dalla fontana mi accorgo che sul bordo sono seduti il marchese e la moglie, che stanno parlando; per fortuna sono sul bordo opposto, e mi danno le spalle, così non mi hanno visto arrivare. Mi avvicino un po’ e mi nascondo dietro la vecchia quercia, che ha un tronco molto grosso. -Speriamo che stasera riesca a venire il granduca di Siena. Giorni fa mi aveva mandato una lettera dicendo che aveva dei problemi con la carrozza, i cavalli e che molto probabilmente sarebbe arrivato in ritardo. Mi devo mettere d’accordo con lui per la data del matrimonio di nostra figlia, ormai ha già 16 anni ed è ora che si sposi.- dice il marchese.
-Sì, hai ragione.- concorda la moglie, con un’aria soddisfatta per il matrimonio e nervosa per l’arrivo del granduca. Si alzano e se ne vanno; quando vedo che sono entrati, esco dal mio nascondiglio e vado immediatamente dalla principessa. -Scusa se non ti ho bussato, ma quello che devo dirti è troppo importante. Poco fa ero in giardino e ho sentito tua madre e tuo padre che parlavano: dicevano che stasera si metteranno d’accordo per la data del tuo matrimonio- non mi lascia finire la frase. -Lo sapevo… che delusione…- -No, aspetta! Tuo padre ha detto che giorni fa il granduca gli ha mandato una lettera spiegando che in questo periodo ha dei problemi con carrozze e cavalli, però non so quali, e forse arriverà in ritardo- mi interrompe di nuovo con una faccia entusiasta (le è venuto un lampo di genio, la stessa idea che era venuta in mente a me). -Ma certo!! Ora scrivo una lettera, firmata dal granduca, tanto la sua firma l’ho già vista ed è facilissima da falsificare, poi la do al corriere di corte che la dia a mio padre…va be’, i particolari te li spiego dopo, ora aiutami a scrivere la lettera.- Apre lo sportello dello scrittoio e da un cassetto segreto prende un foglio di carta finissima, che comincia a scrivere con la penna d’oca, intinta nel calamaio.

                                                                                                 Siena, 10 giugno 1405
Carissimo Marchese,
come state?
Non mi voglio dilungare in inutili convenevoli, ma devo comunicarVi, a malincuore, che sono impossibilitato a venire questa sera, perché, come Vi ho già informato nella lettera precedente, i miei problemi con il viaggio sono aumentati, a tal punto da impedirmi di venire al banchetto da Voi organizzato. Comunque, Vi ringrazio di avermi invitato.      
                        Vi salutiamo cordialmente

                                                                                 


-Fatto! Che ne dici, può essere credibile?- mi chiede. -Sì, penso di sì.-  -Va bene allora. Presto, andiamo dal corriere di corte!- Scendiamo velocemente le scale, fino al piano dove c’è la porta della stanza del corriere. Bussiamo alla porta. -Oh, buongiorno principessa! Quale onore! Ditemi, avete bisogno che consegni qualche lettera?- -Salve Francesco. Ci potrebbe far entrare?- chiede sorridente la principessa. -Sì, sì, certo accomodatevi!- -Vede, si tratta di un grosso favore che mi deve fare. Questa sera, dovrebbe venire il granduca di Siena per mettersi d’accordo con mio padre sulla data del mio matrimonio. Ma io non mi voglio sposare con quel trogl…ehm, col figlio del granduca. Quindi, tu devi consegnare questa lettera a mio padre, dicendogli che durante il ritorno dal viaggio di consegna di una lettera del mio paggio indirizzata a suo padre, hai incontrato il corriere del granduca, che ti ha chiesto se gentilmente potevi recapitare la lettera del granduca, visto che eri diretto a palazzo. Capito? Mi può fare questo favore? Per piacere…- credo di non aver mai visto una faccia così supplichevole. -E va bene, lo farò. Poi vi devo far sapere non appena avrò consegnato la lettera a vostro padre? Per caso in via riservata?-
-Sì sì grazie mille, lei è la mia salvezza! Lo dica pure al mio paggio, quando la consegna sarà stata effettuata.- -Va benissimo, sarà fatto. Fra poco faccio finta di tornare, in modo che la lettera arrivi giusto prima del banchetto. Buongiorno.- -Buongiorno a lei Francesco.- -Buongiorno.- dico io. Giusto il tempo di allontanarci dalla porta del corriere che la principessa mi dice: -Vieni, dobbiamo andare dalla guardia del cancello.- -Ma per fare cosa?- -Per dirle che non lasci passare la carrozza del granduca di Siena! Se arriva il troglodita sono fregata! Allora noi gli diciamo che quando si presentano non li lasci entrare. Fidati!- -Buongiorno Giovanni! Come sta?- -Bene, bene, grazie principessa. Voi come state?- -Oh, bene. Tuttavia ho un cruccio che mi pesa…- e anche a lui racconta la storia che non si vuole sposare, la stessa che ha raccontato a Francesco. -Per questo avrei bisogno che lei mi aiutasse… vede, dovrebbe non far entrare  nel castello il granduca di Siena. Quando il cocchiere o il granduca o suo figlio si presentano, lei non li lasci entrare. Dica che ormai la sala è al completo e le è stato detto di non far entrare più nessuno.- -Va bene… lo faccio esclusivamente perché è lei.- -Grazie, troppo gentile. Tenga, questa è una ricompensa per il suo aiuto.- è un sacchettino di iuta con qualche moneta d’oro. -Grazie tante, principessa, arrivederci!- Ormai è arrivata la sera. L’affresco è molto bello, rappresenta delle persone vicino a un lago in un bosco. Il Buonarroti siede al mio stesso tavolo, quello riservato ai reali e ai loro paggi e dame di compagnia. La sala è illuminata dai candelabri, appesi al soffitto e appoggiati sui tavoli, vicino ai vasi di fiori. A banchetto terminato, incominciano le danze. Un cantore canta a squarciagola, accompagnato dal liuto e da altri strumenti musicali. Per districarmi dalle danze esco sul terrazzo a respirare un po’ d’aria fresca. Guardo giù di sotto in giardino e vedo scendere il granduca con suo figlio!!!! Torno immediatamente dentro ad avvertire la principessa, che appena lo sa va in trance. -Ma..ma…com’è possibile…….Ah, già, ormai è finito il turno di Francesco. Che si fa?- -Non lo so. Ora si sta intrattenendo a parlare col maggiordomo…- -Vieni, aiutami a riempire l’atrio di olio, in modo che cada e si faccia male.-
-Va bene.-

Riempiamo l’atrio d’olio, poi prepara un’etichetta con scritto SALONE DELLE FESTE: DA QUELLA PARTE       Ci nascondiamo in un passaggio segreto. Come previsto, quando arrivano il granduca e suo figlio, scivolano nell’atrio: ma per fortuna nostra, il contegno impedisce loro di urlare, anche se si sono fatti un male tremendo. Poi, i due trogloditi si fidano del cartello e, entrando in un corridoio, quello vicino alla rampa delle scale, finiscono in una botola, che si apre e si richiude subito sotto di loro, soffocando le loro urla. La principessa, dimenticandosi ogni contegno che deve mantenere, si mette ad esultare: -Sììì, sì, sìììììì! Ce l’abbiamo fatta!!- Dopo aver pulito l’atrio e aver fatto sparire la carrozza, che per fortuna era guidata dal granduca, così non c’era da sistemare nessuno “schiavetto”, torniamo nel salone delle feste. Prima di entrare, la principessa mi dice: -Grazie di avermi aiutato, così adesso non si sentiranno più quei due. Grazie mille.- La festa è continuata fino a tardi, ci siamo divertiti. Poi, del giorno dopo non ricordo più niente, ormai è passato quasi un anno e la principessa ribelle si sta per sposare con un principe che, miracolo!, le va a genio. Così non dobbiamo far morire gente nelle botole né cospargere d’olio l’intero palazzo.
                                  
I PREMIO p.m. POESIA
Mia Madre

Osservo mia madre:
sempre i soliti gesti di tutti i giorni;
le faccende, le cure per la famiglia…
Ma oggi c’è una tristezza in più nei suoi occhi…
L’ho vista disperata, angosciata, sofferente.
La morte ha distrutto sua madre
e le sue ultime speranze.
Sono impotente davanti al suo grande dolore.
È questo il male di vivere?



ELISABETTA COMASTRI

(Spoleto): nata a Perugia nel ’64, vive a Spoleto, dove insegna Lettere al Liceo Scientifico, è madre di 4 figli e appassionata di lettura, scrittura e cucina. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: “Il volo”, ed. Morlacchi, Perugia, 2005 (diploma di merito come finalista al premio Città di Arona 2006; “Der Flug” (ed. in tedesco de Il Volo), 2006; “Di pura madre”, Comune di Leonforte 2010, (vincitrice della 32° edizione del concorso “Città di Leonforte”); “Tutte le donne che ho dentro”, Albusedizioni – Napoli (in uscita); Antologizzazioni con varie case editrici, quali “Pagine”, “Montedit”, “Pragmata”, “Progetto cultura”, “Albus edizioni”, “Ibiskos Ulivieri”, Artescrittura, EditriceZona e altre. Dal 2005 ha partecipato a concorsi letterari con componimenti in versi, racconti o fiabe, conquistando 16 primi posti, varie volte il 2° o il 3° posto e numerose menzioni per un totale di circa 90 riconoscimenti. Amante del teatro, ha fatto parte di compagnie teatrali dialettali. Organizza e partecipa a reading di poesia ed è membro di varie associazioni culturali. Organizza come presidente di giuria il concorso “Verseggiando” a Spoleto e fa parte della giuria di concorsi letterari Nazionali in varie regioni d’Italia.  Nel 2009 è stata insignita del premio Talegalli dalla Ass. Amici di Eggi – Spoleto, quale riconoscimento per la sua attività di scrittura e per il contributo alla vita culturale della sua città.

III PREMIO CALLIGRAMMA con  “COSA FARA’ DA GRANDE?”
II PREMIO p.m. FAVOLA con “SOFIA E L’ANELLO MANCANTE”
II PREMIO p.m. FILASTROCCA
La conquista

Quest’anno di cose imparate ne ho tante
ed ho conquistato un curioso pulsante.
Se allungo le mani e mi spingo sui piedi
lo tocco, lo spingo e … tu non ci credi!
S’accende una specie di sole al soffitto
e nello stanzone s’illumina tutto!
La luce è una fata che dona stupore
e a quello che è nero regala il colore.
se poi tu la spegni e resti allo scuro
puoi far con la torcia dei cerchi sul muro.
La luce può essere stanca e un po’ fioca
ma sempre con l’ombra inseguendola gioca.
La luce è la fiamma del fuoco che brilla
e a volte saltella in una scintilla.
Succede, alla luce, se è una candela
che trema e il respiro del vento rivela,
oppure è una lingua nell’aria che balla
con la leggerezza di una farfalla.
La luce è il futuro, è un sogno che danza
e asciuga le lacrime con la speranza.
E se un pescatore è lontano sui mari
d’aiuto a guidarlo è la luce dei fari.
Oppure l’autista se accende un fanale
può correr tranquillo sul manto stradale.
Passeggi sereno e senza tensione
perché ti rischiara la notte il lampione!
E quando è Natale di mille lucine
si vestono strade, finestre e vetrine.
Che sia di una lampada oppure del sole
la luce riscalda città, case e scuole.
La luce è un’amica che aiuta la vista.
Che grande regalo, che bella conquista!
Poi arriva la notte e dormo nel letto
ed all’improvviso … un rumore sospetto …
Un battere il ritmo, un botto, un rimbombo
come se marciasse un soldato di piombo,
o è un mostro che avanza, aiuto! Mi scanna!
È buio! Ho paura! Io chiamo la mamma!
Ma poi d’improvviso il timore si arresta
se accendo la luce ma nella mia testa.
Ma che mostri o streghe! Che scarpe o ciabatte!
Nel buio c’è solo il mio cuore che batte!!    



FULVIA MARCONI

(Ancona): nell’anno 2010 si classifica per 16 volte al primo posto in concorsi nazionali ed internazionali e 8 volte al secondo posto. Prende parte in veste di membro di commissione esaminatrice in vari concorsi letterari. Dal mese di aprile 2010, ricopre la carica di Presidente Reg.le dell’Associazione Culturale Universum-Marche.

II PREMIO POESIA A TEMA LIBERO
Un cesto di more e di fiori

Cascine dai muri sconnessi
e l’erba spaccava le crepe,
i piccoli piedi giocosi
nascosti da zoccoli grandi.
Un cesto di paglia intrecciata,
farcito di more e di fiori,
compagno di gaie escursioni
nel tempo del gusto alla vita.
Di lato del pozzo sostava
ancor lacrimando la brocca,
sbeccata nell’ardua fatica
di toglier dell’acqua alla terra.
Canzoni cantavo e coglievo
le viole, le spighe e le fresie,
amiche danzanti per l’aria
farfalle esaltate di sole.
Profumo d’estate al podere,
fragranza d’antichi sapori,
l’odore del latte e del cacio,
del pane a scaldare nel forno.
Spingevo i miei sogni più in alto,
ancora più in su delle nubi,
cercando al mio cuore uno spazio
di fragole e di paradiso.
Il primo rondone volava
cercando quel nido lasciato,
nel cielo arabeschi pittava
garrendo al suo tetto in attesa.
E il ponte, ricordo da sempre,
fra due grandi cuori consunti,
recava col gesso la scritta…
 “se torno dal fronte ti sposo’’.

II CLASS. p.m. FILASTROCCA                                                                                                                     Il figlio della stella

 (Dedicata a Francesco che perse la sua mamma in tenera età)
Al luccicar discreto
di stelle nella notte
s’aggiunse lieve brezza
a carezzare il mondo.
Fra tutte quelle stelle,
Dio ne raccolse una,
le diede un nome bello
togliendola dal cielo.
La stella un poco… persa,
guardandosi d’attorno,
s’accorse con stupore
di diventare donna.
Dal pallido incarnato,
dai morbidi capelli,
la stella… presto fatto,
fu trasportata al mondo.
Qual giovine baldanza,
quanti sospir d’amore!
Silenzi d’emozioni,
ardore quanto basta.
La stella finalmente
conobbe un caro affetto.
La vita  “dolce dono’’
assaporò d’un tratto.
E tutto fu sì bello
quel mese di febbraio,
quando la bella stella
diede alla luce un bimbo.
Il tenero virgulto,
un biondo fantolino,
che fu l’amor di mamma
soltanto quel mattino.
Le stelle sole in cielo,
sentivano mancanza
della sorella scesa
a impreziosire il mondo.
Piangendo tutte in coro
volarono da Dio
  “La stella Tua più bella
vogliamo ancora in cielo!’’
A queste invocazioni,
Gesù molto commosso,
chiese alla stella bella
di ritornar fra gli astri.
Ed ella tristemente
dové tornare al Padre,
lasciando nell’oscuro
la terra addormentata.
Ma Dio allora disse:
  “Tu non temere o stella,
la vita che creasti
farà di te funzione’’.
E presto da quel bimbo
che perse la sua mamma,
brillò una luce propria
chiamata  “poesia’’.
Un nome assai importante
fu dato a quel piccino
chiamato è Francesco
per deliziar la vita.
Molti anni son passati
il bimbo adesso è uomo
e colma di dolcezza
chiunque gli sia amico.
Per tutti ha la parola
o il gesto affettuoso,
la moglie, la famiglia,
è un padre generoso.
E’ questa quella fiaba
che si racconta ancora
è questa storia bella
del  “FIGLIO D’UNA STELLA’’.



RENZO CORONA

(Mezzano di Primiero, TN)

II PREMIO POESIA IN VERNACOLO
Mors

Atu vardà
en mors de la mela?
L’é…
en granel de poesia,
de mistero…
Sì,
en granel de poesia,
en granel de mistero…
la mela co la è incera
l’è bela,
rossa o de che color
che te voi,
ma en mors
i la rende…
simpatica,
quasi familiare…

L’è come el to cor,
che ol en mors…
en mors l’è come
i pradi taiadi da la falz
(e la falz l’è la coscienza)
…quante felicità lontane…

el squerz via tut…

MORSO: Hai guardato / un morso di una mela? / E’… / un granello di poesia, / di mistero… / Sì, / un granello di poesia, / un granello di mistero… / La mela quando è intera / è bella, / rossa o di quale colore / tu la vuoi, / ma un morso / la rende… / simpatica, / quasi familiare… // E’ come il tuo cuore,  / bisogna un morso… / un morso è come / i prati tagliati dalla falce / (e la falce è la coscienza) / …quante felicità lontane… // egli copre tutto…



MARIA ALTOMARE SARDELLA

(Desio, MB): nata a Canosa di Puglia, nel 1958, laureata con lode in Pedagogia, abilitata all’insegnamento di Filosofia, Psicologia e Scienze dell’Educazione, nel 1984 vince la cattedra di Lettere in provincia di Monza Brianza, dove tuttora insegna. Riceve una targa per meriti culturali nell’88 dal Comune di Nova Milanese. Dal 1995 al 2002 dirige, a Seveso (MB), un laboratorio teatrale sperimentale. Fra le sue opere premiate: Seba, racconto, Premio Internazionale “Il Convivio 2009”, Giardini Naxos; Filo, racconto, Premio Speciale “Città di Montignoso” nell’ambito del concorso “Voci 2010”, Mestre; Più importante del pane, raccolta di poesie, Premio Letterario “Vittoria Colonna 2009”, Città di Marino, Roma; Il filo di Re’Anna, atto unico, segnalazione al concorso nazionale “Atto solo 2006”, Bergamo; Stazione Centrale, cronaca in due atti, 3° posto al concorso “In punta di penna 2007”,  San Miniato (PI); Tre minuti alle quattro, atto unico, menzione di merito al premio “Anselmo Spiga 2008”, San Sperate, Cagliari; Ristretto, cronaca in due atti, 2° posto al concorso “In punta di penna 2009” Castelfranco di Sotto, Pisa. Dal 2009 scrive racconti col titolo Le storie per la rivista fiorentina L’Alfiere; fra il 2007 e il 2010 i suoi testi teatrali sono stati pubblicati sulle riviste Hystrio, La Vallisa, Il Convivio. Fra le sue opere, vengono messe in scena: Lo spirito dagli occhi verdi nel 1994 dal laboratorio teatrale “Il Cortile” di Nova Milanese; Più importante del pane nel 1996 e Indossando il vestito nel 1998 dal laboratorio “Teatro Vivo” di Seveso; Sotto un altro cielo, dramma radiofonico nel 2002 viene trasmesso da “Radio Seregno”. Il filo di Re’ Anna è in scena dal 2008 col Teatro d’Occasione di Bergamo. Fra le recensioni: Le poesie di Maria Sardella, “La Città”, Cinisello Balsamo, 21/3/1987; Con “Più importante del pane” la speranza sale sul palcoscenico, “Il Cittadino di Seveso”, 4/1/1997; “L’età adulta di “Indossando il vestito”, “L’Esagono”, 8/6/1998; “Sotto un altro cielo”, dramma in frequenza sui 101,6, “Il Cittadino di Seregno”, 13/4/2002; Il filo di Re’Anna, www. Sipario.it, 15/7/2008; Madre e figlia legate al “Filo”. Realtà, sogno o incubo?, “Il Giorno”, Bergamo 4/12/2008; “Il filo di Re’ Anna”, cronaca in scena, “Il Cittadino di Desio”, 29/5/2010; “Il filo di Re’ Anna”, “Poeti nella società”, anno VIII, numero 42, 2010.

II PREMIO p.m. FAVOLA
Il Principe Calzolaio

L’orologio del Castello scoccò il sedicesimo colpo e nel medesimo istante il sole azzurro sembrò esplodere in tutta la sua straordinaria potenza di luce e di calore  alla giovane dalla lunga chioma nera, madida di dolore, nel letto di pregiato legno intarsiato, dove le lenzuola per il lunghissimo travaglio erano fradice e aggrovigliate in maniera inverosimile. La donna era tanto stremata che non avvertì l’intensità del  proprio urlo, il quale attraversò la porta della stanza in cui lei si trovava, scese per le scale,  penetrò le spesse mura di cinta, si riversò nell’aria, percorse le vie e raggiunse ogni orecchio di uomo e di donna, di giovane e di vecchio, di buono e di cattivo. Tutti gli abitanti del regno ovunque si trovassero,  alla velocità del suono, seppero che era venuto al mondo Auro, il primogenito di Anto e Brida, i loro sovrani, e  gioirono. Era il 29 Nono dell’anno Domini 1925 sul pianeta Alberosa, mentre sulla Terra, a Greenwich, scoccava il mezzogiorno del 5 giugno 1940. Il Castello, se la memoria non mi è nemica, si trovava sul colle più alto dei sette colli della capitale ed era difeso da una sofisticatissima tecnologia, per cui nessun astromobile straniero poteva avvicinarsi nei pressi dell’atmosfera alberosana senza essere avvistato. Ci fu soltanto un black out di poche ore nel sistema di sicurezza, il giorno in cui il principino Auro compiva dodici anni, e fu un buco fatale, perché in quel lasso di tempo nella sala master della rete informatica del pianeta si infiltrarono tre dei cracker più pericolosi dell’universo conosciuto. Già da alcuni mesi re Anto era lontano a presiedere un summit finanziario interplanetario e, in sua assenza, la regina Brida faceva del proprio meglio per amministrare il regno senza trascurare l’educazione dei figli. Dopo Auro, erano venuti al mondo i granduchi Dònico e Illo e le granduchesse Inco, Nine, Cosi e Sabi. Il principe ereditario Auro cresceva splendido nel corpo e nella mente; aveva la bellezza dei popoli orientali della Terra e le qualità morali di chi è stato baciato dalle fate. Amava le arti, cavalcava e tirava di scherma con destrezza, ma soprattutto, gareggiava con i computer nella capacità di risolvere problemi di finanza ed economia. Davvero tutti, anche al di fuori del pianeta, vedevano in lui il futuro leader che presto avrebbe saputo garantire stabilità politica, benessere economico e giustizia sociale nella galassia. La mattina in cui penetrarono i cracker, la regina Brida e le granduchesse giocavano nella sala computer del Castello. Furono le prime ad essere investite dalle onde elettromagnetiche che, attraverso i videogiochi, dovevano penetrare nelle menti degli Alberosani, rendendole rabbiose. Questo era, infatti, il piano del pianeta Sullo, disturbato nei traffici commerciali intergalattici dalla potente flotta alberosana: creare la guerra civile sul pianeta Alberosa piuttosto che attaccarlo apertamente con l’esercito. Tramando nell’ombra, i Sulloni non avrebbero rischiato la disapprovazione dell’Alto Consiglio Galattico, l’embargo commerciale e la conseguente devastazione economica. Si avvicinava l’ora della merenda. Auro e i suoi fratelli giocavano sull’ampio ballatoio dell’ingresso principale del Castello, quando Brida li fece chiamare per recarsi nella sala pranzo, dove era stata portata una meravigliosa torta di dodici piani, tanti quanti erano gli anni che Auro compiva. Dònico e Illo ubbidirono, Auro si attardò a chiacchierare con un giardiniere, che portava un cesto di fiori arcobaleno nel salone dei ricevimenti. Brida non fece richiamare suo figlio da un collaboratore come avrebbe potuto fare, ma fuori di sé, scese di persona fino al ballatoio e come indemoniata strattonò il ragazzo, spingendolo rovinosamente giù per la scalinata che permetteva di scendere nel parco; poi restò, inebetita, a guardare il drammatico succedersi degli avvenimenti. Molti assistenti domestici ed amministrativi avevano visto la scena; ma Auro, consapevole delle fatiche di sua madre nel metterlo al mondo, disse di essere scivolato, evitandole il processo di lesa maestà per tentato omicidio colposo e la condanna che ne sarebbe derivata. Negli anni che seguirono sfidò in duello chiunque osò affermare il contrario, finché l’episodio fu dimenticato e rimasero solo le terribili conseguenze. In quanto a Brida, un poco al giorno si fece catturare da una profonda depressione, che da principio le rese impossibile espletare i suoi doveri di regina, successivamente quelli di madre e, infine, non le consentì più di alzarsi dal letto, quello stesso in cui aveva dato alla luce i suoi sette figli. Si spense nel sonno trent’anni dopo l’accaduto; mentre forse riviveva in un incubo, per l’ennesima volta, l’orribile delitto di cui si era macchiata. Quando re Anto ebbe la notizia dell’incidente occorso al figlio, abbandonò le difficili trattative in corso e rientrò immediatamente in patria. Dal disastro  economico che ne derivò, il pianeta non si risollevò per molti anni; ma, almeno, Auro ebbe il conforto dell’affetto paterno. “Maestà,” disse il più grande specialista ortopedico della galassia, “la schiena del principe è lesionata in maniera che nessun intervento è possibile. Se sopravvive, sarà storpio per il resto dei suoi giorni. Ci sono pochissime probabilità che possa tornare a camminare; di sicuro non riuscirà a impugnare la spada per comandare l’esercito e sarà condannato a un costante dolore fisico.” Poi abbassò la voce e aggiunse: “La morte non sarebbe il più grave dei mali.”  Il chirurgo aveva parlato al capezzale del ragazzo; ma Auro, benché sedato dagli antidolorifici, aveva sentito; con grande sforzo aprì gli occhi e con voce quasi impercettibile disse: “Caccialo, padre! Saprò governare senza dover impugnare la spada!” Poi, sfinito, chiuse gli occhi e non li riaprì che dopo  lunghi mesi. Il piano dei Sulloni, dunque, aveva avuto successo. Infelicità, disordine e povertà corrodevano il regno a cominciare dalla famiglia reale. La regina era annientata dal rimorso; le granduchesse,  senza la guida materna, crescevano cattive; Dònico e Illo sopravvivevano; re Anto si era abbandonato allo sconforto e, sempre più spesso, si rifugiava nell’alcol. Lo splendore del pianeta si stava offuscando in favore di Sullo; ma il principe Auro, nel frattempo, era guarito. Il problema più temuto era stato scongiurato: camminava e poteva impugnare la spada; ma, come avevano previsto i medici, era rimasto deforme e doveva sopportare un dolore fisico di cui nessuno si accorse mai, tanto autocontrollo seppe imporsi. Auro aveva una personalità forte ed era convinto che se lui non avesse attribuito importanza al proprio aspetto, anche gli altri  avrebbero accettato i suoi limiti. Questa fermezza gli guadagnò stima e rispetto generali e dovunque si recasse, veniva accolto con sinceri festeggiamenti. In società, era un principe brillante e generoso e le donne più belle e intelligenti non disdegnavano la sua compagnia; in privato, non lo si vedeva mai sorridere. Dominava la sua disgrazia, ma l’angoscia di essere un diverso non lo abbandonava un attimo nemmeno dormendo. Era un gran lavoratore e il governo del regno passò gradualmente nelle sue mani; Anto, ormai completamente dedito all’alcol, era re soltanto di nome. Il sistema informatico tornò efficiente, economia e finanza ripresero quota: l’ordine era stato ristabilito. Tutto sembrava andare per il meglio, ma un altro problema sopraggiungeva. Presto avrebbe compiuto trent’anni e,  come erede al trono, era obbligato a sposarsi per garantire a sua volta eredi. A un principe, comunque sia, non è difficile trovare una consorte, ma Auro era troppo orgoglioso per accettare un matrimonio di convenienza, una donna che lo avrebbe subito con ripugnanza e avrebbe partorito i suoi figli per dovere. I suoi figli…atroce tormento. La sua deformità, lo sapeva bene, derivava da un incidente, non poteva in nessun caso essere ereditata; ma se una sua creatura per crudeltà della sorte fosse nata con un qualsiasi problema, Auro, ne era certo, ne sarebbe impazzito: c’è un limite a ciò che un uomo, anche il più coraggioso fra gli uomini, può sopportare.  Così, giorno dopo giorno, continuava a rimandare il problema matrimonio; ma una sera, guardandosi nello specchio della sua stanza, si decise a trovare il coraggio per la soluzione: avrebbe abdicato alla successione al trono in favore di Dònico. Lui, Auro, non sarebbe mai divenuto re. E… i più appoggiarono la sua proposta.
“E’ triste dirlo,” dicevano, “ ma l’occhio vuole la sua parte.” “Un re è l’immagine del proprio regno” dicevano. “Ha ragione a rinunciare.” “Dònico non è certo brillante come suo fratello, lo vediamo bene” dicevano, “ma è intelligente, preparato e ha un bell’aspetto. Con la corona, lo scettro e il manto  d’armellino ci rappresenterà con successo in tutte le galassie.” “In fondo è una sua proposta” dicevano, “perché non accontentarlo?” Nessuna voce autorevole, dunque, si levò per opporsi alla decisione di Auro; ma la regina Brida, per la prima volta dopo molti anni, uscì dalla solitudine che si era imposta  e convocò il figlio. Auro sorrise ironicamente, ricevendo l’invito della madre, perché ricordò che l’ultima volta che lo aveva chiamato, pochi minuti di ritardo gli avevano procurato la croce che si sarebbe portata addosso fino alla fine dei suoi giorni. Non per paura   e nemmeno per rispetto, ma per la magnanimità regale che nasce col cuore di un uomo e  nessuna corona può dare, questa volta non fece attendere la regina  un minuto più del necessario e si recò immediatamente da lei. Nella stanza perennemente in penombra, Brida era seduta sul suo dondolo davanti alla finestra da cui si vedeva il parco. Sentì bussare e immaginò che fosse quel figlio che era il pugnale confitto nel suo cuore. “Entra” gli disse. Auro entrò e provò pietà per la donna che aveva scelto di pagare il suo momento di follia, a proprio modo, ma condividendo con lui la sofferenza arrecatagli. Di lei poteva vedere il candore della camicia da notte che mimetizzava una magrezza da malata e la capigliatura, un tempo folta e lucente, ormai rada e imbiancata. Era tutto ciò che rimaneva di quella splendida persona che era stata sua madre. “Che desideri?” chiese Auro, sforzandosi di imprimere alla voce un tono naturale, come se non fossero passati diciotto anni dall’ultima volta che si erano incontrati. Solo per una frazione di secondo, Brida lo aveva visto riflesso nei vetri della finestra nel momento in cui lui aveva aperto la porta per entrare e, vedendo ciò che aveva fatto di suo figlio, una lacrima rovente le bruciò una guancia; ma non fu da meno del principe, padroneggiò il dolore che, selvaggio, le stava infiammando la mente, e con voce ferma, lasciandolo in piedi al centro della stanza e senza voltarsi verso di lui, disse: “Se non sei un vile, non cedere il passo a tuo fratello. La corona ti spetta per diritto di primogenitura e per merito, perché tu, da solo, hai salvato il regno… Sposati!… Non sarai il primo uomo di questo pianeta e non sarai nemmeno l’ultimo, che viene accettato  da una donna per il proprio potere o per le proprie ricchezze.” La voce, pensò il figlio, era rimasta armoniosa e piena come la ricordava. “Non completare la tua distruzione, che io ho avviato” disse ancora lei. “Non punirmi più di quanto lo sia già” disse. E tacque. “Tutto qui, quello che vuoi?”  le chiese lui, impassibile. “Ho un altro desiderio…” sussurrò lei. “Quale?” chiese ancora il principe e questa volta sembrò, ma forse fu solo una fugace  speranza nel cuore della madre, che la voce di Auro contenesse un fremito di tenerezza. “Desidero…” esitò ancora lei. “Desidero che tu…” e non osava parlare. “Desidero sentire che…” la sua voce divenne rotta, quasi impercettibile. “Almeno una volta, una volta sola ancora... Che tu mi chiami madre” disse, infine, col pianto in gola. Il silenzio di Auro non fu gelido; sembrò, piuttosto, il silenzio assorto di chi con la mente si trova altrove. Poi, il principe si inchinò lievemente e uscì piano, chiudendo ancora più piano la porta alle sue spalle. Per Brida fu come se, con garbo e il doveroso rispetto di un figlio, le avesse, però, chiuso addosso il coperchio della bara. Il perdono chiesto, le era stato negato. Allora reclinò il capo e si inflisse un’ulteriore tortura: nessuno avrebbe  mai più udito la sua voce né i suoi occhi avrebbero mai più guardato alcunché. Dònico si sposò ed ebbe il suo primo figlio. Anto abdicò in favore di Auro che abdicò in favore di Dònico. Poi Auro si dimise da tutti gli incarichi nel regno e partì a bordo di un piccolo astromobile per mete sconosciute. A chi gli chiese quando sarebbe tornato, rispose di non saperlo. Per mesi il principe Auro girovagò per la galassia senza fermarsi. Infine, un pomeriggio sbarcò su Isoladelsale, un asteroide periferico abitato dalle famiglie di pochi tecnici che controllavano i robot  per la produzione del prezioso alimento da cui prendeva il nome. Rocce, grandi vasche di sale e mare; albe brevi e luce verde, generata da una stella color rubino. Un pezzetto d’universo così piccolo da avere un solo hotel per gli stranieri che vi approdavano. Nessuno riconobbe Auro e questo fu essenziale per farlo decidere a restare. “Qui non c’è lavoro, giovanotto. Mi dispiace.” Rispose alla domanda di Auro la padrona dell’hotel, una donna sulla cinquantina. “L’età della regina Brida” pensò Auro. Ella, così si chiamava la donna, era alta e magra, portava i segni sul viso di chi lavora sodo. I capelli castani erano raccolti a cipolla dietro la nuca; indossava un grembiule bianco sulla tunica scura e guardava Auro con occhi  gentili. Il principe in incognito pensò che più che un hotel quel posto era una locanda, ma che gli andava bene così, che lui non aveva pretese. La donna interpretò il suo silenzio come preoccupazione e, siccome aveva un cuore buono, tentò di incoraggiarlo. “Senti,” gli disse, “domattina passa dal laboratorio dove lavora mia figlia, magari lei ti trova qualcosa da fare. Sai, qui non c’è commercio, siamo in pochi e non si scomodano a scaricare merci. Perciò non buttiamo via niente senza tentare di riparare ciò che si rompe e produciamo noi quel poco che ci serve, dai vestiti alle scarpe ai viveri. Quando poi non riusciamo a cavarcela da soli, andiamo all’emporio del pianeta Zulio. L’astrobus passa l’ultimo giorno di ogni mese. Lo conosci? Ci sei stato?”… E continuarono a chiacchierare così ancora per un po’. La mattina dopo, Auro si recò al multilaboratorio e chiese di Ena, la figlia di Ella. Gli indicarono una ragazza che ricamava il corsetto di un abito tenuto fermo in un piccolo telaio che poggiava sulle sue ginocchia. Quando le fu davanti, lei vide la sua ombra sul pavimento e quando alzò gli occhi, incrociò il suo sguardo e ci vide brillare qualcosa che le piacque immensamente. Per qualche strano concerto del destino, con quel primo sguardo Ena aveva potuto captare la luce dell’anima di Auro, perché il resto di lui era rimasto nascosto nel bagliore della stella color rubino che aveva alle spalle. Di quella luce lei si innamorò perdutamente. E da allora, si comportò come chi, per avere un solo gioiello di inestimabile valore, è disposto a rinunciare a moltissime altre cose. In quanto a lui, ciò che vide fu una graziosa ragazza di quindici anni. “Poco più di una bambina” si disse. “Dovrebbe ancora giocare con le bambole e andare a scuola, invece di stare qui a lavorare.” Lei lo accompagnò al laboratorio del calzolaio che aveva bisogno di un assistente e fu così che Auro imparò a riparare le scarpe. Poi, un saluto oggi e una chiacchiera domani, un poco al giorno fecero amicizia. Una sera, mentre erano seduti sui gradini del multilaboratorio a godersi l’unico divertimento del posto, che consisteva nel guardare le stelle col sottofondo dello sciabordio del mare e lui le insegnava ciò che sapeva di astronomia, lei, d’impulso, gli baciò una guancia e poi si nascose il viso tra le mani, ridendo. Per quanto innocente nella forma, era stato chiaramente il bacio di una donna all’uomo che ama e Auro, per questo, divenne profondamente triste. Seguì un breve silenzio. Infine, Auro si decise a parlare: “Ena, io…” cominciò… “Non dire niente” lo interruppe lei. “Amo tutto di te. Se tu fossi un alieno, io ti amerei…” “Non sai quello che dici” disse lui. “So perfettamente quello che dico e so quello che voglio” disse lei. “Ma se  sei  già impegnato, per favore, dimmelo. Hai una ragazza? Sei sposato?” Lui scosse la testa. “Allora,” disse lei, prendendogli la mano “ti sposerò io. Tra un anno, contando da domani, compirò sedici anni e ti sposerò.” La mattina dopo, Auro preparò la sua piccola borsa da viaggio. Era il momento di riprendere il cammino. Mandò un messaggio di scuse al suo datore di lavoro e scese alla reception per pagare il conto. “Perché te ne vai?” gli chiese Ella. “Non ti trovi bene, da noi? Qualcuno o qualcosa ti ha infastidito?” “Sono stato bene, qui” disse lui. “Ma sono un vagabondo. Non resisto a lungo nello stesso posto.” “Io, forse, so perché te ne vai” insisté Ella. “Mia figlia ti ha fatto una dichiarazione d’amore, scommetto. Lo vedo… come ti guarda.” E siccome lui non rispondeva, continuò: “Scusala. Sogna l’amore e vede pochi uomini, perlopiù anziani. E non ha un padre.” “Non ti preoccupare, va tutto bene” disse Auro. “Sei un bravo giovane” disse Ella. “Meriti tutta la fortuna dell’universo. Ma hai ragione, è giusto che tu parta.” E lo abbracciò con tenerezza e gratitudine, perché lei, che non ne era innamorata, più che la sua anima vedeva il suo aspetto.  Vedeva anche che aveva il doppio degli anni di sua figlia e che era povero. E sapeva che a lungo andare, un amore sincero non basta a tenere uniti. Il giovane Auro portava con  sé troppe ombre e nessuna madre avrebbe voluto vederle gravare sulle spalle di sua figlia. Ella sperava anche che  prima o poi la sua sensibile Ena avrebbe incontrato un ragazzo della sua età a cui donare le proprie virtù. Tutto questo non era né ingiusto né crudele, Auro lo capì e ricambiò il suo abbraccio con sincerità. La stella color rubino era quasi allo zenit, il principe calzolaio si trovava nel parking astromobili e ultimava le procedure di routine prima della partenza, quando giunsero, trafelate, Ena e sua madre. “Parla!” intimò Ena alla madre. “Tu hai aggrovigliato le cose e tu adesso le sciogli!” Ella aveva riferito a sua figlia la conversazione avuta con Auro quella mattina ed Ena le aveva aspramente rimproverato di averlo spinto alla partenza invece di fermarlo. “Auro,” cominciò Ella, “le tue qualità e l’amore di mia figlia per te sono così grandi…” “Coraggio, continua!” la incitò Ena. “Che io non ho nessun diritto di influenzare le vostre decisioni, se…” “Avanti, continua!” le impose ancora Ena. “Se anche tu, nel tuo cuore, senti di poter amare questa  ragazzina… Resta, per favore. E se scopri di volerle bene, sarai per me il figlio che non ho mai avuto.” Auro era onesto in maniera solida, ma quante notti aveva trascorso a sognare una fanciulla con cui dividere la vita? Quante segrete, disperate lacrime aveva versato prima di rassegnarsi alla solitudine? E ora, una creatura dal cuore immenso e puro sapeva vedere il suo vero aspetto al di là di ogni dolorosa apparenza. Come rimproverargli, allora, di voler accettare il meraviglioso dono che con tanta grazia gli veniva elargito?… Così, esattamente un anno dopo, nella chiesina abbarbicata sulle rocce, alla presenza di tutti gli abitanti dell’asteroide, nel profumo d’incenso e di mare, nella magica luce filtrata dalle vetrate, impalmò la sua  Ena, che gli si presentò vestita di una tunica bianca col capo coperto da un semplice velo, al braccio di sua madre, stringendo un colorato mazzolino di fiori di campo fra le mani. E vedendola giungere all’altare, Auro s’incantò, perché vedeva avanzare verso di lui  la Madonna Bambina davanti a cui pregavano nella chiesa del suo Castello. La notte che seguì la trascorsero correndo, mano nella mano, lungo la riva del mare. Fecero sollevare e dissolvere miliardi di diamanti fatti d’acqua e, ridendo di nulla, contarono stelle  finché non furono stanchi e si addormentarono uno nelle braccia dell’altro ed entrambi nella carezza delle onde sulla spiaggia. Così li trovò il mattino seguente la stella color rubino. E quando Ena aprì gli occhi, credendo il suo amore ancora addormentato, gli sussurrò nell’orecchio: “Voglio un figlio.” “Sei acerba per un bambino” mormorò lui con gli occhi chiusi, mentre già il cuore gli traboccava di amarissima angoscia. “Voglio un figlio” ripetè lei. “E se poi mi somigliasse?” chiese lui senza avere il coraggio di guardarla. “Voglio un figlio con i tuoi occhi che mi incantano. Con il tuo naso perfetto e la tua bocca che sa baciare. Voglio un figlio con le tue mani sicure e le tue gambe veloci e i tuoi fianchi stretti… Voglio un figlio che abbia la tua voce profonda. Voglio un figlio con la testa piena di pensieri  come te e che abbia un cuore che ama come il tuo” gli rispose lei. Lui sospirò e non disse nulla e restarono sdraiati sulla sabbia senza aver bisogno di mangiare né bere, nutrendosi uno dell’amore dell’altro, finché la marea, alzandosi, non li ebbe quasi sommersi e fu necessario rientrare nel mondo degli uomini. Erano trascorsi due anni, quando Ena cominciò a ricamare le camicine  per il bimbo che aspettava ed era felice come una rondine in primavera. Auro, invece, guardava crescere il ventre della moglie e in cuor suo pregava come nessun uomo aveva mai fatto prima, per lei, che giunto il momento non soffrisse, e per la loro creatura, che nascesse sana. Quando la bimba venne al mondo e gli sembrò bella come una perla del mare, Auro sentì di essere definitivamente fuori dal tunnel dell’inferno che fino ad allora aveva percorso e assaporò l’essenza della  felicità. In seguito, nacquero un maschietto, che Auro volle chiamare Anto come suo padre, e  un’altra bambina che chiamarono Silver, tanto era splendente. E tutti e tre furono figli intensamente amati. Sull’asteroide passò il tempo e Auro scoprì quanto leggera può essere la vita fra persone che si vogliono bene. Arrivò il giorno in cui sentì il cuore e la mente così liberi da poter perdonare. Raccontò ad Ena la sua storia e decisero di partire. Ella affidò l’albergo a una giovane coppia e seguì sua figlia e Auro, che la chiamava  madre, perché  solo una madre vera ama un figlio comunque sia. Grande fu la sorpresa, quando il principe Auro e la principessa Ena con Ella e i loro tre bambini giunsero al Castello. Auro non perse tempo e si recò nella stanza di sua madre. La trovò sepolta nel buio e nel silenzio; poco più di un’ombra, con gli occhi chiusi, sotto il lenzuolo. Le accarezzò piano una mano, si inginocchiò accanto a lei. “Madre,” la invocò. “Sai, ho trovato ai confini della galassia una donna che mi ama…” le sussurrò nell’orecchio. “E ho tre figli belli come stelle… E sono tornato per dirtelo.” E le baciò la fronte e, posando la guancia contro quella di lei, sentì il sapore delle lacrime di sua madre sulle labbra. Sgorgavano dalla prigione a cui per sempre si era votata per amore suo. Piangeva per dirgli che aveva udito, che finalmente il suo pianto era stato raccolto e le sue preghiere erano state ascoltate e che, adesso,  lei poteva addormentarsi in pace…
La capitale di Alberosa era ricca di negozi, di feste, di ritrovi, di uomini che sapevano apprezzare la bellezza di una donna. Ed Ena diventava sempre più bella. Vestiva come una regina, ora, e aveva la grazia di una fata. Auro la osservava volteggiare nei balli e ridere ai complimenti che le sussurravano nell’orecchio, ma subito dopo la vedeva guardare lui, per fargli capire che era lui l’unica luce per cui viveva. Poi Auro osservava se stesso e si vedeva invecchiare col fardello che il destino gli aveva dato e riprese a soffrire con l’intensità di quando era un ragazzo. Uno sbadato gli chiese, un giorno, come mai una bellezza come Ena avesse sposato uno come lui. Capitava, a volte, che si facesse questa domanda, senza ombra di malizia, per complimentare il marito di una donna affascinante. Ma per Auro fu come se la porta dell’inferno, così faticosamente chiusa alle sue spalle, si fosse di colpo di nuovo spalancata e lo stesse risucchiando. Non temeva che lei lo tradisse fisicamente, tanto erano chiare le virtù di sua moglie. Temeva i suoi pensieri. Fantasticava di desideri di lei per uomini forti e belli. Lui, che se fosse stato sano, sarebbe andato fiero dei complimenti fatti alla sua donna, sicuro di poter vincere ogni confronto, bruciava, invece, di meschina gelosia. Lui, che da ragazzo aveva sostenuto di non dover giustificare a nessuno il proprio aspetto, che si può guidare un popolo senza dover brandire una spada, si vergognava, ora, agli occhi della persona che lo amava più di ogni altro al mondo, se si tiene conto che una madre non sceglie il proprio figlio ma un’ amante sceglie il proprio amore. Auro, nella sua regale, apparente compostezza,  in realtà stava impazzendo. Così cominciò a ferire Ena, cominciò ad ostentare indifferenza, a negarle l’amore. La insultava, la umiliava soprattutto davanti a collaboratori e ospiti. Giunse persino ad accettare amanti avide e bugiarde pur di dimostrarle che lui poteva essere desiderato; che di lei non aveva bisogno; che  lei poteva amare chi voleva, tanto a lui non importava… Spingeva se stesso e la sua donna in un inferno per l’ossessione che pietà, disprezzo e ripugnanza comparissero negli occhi di lei. Ena cominciò a credere di essere stata usata, cominciò a sospettare che l’amore di lui era stato una finzione e allora, sì!… lo vide come realmente era ed inorridì. Pensò che la sua vita era stata tutta un grave errore, che l’aveva svenduta a un ingrato ciabattino e non donata, come aveva creduto, all’unico uomo che poteva essere il principe del suo cuore e desiderò di poter volare via. Ma avevano tre figli e, soprattutto, Ella, sua madre, non avrebbe accettato che la figlia si disonorasse, abbandonando il marito. Così anche lei, Ena, si chiuse in un bozzolo di vuote apparenze, per cui andavano ai ricevimenti o ne davano loro o si facevano fotografare insieme sorridenti, mentre soffocavano entrambi, ogni giorno di più, in una gelida rete di incomprensioni. Invecchiarono così, nell’infelicità. E giunse l’ultima ora di Auro. Allora lui la chiamò accanto a sé e le disse: “Hai salvato la mia vita, mio eterno amore.” Ma era troppo debole per poter parlare e i suoni giunsero inintelligibili all’orecchio di Ena, che non capì. E a sua volta si spense,  quando giunse la sua ora, parlando di lui, Auro, ma nella convinzione che non l’avesse mai veramente amata.
…………                   
In verità, ora vi dico che Alberosa altro non era che una piccola città  nell’emisfero boreale del pianeta Terra e  il Castello era il suo quartiere più povero; che Auro  era l’umile calzolaio di quel quartiere ed Ena fu la  ragazza dal grande cuore  che lo amò… In quanto a me, sono Aren, figlia primogenita di Auro ed Ena, e consegno questa storia al Vento, che per sua grazia voglia portarla oltre i confini del tempo, là dove, in un Castello incantato, vivono felici la principessa Ena e il principe Auro.



CLAUDIO BATTISTA

“Sono nato a Pescara il 9 agosto del 1963. Ho preso il diploma di operatore turistico presso l'istituto alberghiero di Pescara. Per alcuni anni ho lavorato presso uno stabilimento balneare con annesso
ristorante. Poi ho trovato lavoro, in via definitiva, nella magazzini Gabrielli, svolgendo la mia attività di addetto ortofrutta in un supermercato a Pescara. La passione per lo scrivere ha trovato il suo inizio in concomitanza con l'incontro con mia moglie Cinzia, che ha creduto nelle mie capacità e mi ha dato sostegno.  Il primo riconoscimento l'ho avuto nel concorso letterario nazionale "Cavallari di Pizzoli", nel quale il mio racconto "Il libro", si è classificato nella categoria dei segnalati. Ho continuato a scrivere sempre e a partecipare ai concorsi letterari fino a quando ho pubblicato il mio primo libro dal titolo "Il carillon-dieci note d'amore e di morte".


III PREMIO ROMANZO EDITO
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IL CARILLON    

Distesa sul letto Sara fissava il soffitto bianco della sua cameretta. L’orologio digitale sul comodino segnava le due di notte. La casa era silenziosa. Suo padre dormiva già da un pezzo. Sentiva il suo lieve russare attraverso la porta chiusa. Sara avrebbe compiuto dodici anni il giorno dopo. Odiava il giorno del suo compleanno.  Suo padre le aveva suggerito di invitare qualche amica a casa e festeggiare  in loro compagnia. Come avrebbe fatto a dire al padre che non aveva amici da invitare? Come faceva a dirgli che lei era l’unica abitante del suo mondo? Un mondo triste, un mondo privo di luce, un mondo nel quale l’incertezza, i dubbi e le paure crescevano rigogliosi. 
In lontananza sentiva il tuono brontolare. C’era un temporale in avvicinamento. Sara amava i temporali: le grosse nuvole nere che lentamente oscuravano il cielo, l’odore della pioggia che si sentiva nell’aria e lo scrosciare violento dell’acqua. Se ne stava seduta di fronte alla finestra della sua cameretta ad osservare quell’affascinante manifestazione della natura. Rappresentava il suo alibi di ferro. Non poteva certo uscire con quel tempaccio! Per questo amava così tanto l’inverno: trascorreva l’intera giornata a  casa. C’era sempre la scuola però e quella aveva cominciato a odiarla. Non c’era mattina che non si svegliava con un senso d’angoscia. Il solo pensiero di entrare nell’aula, vedere i suoi compagni di classe e sentire i loro sussurri e i loro risolini…avrebbe preferito finire sotto una macchina e farla finita una volta per sempre piuttosto che subire quell’umiliazione. Poi pensava a suo padre. Lui le voleva un bene dell’anima ed era l’unica persona che la vedeva bella. Da quando la madre di Sara era morta, suo padre aveva vissuto solo per lei e lei non poteva essere così egoista da desiderare la morte per non soffrire più. La sua libertà avrebbe distrutto suo padre e questo non poteva permetterlo. Lui la considerava la ragazzina più bella del mondo e glielo diceva con tono convinto. Lo pensava veramente, non lo diceva solo per farla contenta.
Lei non si vedeva bella. Anzi, lei sapeva di non essere bella. Si guardava nello specchio prima di farsi la doccia e quello che vedeva era un corpo privo di interesse. Non c’era nulla in lei che attirava gli sguardi dei ragazzi. E come se non bastasse doveva portare un busto ortopedico per correggere un difetto alla schiena. Che palle! Proprio una vita di merda! Non si sarebbe sentita così male se sua madre fosse stata al suo fianco. Lei avrebbe trovato le parole giuste per farle superare quel brutto momento. Invece sua madre non c’era e Sara era sola. Suo padre non avrebbe mai potuto capire e risolvere i problemi di un’adolescente. Era problemi di donne e lui era un maschio. Per quanto bene le volesse non avrebbe mai potuto capirla. In realtà Sara non era brutta. Neanche così bella da far voltare i ragazzi ma non era neanche brutta da non poterla guardare. Era una ragazza come tutte le altre. Ma il mondo che la circondava l’aveva fatta sentire brutta. Il busto poi aveva fatto vacillare l’ultimo baluardo a guardia della sua autostima e quello che era successo a scuola l’aveva fatto definitivamente crollare.
Sara non era riuscita a raccontare a suo padre quello che le era accaduto all’inizio dell’anno scolastico. Ci aveva provato ma non ci era mai riuscita. Avrebbe dovuto esternargli i suoi sentimenti più intimi e non credeva di riuscire a farlo. Forse la consapevolezza che suo padre non sarebbe stato in grado di dirle le parole che aveva bisogno di sentire con il rischio che peggiorasse la situazione. Aveva scelto il silenzio. Ma quella sorta di segreto che si portava dentro rischiava di farla esplodere come una caldaia sotto pressione. Aveva deciso perciò di raccontarlo al suo diario. Nel silenzio della sua cameretta, rotto solo dal respiro affannoso nel tentativo di trattenere le lacrime,  aveva aperto la pagina del diario e aveva cominciato a scrivere.  
‘Non posso più continuare a portarmi dentro questo segreto. Non posso più continuare a fingere che tutto vada bene quando mio padre mi guarda negli occhi. Non so fino a quando resisterò con i finti sorrisi. Sento che sto per cedere, sento la forza venire meno. Devo raccontare a qualcuno la verità altrimenti scoppierò come un pallone troppo gonfio. Mio padre è un uomo dolcissimo ma non può capire i problemi di un’ adolescente. E mia madre non c’è più. Mi resta solo questo diario e a lui confiderò il mio segreto.
Fausto è un ragazzo che frequenta la terza media. E’ uno strafico e io ho una cotta esagerata per lui. Mancano quattro mesi alla chiusura della scuola e il pensiero che poi non lo rivedrò più mi fa impazzire. Certe volte prego affinché non superi l’esame così potrò vederlo ancora per un anno. Ma di tutto questo lui non sa nulla e non deve sapere nulla. Mi ritroverei nella merda fino al collo se solo sapesse che sono cotta di lui. Ma questo è un segreto che una ragazzina di dodici anni non riesce a trattenere a lungo e a qualcuno sente il bisogno di dirlo. E a chi, se non alla sua migliore amica?
Ne ho parlato con Vanessa, la mia amica del cuore. Ci conosciamo fin da bambine: lo stesso asilo, la stessa scuola elementare e ora la stessa scuola media e la stessa sezione. Non avevo alcun motivo per dubitare della sua lealtà ma mi feci promettere di non farne parola con nessuno. I maschi possono distruggere una ragazzina piuttosto che ammettere una loro debolezza. Fausto non avrebbe mai ammesso di provare simpatia per me, non avrebbe mai ammesso di cercarmi con lo sguardo durante l’ora di ricreazione e di salutarmi con un sorriso prima di rientrare in classe.  Ci sono leggi non scritte nell’ambito scolastico per quanto riguarda il sesso maschile e una di queste ammonisce a non socializzare con il  sesso femminile se non per prenderle in giro. Se tutto questo fosse uscito alla luce del sole per me sarebbe finita. Fausto ne sarebbe uscito pulito ma io…sarei stata presa in giro per tutto l’anno scolastico.
Ed è proprio questo che è successo. Ho riposto male la mia fiducia in Vanessa. Le ho raccontato il mio segreto lungo la strada verso la scuola e nell’ora di ricreazione già lo sapevano tutti. La cosa più grave è che lo ha saputo anche Fausto, prontamente informato dai suoi compagni. Nessuno si lascia scappare una notizia così ghiotta. C’era il rischio di essere allontanato dal gruppo se si teneva nascosta una simile notizia. E nessuno voleva essere allontanato dal gruppo e soprattutto nessuno voleva perdersi quello che sarebbe accaduto dopo.  Le mie compagne cominciarono a prendermi in giro continuando a ripetere in una sorta di cantilena ‘Sara ama Fausto, Sara ama Fausto’. Mi giravano intorno e continuavano a cantilenare quella nenia come delle streghe in una notte di luna piena e io mi sentivo avvampare. Sarei voluta sprofondare sotto terra e quando vidi Fausto il mio cuore si fermò. Avevo paura di perdere i sensi e cadere distesa a terra davanti a tutti loro e questo sarebbe stato ancora peggio ma poi il cuore riprese i suoi battiti. Fausto mi si avvicinò, mi guardò negli occhi con un’ espressione seria e per un attimo pensai che non avrebbe fatto lo stronzo. Guardandolo negli occhi ebbi la certezza che avrebbe confessato la simpatia che aveva per me e tutti avrebbero smesso di prendermi in giro. Poi mi avrebbe preso per mano conducendomi fuori dell’aula accompagnata dagli sguardi attoniti dei nostri compagni e io sarei diventata la ragazza di Fausto e nessuno avrebbe più riso di me.  Ma non andò così. Le labbra di Fausto si distesero e cominciò a ridermi in faccia. Potevo sentire nel suo alito l’odore del salame che aveva appena mangiato. Più lui rideva e più gli altri ridevano e io sentivo un dolore sordo alla base dello stomaco e temetti di vomitare. Mi sentivo male e stavo per andar via quando Fausto mi prese per il polso.
“E così tu hai una cotta per me?!”. Si voltò a guardare i suoi compagni, quelli del suo gruppo, quelli davanti ai quali non avrebbe dovuto sfigurare. “Scommetto che mi sogni tutte le notti, vero? Bè, sappi una cosa robocop,  io non ti sogno mai perché altrimenti mi sveglierei dallo spavento!”. E giù altre risa. Qualcuno gli dava pacche sulla spalla dicendogli che era forte. Io non sentivo più niente. Intorno a me era tutto silenzio e buio e dolore. Ero stata tradita dalla mia migliore amica, deriso dal ragazzo che segretamente avevo nel cuore e presa in giro dalle altre ragazze che  ripetevano in coro ‘brutta, brutta, brutta’. Cominciai a piangere e mi sentii male. Mio padre mi venne a prendere e gli dissi che avevo un forte mal di pancia e lui mi portò a casa. Aveva creduto alla mia bugia come crede ancora oggi ai miei falsi sorrisi.
Ora sono stanca di mentire ma non riesco a dirgli la verità. Gli chiederò di farmi cambiare scuola trovando una scusa plausibile. O forse gli dirò la verità. O forse…deciderò di raggiungere la mamma.
Così tanto dolore….’. 
Sara si addormentò cullata dal ricordo della madre. Dormì profondamente, un sonno senza sogni né incubi. La sveglia suonò puntuale alle sette e Sara aprì gli occhi a fatica. Un altro giorno da affrontare. Quando sarebbe finito quel calvario? Purtroppo non poteva evitarlo e si preparò a un altro flagello psicologico.
Il padre le aveva preparato la colazione. Prima di uscire Sara sfoderò un altro dei suoi falsi sorrisi e nel profondo del suo cuore si chiese quando sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe sorriso al proprio genitore.
Quando rientrò da scuola Sara trovò la casa vuota e silenziosa. Suo padre lavorava per un’impresa edile e stava fuori fino alle cinque del pomeriggio. Sara amava stare sola e quel silenzio le faceva compagnia. Si preparò qualcosa da mangiare e dopo aver sistemato la cucina se ne andò in camera sua. Si distese sul letto, sospirò al soffitto bianco e si voltò a guardare qualcosa sul comodino che aveva attirato la sua attenzione. Un pacchetto avvolto in una carta gialla con cuoricini rosa. Un regalo per lei. Oggi era il suo compleanno e suo padre le aveva lasciato il suo regalo. Gli occhi si riempirono di lacrime e sbatté le palpebre per ricacciarle dentro. Non voleva piangere. Non erano lacrime di commozione. Era il senso di colpa che la dilaniava dentro e di fronte a quella manifestazione d’affetto si sentiva in colpa con quell’uomo straordinario. Tornò a guardare il soffitto. Era bianco, immacolato. Non una macchia né una crepa. Lo fissò intensamente e lentamente tutto intorno a lei divenne bianco e luminoso. Non vi era altro. La sua cameretta era svanita, ingoiata da quella sorta di luce bianca.
Il trillo del telefono la riportò alla realtà. Si alzò dal letto e raggiunse il telefono in salotto.
“Pronto?”.
“Ciao tesoro. Ho chiamato per augurarti buon compleanno”, la salutò gioviale suo padre. Anche lui fingeva, Sara ne era certa. Sara non aveva amici e suo padre lo sapeva. La vedeva sempre dentro casa, nessuno che telefonava per salutarla o per invitarla ad uscire. Per il suo compleanno non aveva organizzato neanche uno straccio di festa e questo non era passato inosservato al padre. Lui sapeva che qualcosa non andava nella vita della figlia e forse aspettava che fosse lei a fare il primo passo.
“Grazie papà, sei gentile”, rispose Sara.
“Che ne dici se stasera andiamo a farci una pizza in quel localino sul lungomare?”. Era una proposta allettante e Sara sentì di nuovo le lacrime bruciarle negli occhi. Suo padre le stava offrendo la festa che lei non aveva organizzato. La pizza sarebbe stata la loro festa e suo padre il suo amico.
“E posso bere anche un po’ di birra?”.
“Puoi fare quello che vuoi tesoro, oggi è la tua festa. Solo mi raccomando, non sbronzarti come l’altra volta che poi cominci a dire le parolacce”.
“Oh papà, non mi sono sbronzata e non ho detto le parolacce”, rispose Sara sorridendo. Suo padre riusciva sempre a strapparle un sorriso.
“Ah perché secondo te dire ‘quando cazzo è buona questa birra’ non è una parolaccia?!”.
Sara arrossì. Le suonava sempre strano sentire suo padre dire le parolacce ma in realtà lui stava solo ricordando alla figlia quello che aveva detto l’ultima volta che aveva bevuto un po’ di birra.  Sara rise insieme al padre nel ricordare quell’episodio e fu una bella sensazione.
“Ci vediamo più tardi tesoro”, la salutò il padre.
“Si, a dopo. E grazie per il regalo, papà. Lo apriremo insieme questa sera”.
Si congedarono così, nell’attesa di godersi la serata in pizzeria.  
Sara guardava il pacchetto che il padre aveva poggiato sulla panchina. Era avvolto in una carta gialla con cuoricini rosa, legato tutto intorno da un nastrino rosa. Il padre la guardava sorridendo, invitandola a prendere il pacchetto e aprirlo. Sara lo prese e lo sollevò. Era piuttosto pesante e questo la incuriosì. Cominciò lentamente a togliere il nastrino rosa. Togliendo la carta fece attenzione a non strapparla. La scatola fece la sua apparizione. Era rossa con un bordino dorato sulla base del coperchio. Sara guardò il padre, sorrise e lentamente sollevò il coperchio. Il suo regalo era avvolto in una carta molto leggera, quasi trasparente. Lo tolse dalla scatola e lo poggiò sulla panchina. Il padre seguiva ogni suo movimento con il sorriso stampato sulle labbra. Sara chiuse gli occhi e cominciò a toccare l’oggetto racchiuso nella carta. Cercava di indovinare cosa poteva essere attraverso il tatto. Sua madre le aveva raccontato di aver preso parte a una festa quand’era ragazza. Aveva partecipato a molte altre feste ma questa in particolare non l’aveva mai dimenticata. Era andata in giro per negozi in cerca di un regalo che poteva piacere alla festeggiata. L’avrebbe conosciuta in quella occasione e voleva fare bella figura. Trovò un fermacapelli a forma di farfalla. Aveva le ali grandi e colorate e alla luce del sole baluginava riflettendo i colori dell’arcobaleno. Già immaginava il momento che l’avrebbe visto. Ma la ragazza che festeggiava il compleanno era cieca. Non avrebbe potuto vedere il suo regalo ma quando lo scartò e lo tenne tra le dita sorrise. ‘E’ bellissimo’, aveva sussurrato rigirandosi la farfalla tra le mani. Come poteva dire che era bellissimo se non riusciva a vederlo? Ma lei lo vedeva attraverso le sue dita, seguendo la forma che l’oggetto le rimandava.  Sara voleva provare la stessa sensazione, riuscire a vedere il suo regalo seguendone i contorni con le dita. Era un oggetto tondo e sembrava diviso in due parti. Da un lato vi era una sorta di manopola e Sara pensò che potesse essere una sveglia ma poi scartò l’idea: in cameretta ne aveva già una sul suo comodino. Afferrò la manopola con le dita e la girò fino a quando questa non si bloccò. L’oggetto cominciò a vibrare e un attimo dopo una dolcissima melodia riempì il silenzio che li circondava. Sara aprì lentamente gli occhi. Uno splendido cavallo alato roteava e batteva le ali al ritmo della melodia. Era un movimento fluido e naturale e sembrava quasi che potesse volare davvero. Era un carillon, il carillon più bello che Sara avesse mai visto. Sentì che stava per piangere. Era un regalo bellissimo e avrebbe voluto che anche la mamma fosse lì con lei per poterlo vedere.
“E’ bellissimo”, sussurrò Sara con la voce rotta dall’emozione. Il padre  si avvicinò e la baciò sulla fronte.
“Sono contento che ti piaccia, ero così in pena. Che ne dici di fare due passi in riva al mare?”. Era una bella serata e Sara accettò. Scesero in spiaggia, togliendosi le scarpe camminando sulla sabbia fresca. Sara stava benissimo. Si sentiva bene. Era felice di stare con suo padre e tutto il resto sembrava appartenere al passato. Neanche il busto riusciva a rovinare quella serata. Il giorno dopo sarebbe ricominciato tutto daccapo ma  quella sera lei si sente una principessa. Passeggiarono in silenzio ascoltando le onde che si infrangevano dolcemente sulla battigia. Si fermarono e il padre le prese il viso tra le mani, sfiorandolo con dolcezza. Poi le prese le mani e le parlò: ”Il carillon che ti ho regalato devi sapere che non è un carillon come gli altri. Possiede un potere speciale, un potere del quale solo un cuore puro può beneficiare”. La guardò fisso negli occhi. “Può realizzare i tuoi desideri, tutti quelli che vorrai, a condizione che vengano da qui”. Le poggiò un dito sul petto, in direzione del cuore.
Sara guardava il dito puntato sul suo cuore. Poteva realizzare i suoi desideri, aveva detto il padre. Sara sorrise. “Papà, il tuo regalo è bellissimo, ma non credo più alle favole e ai principi azzurri. Non è così nella realtà”.
“Bé, questo può farlo. Provaci.” 
Chiusa nella sua cameretta, Sara ripensò a quello che gli aveva detto il padre. Realizzare i desideri. Magari fosse vero! Lei ne aveva tanti, primo fra tutti essere bella. Voleva sentirsi bene tra le persone, non voleva più essere presa in giro per il suo aspetto. Desiderava avere un ragazzo con il quale andare al cinema la domenica. Un ragazzo che la chiamava per dirle che sentiva la sua mancanza. In fondo desiderava solo poter essere felice.  Chiedeva troppo?
Volse lo sguardo verso il carillon. Lo aveva poggiato sul comodino. Può realizzare i miei desideri ha detto papà.
Si mise a sedere sul letto e prese il carillon. E se era vero? Viviamo in un mondo così materiale da non avere più la capacità di sognare e di rincorrere i nostri desideri?
“Se è vero?” mormorò guardando il carillon, “se è vero?”.
Si alzò, poggiò il carillon sulla scrivania e vi si sedette di fronte. Caricò la manopola e un attimo dopo il carillon cominciò a vibrare. La parte superiore si sollevò liberando il cavallo alato. Muoveva le ali con grazia e naturalezza e si ritrovò di nuovo a pensare che da un momento all’altro avrebbe davvero spiccato il volo. La melodia riempì la cameretta. I desideri di un cuore puro. Sulle note di quella melodia Sara chiuse gli occhi e lasciò parlare il suo cuore. Si cullò su quelle note, lasciandosi trasportare dalle ali del cavallo. Librandosi nell’aria con il vento che le scompigliava i capelli vide sua madre. Le veniva incontro con le braccia tese desiderosa di stringere a sé la figlia. Si abbracciarono e la madre le puntò il dito sul petto.
“Il tuo cuore è puro”, mormorò prima di svanire. Sara continuava a volteggiare in groppa al cavallo alato mentre le parole della madre le riecheggiavano nella testa. Il cavallo cominciò lentamente a planare in ampi cerchi concentrici, fino a toccare terra.  
La sveglia suonò come ogni mattina alle sette in punto. Sara aprì gli occhi sul soffitto bianco. Era stato solo un sogno allora? Il cavallo alato e sua madre? Cercò sul comodino il carillon ma non lo trovò. Guardò la scrivania. Era lì sopra, dove lo aveva poggiato la sera prima. Si sfiorò il petto con un dito. Suo padre l’aveva toccata lì e anche sua madre.’Un cuore puro’, lo avevano ripetuto entrambi. Si sentiva diversa, non avrebbe saputo dire perché, ma si sentiva diversa. Qualcosa di indefinibile, di impalpabile. Si sentiva forte e vitale. Si alzò e si avvicinò alla scrivania. Sfiorò con un dito il carillon. Se davvero avesse esaudito i suoi desideri? Se davvero le cose da quel giorno sarebbero migliorate?   D’un tratto il carillon prese a suonare. Il cavallo alato uscì in una profusione di luci e colori che riempì la stanza. Le sue ali si muovevano sinuose  e prese a volteggiare all’interno della camera. Sara era estasiata, attraversata da un fremito di gioia che le accapponò la pelle. Un caleidoscopio di colori aveva invaso la sua camera, colorando le pareti. Con il cuore in gola Sara si avvicinò al cavallo e lo sfiorò con un dito. Il cavallo si fermò e la luce che emanava si intensificò e come in un sogno Sara vide svanire tutto. Il soffitto bianco divenne un bellissimo cielo azzurro e l’aria profumata e fresca. Sara chiuse gli occhi, godendo di quel momento magico e quando li riaprì era di nuovo nella sua cameretta. Guardò il carillon. Suo padre aveva ragione. Era successo qualcosa di magico ed era successo a lei. Si avvicinò al comodino e prese lo specchio dal cassetto. Il cuore le batteva forte nel petto. Sollevò lo specchio all’altezza del  viso e lentamente vi guardò dentro. Vi erano due occhi dal taglio leggermente orientale, un naso delicato poggiato su labbra carnose ancora adolescenti. I capelli castani le sfioravano le spalle.  Sorrise mostrando una fila di denti bianchi.  Poggiò lo specchio sul letto e andò in bagno: lì la superficie era più grande e poteva guardarsi meglio.
“Sei bella”, mormorò il  padre guardandola. “Sei bella”.
Sara sorrise. Continuava a guardarsi nello specchio. Le piaceva quello che vedeva.
“Sono bella”, sussurrò, “sono bella”. Lacrime di gioia le solcavano il viso. Si abbracciarono e il padre pianse con lei, felice del ritorno di sua figlia.  
I sottili steli d’erba che circondano la lapide sono ancora intrisi d’acqua, residui della pioggia battente di quella fredda mattina di gennaio. Lo strascico di quella nera carovana di nuvole sta lasciando di nuovo spazio al sole. I suoi raggi accarezzano i sottili steli d’erba illuminandoli di una luce magica. A Sara ricordano le piccole luci che insieme al padre disponevano sull’albero di Natale: frammenti di vita che Sara non considera ricordi poiché sono ancora vivi e presenti nella sua vita.  In quel freddo mattino di gennaio che il sole non riesce ancora a riscaldare, Sara s’inginocchia davanti alla lapide ad osservare il volto sorridente del padre ritratto in una vecchia foto. Sfiorandola con un dito, il ricordo del giorno più bello della sua vita le invade la testa e il cuore. Sara avrebbe custodito per sempre quel ricordo. Aveva riacquistato la fiducia in se stessa quel giorno. Il mattino dopo aveva indossato il busto senza imbarazzo. Doveva portarlo per il suo bene e poi non era per tutta la vita. Solo un altro anno ancora e poi sarebbe finita. Entrando in classe,  i suoi compagni avevano avvertito che c’era qualcosa di diverso in lei: nessuno la prese in giro quel giorno.
Sara volge lo sguardo in direzione del parcheggio, nascosto dall’enorme parete che offre posto a centinaia di loculi. Fausto, suo marito, è in auto con i loro due figli, seduti comodamente a cantare canzonette aspettando il suo ritorno. Sara non aveva voluto portarle con sé: le riteneva ancora troppo piccole per  un cimitero.  Torna con lo sguardo sulla foto del padre. Quanto di quello che ha oggi lo deve a lui? Forse tutto: il matrimonio, i suoi bambini, la gioia di vivere. Tutto.
Suo padre compiva sessantatre anni in quella foto. Sorrideva felice e così Sara lo vede nella sua nuova vita: felice e sorridente accanto alla moglie ritrovata. Sara sorride mentre una lacrima le scivola giù. Comincia a piangere, un pianto di gratitudine che le sgorga dal cuore.
Era grata al padre per aver inventato la storia del carillon e del potere magico che racchiudeva. Il potere di esaudire i desideri e Sara aveva creduto ad ogni sua parola. Era stato l’appiglio al quale aggrapparsi per non sprofondare negli abissi più neri della vita. Sara sa benissimo che il carillon non possiede alcun potere. Sfiora di nuovo la foto del padre e un refolo di vento le accarezza il viso. E’ silenzioso il cimitero quel giorno e anche le fronde degli alberi scosse dal vento sussurrano per non turbare quel senso di pace.
Sara estrae dalla borsa il carillon. Ne sfiora con le dita la deliziosa silhouette e ruotando la piccola impugnatura gli dà la carica. Lo poggia sulla lapide, sotto la foto del padre. Il carillon comincia a vibrare e lentamente si apre, liberando il cavallo alato sulle note di una dolce melodia che s’insinua tra le lapidi silenziose. Sara si alza, saluta il padre accarezzando la sua foto e si allontana. Il carillon la segue con la sua melodia.  Le note si disperdono nell’aria e quando Sara le sente ormai lontane si volta.
“Grazie papà”, sussurra inviandogli un bacio con la punta delle dita.



ALESSANDRO BERARDELLI

(Roma): nato a Roma nel ‘46, laureato in Economia e Commercio, imprenditore ramo servizi, con due figli e tre nipoti. Ha ricevuto i seguenti riconoscimenti: Finalista al Concorso Giri di parole 2009 (Racconto “2008 finalmente è finita” pubblicato nell’Antologia “Parto, vieni via con me” Navarra Ed.); Finalista al Festivalgiallomare 2008 (“Delitto a Porto S.Giorgio” pubblicato con gli altri quattro racconti finalisti dagli organizzatori su “Incipit”); Secondo classificato al Premio Letterario “La città dei Sassi” 2009 Sezione Narrativa (per la raccolta di racconti “Pericle e altri racconti”); Premio della critica al concorso Hypnos 2009 (racconto “Ero il migliore”, stesso racconto con titolo cambiato di “2008 finalmente è finita”). Inoltre, la Rivista letteraria Progetto Babele ha pubblicato sul sito i seguenti racconti: “Cyberspazio”, “La principessa bambina”, “Compleanno”, “2008, finalmente è finita”.

V PREMIO FAVOLA con “CYBERSPAZIO”
IV PREMIO RACCONTO GIALLO “NAUSEA”
II PREMIO RACCONTO
Racconto di Natale

Con circospezione l’uomo sbirciò tra le fessure delle assi che lui stesso aveva malamente inchiodato sull’unica finestra di quella casupola diroccata. La sua residenza stabile da qualche anno, ormai. 
Stava rientrando dalla sola osteria che fosse rimasta aperta fino all’ora di cena. Quella sera tutti avevano gran fretta di rientrare a casa: era la vigilia di Natale. L’uomo era stato fortunato: la moglie del Gianni, l’oste, si era impietosita e accompagnandolo alla porta gli aveva messo in mano una bottiglia di quello buono e una pagnotta con burro e mortadella: “Grazie, Rosella, che Dio ti benedica! Buon Natale a voi e ai bambini”. A una cinquantina di metri dalla sua casupola aveva sentito rumori e intravisto una fioca luce di candela, e allora, allarmato, aveva voluto vedere, senza essere visto, chi avesse invaso la sua reggia. Erano in due, un uomo e una donna, e da come erano conciati, due barboni come lui. In silenzio passò dalla finestra alla porta, altrettanto sconnessa. La spalancò di botto facendo entrare un soffio d’aria gelida che rischiò di far spegnere la fiammella sulla quale erano stese le mani di quei derelitti. I due, seduti sul pagliericcio, si voltarono di scatto, ritraendosi un poco, timorosi come animali braccati, abituati com’erano a doversi difendere dalle intemperie e dalle insidie del mondo. A quel punto l’uomo occupava quasi tutto il vano della porta e il tremolio della fiammella proiettava dietro di lui un’ombra che lo faceva sembrare più imponente di quanto fosse veramente. Dapprima l’uomo fissò severo gli altri due sciagurati, poi si illuminò con un sorriso sbilenco che quelli potevano a malapena intravvedere. Impossibile! Dimitri e Irena, dopo tanti anni, ancora insieme e ancora randagi. Come avevano fatto a trovarlo? “Chi siete voi? Che ci fate nella mia casa? Come vi siete permessi?” L’Indiano, con questo nome era conosciuto tra i barboni di tutta la provincia, camuffò la voce facendola più profonda e burbera di quanto fosse normalmente.

L’Indiano era originario di Abbiategrasso, come lui sosteneva, presumendo che la madre non abitasse poi troppo lontana dall’orfanotrofio davanti al quale lei l’aveva lasciato, nato da pochi giorni, all’alba di una splendida giornata di primavera di circa cinquant’anni prima. Era stato un orfano modello e, al compimento dei diciotto anni, aveva salutato non senza commozione quelli e quelle che fino a quel momento erano stati la sua famiglia. Appassionato fin da bambino di meccanica e motori, con la raccomandazione della direttrice dell’orfanotrofio, era stato assunto, non appena l’età l’aveva consentito, nell’officina autorizzata-Fiat di zona. Non gli ci era voluto molto per diventare l’aiutante fidato del titolare: come lui non guardava mai l’orologio e come lui, finché i motori non giravano alla perfezione, non riponeva gli attrezzi. Più di una volta si erano seduti uno accanto all’altro su di una panca ad ascoltare compiaciuti e in compunto silenzio il motore dell’auto appena riparata che girava al minimo. E ogni anno a Imola e a Monza per il Gran Premio! L’Indiano non aveva mai molta voglia di sballare come facevano i suoi coetanei il sabato sera. Era troppo stanco dopo una settimana di lavoro e poi gli piaceva tanto quella brava ragazza che lavorava all’accettazione dell’officina. Lidia si chiamava e i genitori non permettevano che facesse tardi la sera. Però dopo occhiate malandrine, patetiche scuse per attaccar discorso in ufficio da lei, nei pochi minuti di pausa che lui si prendeva, e tre o quattro tentativi andati a vuoto di accompagnarla a casa dopo l’orario di lavoro, finalmente Lidia aveva accettato la corte di Nicola. Era questo il suo nome a quel tempo.

Si fidanzarono in casa dopo pochi mesi e poiché entrambi avevano di che vivere decisero di sposarsi il più presto possibile. E presto nacque loro figlio Giacomo, stesso nome del papà di lei, che ci teneva. Insomma, come si dice,  una famigliola felice. E lo fu fino a quel tragico giorno in cui la Panda di Nicola finì nel Naviglio: guidava Lidia e accanto a lei c’era Giacomo. Tornavano dall’asilo. Lui volle assistere al recupero della carcassa, pianse, tornò a casa, raccolse un paio di cose e sparì. Lo rividero nei paraggi sei anni dopo: aveva indosso gli stessi abiti ormai al limite dell’esistenza, un cappottone e una grande crocchia in cui raccoglieva i lunghi capelli. A chi non l’aveva conosciuto prima disse di chiamarlo Indiano, che così l’avevano soprannominato i suoi amici da quando aveva avvoltolato a turbante i suoi capelli. Per quei pochi che sapevano chi fosse era sempre “il povero Nicola”. Aveva un sorriso per tutti e tutti gli volevano bene. Dopo quella sparizione di sei anni non si era più allontanato molto dalla zona e aveva facilmente ottenuto dal padrone del fondo il permesso di dormire in quella catapecchia abbandonata che man mano aveva “arredato” con le poche cose che gli erano indispensabili. Il figlio del suo antico datore di lavoro, che aveva rilevato l’officina alla morte del padre, aveva fatto carte false per convincere Nicola a riprendere il lavoro, ché aveva bisogno di un “artista” come lui. Ma l’Indiano aveva detto sempre di no. Era soddisfatto così e non voleva nient’altro di meglio che starsene per conto suo in quella casupola. Casomai quando le notti si facevano troppo fredde, solitamente nei primi due mesi dell’anno, lasciava la baracca per la sala d’aspetto della stazione. Ora eravamo in dicembre e le gelate avevano appena iniziato a comparire.

“Abbiamo freddo e non siamo del posto. Non sapremmo neanche dove ripararci. E’ la Vigilia. Sii buono facci stare qui per stanotte.” L’Indiano capì subito che non l’avevano riconosciuto. D’altronde era passato talmente tanto tempo! Tanto tempo che di primo acchito l’aver riconosciuto, lui sì, in quei due miserabili i compagni dei suoi primi anni di vagabondaggio, gli aveva fatto dimenticare quanto fossero infidi. A suo tempo li aveva soprannominati il Gatto e la Volpe. La storia di Dimitri e Irena era stata e, a quanto poteva vedere l’Indiano, era ancora una grande storia d’amore. Irena, slovacca di Bratislava e eccellente studentessa al conservatorio, aveva conosciuto Dimitri, ucraino di Kiev, durante un viaggio premio a Mosca. Si era a metà degli anni 80. Il pezzo forte della gita sarebbe dovuto essere una matinée concertistica al Teatro di Mosca, organizzata proprio per gli alunni dei vari conservatori dei paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Irena era stata fortunatissima nell’assegnazione del posto in platea: alla sua scuola furono assegnate le prime file a sinistra e alle ragazze le prime due. Irena finì in prima. Dimitri, nel suo impeccabile frac, suonava il violino, in seconda schiera, molto vicino alla ribalta. Fu necessario che si riaccendessero le luci in sala alla fine della Sesta di Beethoven perché Dimitri, voltandosi verso la platea per ringraziare con un cenno del capo per gli applausi, individuasse quella ragazza dal viso angelico che, lui non lo sapeva, lo aveva fissato durante tutta l’esecuzione. Lei l’aveva trovato bellissimo e ispirato e durante la Pastorale si era immaginata romanticamente di essere trasportata con lui in un bosco incantato. E ora lei gli sorrideva e aveva occhi soltanto per lui. Alla fine del concerto ragazzi e orchestrali ebbero la possibilità di incontrarsi nel foyer. Dimitri e Irena si cercarono e si trovarono. Dopo pochi minuti non dico che si giurarono eterno amore, ma poco ci mancò. Iniziò in quel modo una storia che, a quanto poteva arguire l’Indiano, durava ancora intatta da allora. Per qualche anno poterono incontrarsi non più di tre o quattro volte, ma in compenso diedero molto da fare ai servizi postali di Ucraina e Slovacchia.  Poi inconsapevoli che ben presto le cose sarebbero cambiate, all’inizio dell’ 89 Dimitri mise in valigia le sue poche carabattole e partì alla volta di Bratislava. Al suo arrivo Irena era pronta. Bastò passare la ormai facile frontiera austriaca, perché i due si sentissero finalmente liberi di stare insieme per sempre. Il nord Italia fu la loro destinazione definitiva. Tentarono entrambi di trovar lavoro in qualche vera orchestra, ma si dovettero adattare a sporadiche scritture in orchestrine da ballo. Avevano preso alloggio in una modestissima pensioncina fuori Milano e arrotondavano con poche lezioni private a domicilio, lui di qualsiasi strumento - era bravissimo con tutti -, lei di violino. Erano tempi duri ma erano innamorati e la fiducia nel futuro sempre forte. Ma nel giro di un paio d’anni la delusione per una vita che avevano immaginata molto diversa spinse entrambi a tentare di alleviarne il peso sempre più spesso con l’alcool. Il mitico “Occidente” fu per loro soltanto incomprensibile e spietato. Fu l’inizio di una discesa irrefrenabile su un piano inclinato: sempre più alcool, sempre meno scritture e lezioni.
Dopo qualche anno li si sarebbe potuti incontrare nei vagoni della metropolitana di Milano: Dimitri, vestito con il suo ormai impresentabile frac, che con aria ispirata suonava al violino motivi di facile riconoscibilità; Irena che, sfiorita nel fisico e nel vestiario, se lo guardava sognante e immutabilmente innamorata, mentre con lo stesso sguardo invitava i distratti passeggeri ad apprezzare con quale bravura si esibisse il suo uomo. In mano un gualcito bicchiere di carta per le offerte. Quando per  pagare la pensione e comprarsi l’ennesima bottiglia di pessimo vino, furono costretti a vendersi anche i loro strumenti musicali, non rimase loro che la vita di strada. E in strada li aveva conosciuti l’Indiano: ancora come una sola persona, ma diffidenti di tutto e di tutti. Erano passati quindici anni dal loro ultimo incontro, e si sa quindici anni di quella vita lasciano segni pesantissimi. Dimitri aveva ora quasi cinquantacinque anni, ne dimostrava un’infinità e quel suo incontenibile tremolio delle mani aggravava decisamente l’impressione. Se accanto a lui non fosse rimasta Irena, con la sua dedizione, lui sarebbe già morto. Irena di anni ne aveva poco più di quaranta e anche lei era irrimediabilmente segnata dalla vita che faceva: gonfia, sporca e senza denti, ma con ancora negli occhi quello sguardo sognante che si portava appresso dall’adolescenza.

“Eccovi qua, il Gatto e la Volpe! Sempre insieme, eh!”  Soltanto l’Indiano era solito, al tempo, chiamarli in quel modo. Dimitri e Irena ebbero un sussulto. Ricordavano bene, loro, che l’Indiano non aveva molte ragioni per accoglierli amichevolmente nella sua catapecchia: in quello che era stato il loro ultimo incontro, molti anni prima, si erano accapigliati di brutto per una bottiglia di buon vino che, chissà come, lui aveva rimediato. Al culmine della “discussione” il Gatto e la Volpe, già ubriachi per loro conto, si erano avventati sull’Indiano e l’avevano riempito di botte. Lui era svenuto sotto i loro colpi e quando si era risvegliato pesto e dolorante aveva dovuto costatare che oltre a Dimitri e Irena erano spariti la bottiglia di vino, il carrello da supermercato in cui lui trasportava le sue poche cose, una coperta e quei pochi spiccioli che lui credeva ben nascosti in una tasca interna del cappottone che portava sempre indosso “Veh! Indiano, mica ce l’avrai ancora con noi,eh!” “Ma no! E’ passato tanto tempo, e poi voi siete conciati da far schifo peggio di me. Non è che avete fatto molta strada con quel carrello!” E giù una risata grassa e roca allo stesso tempo. “Non è che se divido con voi questo vino e questa pagnotta, voi per prendervi tutto mi riempite di botte ancora una volta eh?” Altra risata. “Sei un grande, Indiano, non mi sarei mai potuta aspettare, da uno che avevamo fottuto in quel modo, tanta generosità. E’ perché è Natale, è vero?” “Se volete diciamo che sì, è perché è Natale e perché mi sento solo. E perché probabilmente voi non siete peggio di me. Noi tutti siamo anime perse. Cosa volete che contino un po’ di botte di tanti anni fa.”
L’Indiano raccattò un po’ di legna e carbonella  sparse nella catapecchia e si dette da fare per accendere il fuoco in ciò che rimaneva di una  vecchia stufa di ghisa. Poi si cavò di tasca la pagnotta, la divise in tre con il suo coltello a serramanico e stappò la bottiglia di vino. “Dio ti benedica, Indiano, ne avevamo proprio bisogno, soprattutto del vino. Stai tranquillo stavolta lo berremo insieme, senza scherzi. Vedi, il mio Dimitri è conciato proprio per le feste, trema tutto e non c’è modo di portarlo in ospedale. Si ostina a dire che vuole morire per strada. Ma se muore lui, poi io che faccio? Avremmo proprio bisogno di una casa come questa. Non è vero Dimitri?”
Il vecchio emise un grugnito di assenso. L’Indiano si mise in allarme: non sarà mai che questi due vogliono chiedermi di tenerli con me, vero? “Piacerebbe anche a me restare in questa casa, ma sto qui da un paio di giorni e mi aspetto che un giorno o l’altro qualcuno mi dica di sloggiare.” “Nessuno sa che sei qui?” Per la prima volta era stato Dimitri a parlare. “No, nessuno. Sapete, da queste parti quelli come noi non è che siano visti troppo bene. Questo vino e la pagnotta me l’hanno data due di passaggio, impietositi dalle mie condizioni. Ma qui neanche il parroco mi da mai niente.” Perdonami Don Giuseppe per le bugie che sto dicendo!

Adesso le campane della chiesa si sentivano distintamente. La nebbia si era diradata e la luna quasi piena illuminava i campi intorno e la prima gelata dell’anno. In lontananza gli schiamazzi dei bambini eccitati dalla festa. Dentro la casupola la stufa aveva riscaldato un po’ i tre derelitti che ora sembravano dormire sazi e beati.
In russo:
“Sh!, Irena, hai pensato anche tu quello che ho pensato io? Ho assoluto bisogno di restare in questa casa. Se continuiamo ad andare in giro, con questo freddo, io non passo l’inverno. Sono ridotto troppo male.” “Parla piano che se no l’Indiano si sveglia! Si amore mio, l’ho pensato anche io. Hai sentito, lui non ci vuole. Quelle scuse della gente cattiva erano patetiche, come se noi non conoscessimo come lui la zona.” “Comunque, che nessuno sappia che lui è qui è plausibile. In fondo è uno sbandato come noi. Un giorno qui un giorno là…” “Dobbiamo disfarcene, Dimitri, per il tuo bene. Nessuno saprà  niente e diventeremo noi i padroni di casa. Ma come facciamo?”
“Vai fuori Irena, trova un sasso bello grosso…”

“Madonna, come pesa. Irena, non ce la faremo mai ad arrivare al Naviglio.” “Forza Dimitri ci mancano ancora pochi metri. Poi potremo tornare al calduccio.” “Non ce la faccio, amore adorato. Mi sento male. E’ come se quel masso con cui l’abbiamo colpito ce l’avessi ora sul petto. Sudo tutto… sento un gran caldo… ho bisogno di fermarmi… Molliamolo un attimo e riposiamoci.”
“Ma sei matto, dobbiamo fare in fretta. Potrebbe passare qualcuno. Dobbiamo soltanto attraversare la provinciale. Un ultimo sforzo, dai. Poi sarà tutto finito.”

La mattina di Natale, poco dopo l’alba, la squadra che si affrettava a entrare in paese per effettuare la pulizia del centro cittadino, trovò sul greto del Naviglio il Gatto ormai stecchito, la Volpe che piangeva in silenzio riversa sul corpo del suo amato e l’Indiano, con la testa coperta di sangue raggrumato, ma vivo.

Nausea

Maddalena si sveglia di soprassalto. Ha avuto un incubo, ma ciò che la fa star peggio è la nausea che l’ha colta non appena si è tirata su. Cerca di resistere, ma quando torna a sdraiarsi capisce che deve precipitarsi in bagno per vomitare. Si accuccia sulla tazza del water. Appena in tempo.

Ora Maddalena si alza, si appoggia al lavandino e pian piano tenta di rientrare nello spazio e nel tempo reale. E’ l’alba. Lo capisce dalla tenue lama di luce che penetra dalla serranda. Richiude subito gli occhi. Anche quel modesto chiarore la infastidisce. Ha un gran mal di testa ed è tutta sudata. Deve essere l’effetto di quell’incubo che l’ha svegliata e di cui ormai il ricordo, nonostante i suoi tentativi, è rapidamente svanito. L’angoscia è ciò che le rimane addosso. Maddalena è nuda e si infila sotto la doccia. Compie automaticamente tutti i gesti usuali.  Cavolo che botte alle tempie!  Lo sapeva, era l’effetto di tutto quel mix di alcool, pasticche e coca che si ostinava ad ingurgitare le sere in cui non aveva nessuna voglia di continuare a fare la vita.  A tentoni, che di accendere la luce non se ne parlava neanche, Maddalena va in cucina e ingoia un paio di aspirine. Quindi con circospezione, sempre al buio, torna a sdraiarsi sul letto. Cerca i suoi occhiali sul comodino per mettere a fuoco il display della sveglietta digitale, ma non li trova. Chissene frega! In attesa che le aspirine facciano il loro effetto facendole riprendere il sonno, Maddalena cerca di capire e soprattutto di ricordare. Piega in due il cuscino in modo da tenere la testa sollevata. La nausea è sempre in agguato.

Sì, era stata rimorchiata da quello che era sembrato il solito provinciale in cerca di emozioni forti. Puzzava di fumo, lui e la macchina, questo lo ricorda distintamente. Lei aveva proposto una sveltina in auto, ma lui aveva insistito per andare da lei. Va bene. A casa mia, allora. Però sappi che non sono disposta a tutto. Al superstore vicino casa, aperto tutta la notte, prega il bassetto di comprarle le sue caramelle alla menta, che le ha finite. Lui, sbuffando d’impazienza, va e torna in un attimo.
Sono pressappoco le due di notte quando Maddalena apre la porta di casa con il cliente appresso.
Sii gentile, ti prego, spegni la sigaretta, preferisco che qui dentro non si fumi. Il portacenere è sul comodino. Ti piace? Carino, no? L’ho fregato in un negozio di souvenirs in Messico. Dio come pesava in borsa, quando mi sono allontanata di fretta!

Maddalena ha passato tutta la serata al night dove lavora, bevendo e tirando su un’infinità di coca e ha spupazzato tre o quattro clienti non intenzionati a concludere al meglio la serata. D’altronde, era così, non sempre raccoglieva il massimo degli entusiasmi. Lei era per soli buongustai. Il locale stava quasi per chiudere per mancanza di clienti, proprio una serata moscia, quando ti entra questo che si guarda intorno, la vede e la punta direttamente. Mi manda da te Giovanni, mi ha raccontato mirabilie. Maddalena conosce bene il suo mestiere e annuisce con finto entusiasmo. Proprio al momento dell’approccio torna a sentire impellente il bisogno di un’altra striscia, per cui: Scusami un attimo, torno subito, non ti muovere che mi piaci, sai. Qualcosa la disturba. Corre in bagno e ingoia anche tre o quattro pasticche, si appoggia al lavandino, si guarda allo specchio e la faccia che vede, la sua, non le piace proprio. Ma certo, è stato l’accento di quel buzzurro che l’ha stranita, ma come ammettere che il Giovanni citato potesse essere quel Giovanni, il SUO Giovanni. Si dà una sciacquata, ritocca il trucco, respira forte ed è pronta per fare il suo rientro nel locale: come una dea. Dieci minuti di manfrina, altro alcool - che anche il locale deve avere il suo ritorno - poi: Andiamo? Salgono nell’auto del rappresentante, questo aveva detto lui di essere, e Maddalena, stanca da morire, cerca di concludere al volo. Ma lui la blocca e le ripete che Giovanni gli ha raccomandato di portarsela a letto. Non può essere. Lui a nessuno avrebbe parlato di me in questo modo. Ne sono certa.

La testa ora le batte meno intensamente e la veglia si stempera.

Ma sì! Lui si è spogliato per primo e ha voluto  che lei si esibisse in uno strip con tutti i crismi. Era l’ultima cosa che ci voleva. Dio come era strafatta! Via, uno per uno, i pochi indumenti, con ricercata lentezza. Fino a quella completa nudità che tanto eccita i suoi clienti: Maddalena è un trans ed è proprio quel di più che manda in visibilio quegli stronzi. Sì, stronzi, perché lei non vorrebbe essere quello che è. Lei è donna dentro e vorrebbe esserlo anche fuori.

Ora il gong che le risuona in testa si è calmato e Maddalena stende il cuscino. Solo qualche istante e le riprende la nausea. Deve ritirarsi su. Ripete l’operazione di piegamento e si rassegna alla posizione supina.

…Il buzzurro non la smetteva mai e lei non vedeva l’ora di mandarlo via. Lei il suo lavoro l’aveva fatto ad arte, ma quello sembrava aver ingurgitato almeno due Viagra 100…

Il respiro di Maddalena si è fatto regolare, soltanto un po’ accelerato.

Dai, basta, sono troppo stanca… Senti, non mi importa dei soldi, vattene… Mi sento anche male…
Eh no! Ho pagato e poi voglio andare fino in fondo.

Quello stronzo voleva prendersi anche quello che non era nei patti e che Maddalena non concede a pagamento. Mai passiva!

Cerco di divincolarmi, lottiamo. Lui è forte e con certe mani che sembrano magli.

Era stata innamorata, pazzamente innamorata. Giovanni era stato l’unico. Gli altri soltanto lavoro.
L’aveva incontrato un anno prima a quella ultima festa della sua vacanza in Sicilia, ad Agrigento.
Lui non capì, a quella festa, in che razza di guaio si sarebbe cacciato. Le chiese di restare con lui per tutta la settimana successiva. Lei tentennò tremando al pensiero di cosa sarebbe successo al momento della scoperta della sua condizione. Era abituata ai voltafaccia, anche violenti,  ma con Giovanni sentiva che un rifiuto l’avrebbe ferita. Accompagnami in albergo, Maddalena gli aveva detto, poi vedremo. Lui una certa sorpresa non poté nasconderla quando lei, dicendogli quanto doveva, si ritrasse alle sue mani che tentavano di sfilarle i pantaloni. Lui non volle interrompere il gioco.  Partirono la mattina successiva per un giro sulla costa. Furono sette giorni di vera passione. E anche d’amore. Era dolce e premuroso con lei. A Maddalena disturbavano soltanto un po’ i suoi modi bruschi e prepotenti con le altre persone. Con lei lo fu una volta soltanto, quando rispose alla sua domanda su cosa fossero quei cinque segni verdi, quasi invisibili, tatuati a stella tra il pollice e l’indice della mano destra. Ti consiglio di far finta che non li hai mai visti, fu la risposta di Giovanni, con il tono di chi sta dando non un consiglio, ma un ordine. Alla fine della settimana lui l’accompagnò all’aeroporto a Palermo e a Maddalena non rimase che sperare fossero veri i giuramenti di Giovanni di raggiungerla il più presto possibile ovunque lei fosse. Nei due giorni seguenti si scambiarono decine di sms infuocati, poi improvvisamente Giovanni non rispose. Non lo sentì e non lo rivide più, ma non lo ha tradito mai.

Sta per fiaccare la mia resistenza… sono troppo debole, ma non voglio dargliela vinta… non era nei patti…E poi ti pare proprio che posso cedere a uno mandato da Giovanni? Non me lo sarei aspettato che potesse farmi questo. Io l’ho amato e a lui cosa è rimasto? Che indirizza a me i suoi amici in cerca di novità. Mi viene da vomitare e non per l’alcool. Lo stronzo sembra avere cento mani, e cento cazzi. Basta non voglio. Ti ho detto basta! Ma lui non mi sente.  Tenta di colpirlo dove fa molto male, ma lui si ritrae in tempo e la immobilizza. Maddalena smette di lottare. Lui ansima ma è trionfante: è sopra di lei supina, le ha bloccato le mani ai lati della testa.

Ha cercato di baciarmi, e io ho girato il viso a sinistra e l’ho vista, la stessa stella tatuata che aveva Giovanni. Lui se ne accorge, stringe più forte e il suo sguardo da infoiato diventa gelido.

Che fine ha fatto Giovanni? E’ tanto tempo che non lo sento, come ha saputo che lavoravo qui?
E Maddalena nel porre e porsi queste domande si rende conto che trovarla deve essere stato molto difficile. Siamo a più di mille chilometri a nord di Agrigento e lei non ha lasciato recapiti quando si è decisa a cambiare città.

Giovanni ha commesso un errore in quella settimana di un anno fa e per questo lo abbiamo allontanato. Questa è l’unica risposta che ottengo e lui quando dice “allontanato” fa un ghigno che avrei definito sardonico se un tipo di quel genere potesse essere capace di tale finezza d’espressione.

Maddalena ora sa chi era Giovanni, il tatuaggio diventa stidda e in un attimo capisce che l’errore è lei. Lui era un capo e a nessuno tra loro è permesso uno sgarro del genere. Le loro leggi non si infrangono e mai Giovanni avrebbe dovuto accompagnarsi ad uno come lui. Questo non è permesso e per un capo, e per lei, la pena è una sola. La lotta con il bassetto non è per il sesso, ma per la vita.

Dai, chi se ne frega di Giovanni, hai vinto, non posso più resisterti, sei un vero macho, sai! Lui rimane spiazzato, solo per un attimo. Ma basta. Sono sul bordo del lettone, Maddalena si divincola, si gira di scatto e agguanta il portacenere di pietra che ha sul comodino.

Maddalena ricomincia a sudare, è in preda allo stesso incubo che l’aveva svegliata un’ora prima: ora è lei a cavalcioni sul letto e colpisce e colpisce finché la faccia dello stronzo non è ridotta una poltiglia. Stavolta non lascia svanire la sequenza.

Ma dove sono finiti gli occhiali? Si tira su di botto, poi si ristende lentamente per allontanare la nausea.

Nel buio, con circospezione, allunga la mano sulla parte destra del letto e sente che il lenzuolo è umido. Non ha il coraggio di accendere la luce. E’ terrorizzata. Cazzo, l’ho proprio ammazzato.
Le prende lo sconforto. E mo’ che faccio? Glielo avevo detto a quel verme che non volevo… che stavo male… Ma ero stata io l’errore di Giovanni! Non c’era scelta: la lotta non poteva essere che all’ultimo sangue.

Il cuore torna a batterle a mille. Se almeno non fossimo a casa mia una scappatoia avrei potuto trovarla. Ma qui non ho scampo… E se buttassi il cadavere dalla finestra? Siamo al quinto piano, chi si accorgerebbe che l’ho ammazzato io? Che imbecille sono stata. Forse era qui soltanto per il sesso, non mi avrebbe ucciso. Fuga, è la sola cosa sensata che le venga in testa.

Finalmente Maddalena si calma un po’. Le viene da piangere e si mette le mani sul viso. Riecco la nausea, ma deve sbrigarsi. La borsa, quattro stracci e via, la frontiera è vicina. Mette il piede a terra e pesta gli occhiali.

Cyberspazio

“Bravo!” Era la terza volta che una voce elettronica mi incoraggiava ad andare avanti.

Nel vano tentativo di sopportare i prodromi di un raffreddore che stava di ora in ora prendendo forza come un ciclone caraibico, ho cominciato a gironzolare per casa come uno zombie in cerca di nonsapevoneanch’io cosa. Entro nella camera di mio figlio. I libri di scuola allineati perfettamente sullo scaffale…la sua raccolta di dischetti per la play station… Belli! Quasi in trance, metto in funzione il trabiccolo e inizio a giocare, giocare, giocare, giocare. Per ore apro porte, elimino avversari, salgo e scendo di livello, mi uccidono e rinasco, solco mari e esploro nuovi mondi. Nelle poche pause che mi concedo, misuro la febbre: 38 alle quattro, 39 alle cinque: altra aspirina. 37 e mezzo alle sei, 39 alle sette, 40 alle otto: tachipirina. Stremato, sudato, e con l’energumeno che ora non si accontenta più di suonare il gong che ho in testa, ma sta tentando di conficcarmi un chiodo tra parietale e frontale, mi alzo barcollante. Non provo neanche a raggiungere il mio di letto: mi butto subito su quello di mio figlio e chiudo gli occhi.

Sole accecante. Al fondo della valle la diligenza fugge. Gli Indiani le sono al fianco vocianti. Ringo Kidd spara all’impazzata, Doc Boone  è ubriaco e  Dallas perduta e bellissima.
Ringo finisce le cartucce. Si butta sul cavallo di destra. Strappona la redine di lato. Gli indiani di fianco sono travolti e la diligenza  è  a ridosso di un dirupo. Si ferma. Geronimo organizza l’attacco: è quello decisivo.

Uno strano richiamo sibila nell’aria e un pezzo di roccia si stacca dalla vetta del picco. “Beep beep” si ode ora distintamente, mentre Willy Coyote, impettito sul masso, saluta come il capitano che affonda con la sua nave. Travolge gli indiani e  si schianta per terra. Una nuvoletta di polvere si solleva e al suo diradarsi su una scombiccherata catapulta Willy è già pronto a tagliare la fune per lanciarsi all’inseguimento di Road Runner. La calma è  irreale. Mi avvio lentamente. Accelero. Corro e hop: doppio salto mortale e sono insieme a Willy Coyote sulla catapulta. Taglio la corda con un colpo secco del kriss e voliamo nel cielo. Road Runner non hai scampo! Bella parabola.
Ma Willy piomba a terra di schianto a un metro dal Road Runner che strafottente riparte. Io scendo lentamente, salvato dal paracadute dello zainetto. Allo schianto di Willy Coyote si alza la solita nuvola. Mentre sono a qualche volteggio da terra la polvere si dirada e Lara Croft fa segno di sbrigarmi. Precipito. Che botto! Lei mi prende per mano. Sono ancora intontito. Risaliamo, io faticosamente lei leggera, una duna di sabbia rossastra, increspata da piccole onde. Sullo sfondo un cielo azzurro sovrastato da una grande luna piena. Cerchiamo di raggiungere un immenso suv nero che avanza lento sul filo dell’orizzonte. Ci avviciniamo, io scivolo. “Porc… ” ”Stai attento!”  La armi che ho indosso cadendo mandano rumor di ferraglia. Il suv ci guarda con occhi di fuoco, ha un sussulto: si trasforma in serpente e scompare nella sabbia. Controluna avanza un vecchio biplano sul rosso.“Sono innocui, Lara, hanno solo l’anfora a bordo” E’ sopra di noi e sgancia una cassa. “A terra, incapace!” L’esplosione è tremenda: siamo pieni di sabbia, ma salvi. “A buon rendere, Lara” “Andiamo, pivello, senza di me saresti un ‘game over’”

Zot! Un raggio spaziale avvolge Lara e la risucchia in un’ immensa astronave che ci sta sorvolando. Mi sento perduto senza di lei e mi nascondo aspettando la notte. Sono mimetizzato in una pozza di fango, mi si vedono soltanto gli occhi sbarrati iniettati di sangue. Al di là della roccia è atterrata l’astronave che ha rapito Lara. Devo salvarla! Esco dal fango urlando come un ossesso. Sparo all’impazzata. Abbatto come birilli centinaia di E.T.  Erano disarmati. Ma Rambo è Rambo! E non c’è trippa pe’ gatti! Mi butto sulla passerella presidiata da Vietcong che continuano a spuntare come misirizzi da botole invisibili. Non ne lascio venir fuori uno! “Al diavolo! Giap”

Finalmente entro nell’astronave. Spalanco porte blindate con raffiche di mitra. Mi perdo in un labirinto: “Ma dove  sono finito?”“Che ti frega, Rambo, vienimi a salvare, sono qui!” Travolgo con il lanciafiamme quattro guardiani gelatinosi, con le orecchie a punta. Sono le stesse della finta nonna di Cappuccetto Rosso o quelle di Spock ?

“Finalmente libera!” Affiancati saliamo al sesto livello. Lara mi fa masticare una capsula Matrix.
I guardiani del modulo di comando dell’astronave sono una compagnia intera di Super Mario Bros.  Si scatenano. Vedo arrivare le pallottole ad una velocità incredibilmente lenta e, mentre rispondo con mini bombe ai neutroni, mi bastano un po’ di contorsioni per schivarle.  L’intera compagnia è  sgominata.

Lara inserisce il suo bancomat nella la porta della sala comandi e in un batter d’occhio siamo dentro. Ci sediamo su due postazioni di pilotaggio al centro della grande sala a volta.  Allacciamo le cinture, pronti ad accendere i motori. Le cinture diventano due…tre…quattro e si fissano automaticamente.  Siamo intrappolati. Il Dr. Szell si avvicina minaccioso con strani arnesi in mano. “Rambo, se non passiamo al livello successivo, siamo fritti” “Questo e’ l’ultimo, Lara, non ne conosco altri!”“C’e’ il settimo: il surreale. Non servono armi per conquistarlo, basta l’immaginazione. Vaiii!”  Si diffonde la musica di Brazil.

Partono i motori e il modulo si stacca dalla casa madre. “Dove andiamo, Lara?” “Guarda giù Rick, siamo già  in un altro mondo. E’ Nexus 6” Prati, ruscelli, alberi, vette innevate e noi che ci passiamo sopra.  Dobbiamo soltanto scegliere dove fermarci. Guardo Lara, le sorrido, ma improvvisamente capisco: “Lara, tu sei una replicante! Che ci faccio, io, con te?” “Oh Bellezza, anche tu lo sei. Per cui tutto e’ possibile tra noi” “Ma quanto ci rimane da vivere?” “Siamo dell’ultima generazione, Rick. Immortali!”

Le molecole di Tachipirina stanno entrando in circolo……devo disattivare la play station…“David fermati … …So che qualcosa in me non ha funzionato bene…  …Ho paura David…  …Giro giroo toondoo……giiirooo giiirooo tooondooo…” Tilt. Buio. Game over.

Nota dell’autore.
Sono citati oltre ai noti personaggi direttamente chiamati con il loro nome:
Il film  Ombre rosse (John Ford)
Il cartoon Willy il Coyote
La collina di sabbia è quella di uno sfondo Microsoft
Il suv e il serpente sono quelli di una pubblicità di Auto giapponese di qualche anno fa
Il biplano e l’anfora sono quelli della pubblicità dell’Amaro Montenegro
“Zot” è il fulmine di “The wizard of id” (strip di Johnny Hart)
L’astronave è quella di “Incontri ravvicinati del terzo tipo” o a scelta di “Indipendence day”
La grande sala a volta e alcune fasi successive sono del film Brazil (Terry Gilliam)
Il dr. Szell è quello interpretato da Laurence Olivier ne Il Maratoneta
Rick è  il Rick Deckard di Blade Runner
Il finale cita testualmente il disinnesco di Hal 9000 (il computer) da parte di David Bowman (il Capitano) di 2001 Odissea nello Spazio



ADRIANA MASIERI

(Savona): nata a Portomaggiore (FE), risiede da moltissimo tempo a Savona. Ha scoperto nell’ultimo decennio il riscatto dello scrivere in genere, con sconfinamenti nel giallo. Ha pubblicato i volumi autobiografici e di memorie famigliari “…Così come una giostra” (1999), “Merope” (2003) e “Storie ferraresi (2007). “Viaggio di nozze” (2006), “Il logo” (2007), “Un gelido aprile” (2008) e “La sincronia del caso” (2010) sono una serie di volumi noir ambientati in Liguria.  

III PREMIO RACCONTO GIALLO
Una fantastica luna rossa

È una domenica mattina di primo ottobre. La giornata è splendida. Una ragazza cammina senza fretta incontro al sole sorto da poche ore. S’attarda sulla passeggiata a mare. Osserva alla sua destra la spiaggia e le barche a riposo dopo nottata trascorsa in acqua. La gran quantità di pesce catturato è già stata venduta e le reti giacciono distese ad asciugare. La giovane donna si toglie le scarpe e scende in spiaggia proseguendo di corsa sulla sabbia. Allunga il passo, vuole arrivare all’altezza del pontile. Dietro di lei qualcun altro sta correndo, la raggiunge. A quell’improvvisa vicinanza, lei sussulta un po’ spaventata. “Si è impaurita?” “Mi ha colto di sorpresa e così…”  “Ti ho notato dalla strada ed ho sentito, impellente, il desiderio di conoscerti..” spiega lui passando confidenzialmente al tu. Riprendono la corsetta iniziando a discorrere come vecchi amici. Belli e seducenti entrambi, tra loro la simpatia è immediata. Trascorrono insieme tutta la giornata. Pranzano in un ristorantino caratteristico. Durante il pomeriggio saliranno su di un colle per raggiungere un antico maniero. Seguita, tra loro il fitto chiacchierare, il raccontarsi il passato, svelarsi speranze e progetti. “Credi nell’amore a prima vista?” chiede lui, mentre passeggiano per le stradine antiche del paese. “ Non saprei... più che altro ascolto le emozioni, le strette al cuore!” “Ritengo di essermi già innamorato di te!” “Non ti pare di correre troppo?” Non lo svela, ma anche lei subisce il fascino misterioso che aleggia intorno a quella persona appena conosciuta. È qualcosa d’indefinibile: una forte attrazione non disgiunta da attimi di leggera inquietudine.  La domenica sta per concludersi, i due, al tavolo di un bar, sorseggiano una bevanda fresca. Tra non molto dovranno separarsi. Non sanno risolversi a farlo. “Ti andrebbe ancora un giretto notturno sul lungomare?” Lei accetta felice la romantica proposta. Si alzano. Lui paga il conto e prende sottobraccio la ragazza e la guida fuori del locale. Dall’altro lato della strada è parcheggiata la sua automobile. Un breve percorso e poi si fermano ai piedi della salita che porta a Bergeggi, il delizioso paese arroccato sul colle proprio di fronte al mare. Discendono in spiaggia e procedono tenendosi stretti. È una notte serena e, appesa, a mezz’aria, una fantastica luna rossa! Dal mare giunge il dolce sciabordio delle onde, l’eterno infrangersi della risacca. Il respiro della vita. I due camminano schivando appena il bagnasciuga. Le loro orme restano impresse sulla sabbia umida. Ci penserà, subito dopo, un’onda un po’ più impetuosa delle altre a cancellarle. Quanto sono effimere le tracce sull’arenile! Effimere ed inconsistenti come certi sogni.  La coppia avanza in silenzio. Lui le cinge la vita e lei appoggia il capo sulla sua spalla. I capelli della donna gli lambiscono le guance, lui ne respira il profumo. Quella soffice massa di riccioli lo attrae, lo inebria e lo rende cupo nello stesso tempo. Lo riporta indietro nel tempo quando... Si fermano. Lui abbraccia con passione la giovane donna che s’abbandona alle tenerezze di quei momenti magici. Ad occhi chiusi attende di essere baciata. Avverte, invece, una fitta acuta al petto... non si capacita... che cos’è stato? Guarda atterrita la mano di lui armata di un lungo pugnale lordo di sangue, il suo, che ora sente sgorgare copioso. Si comprime la ferita nell’inutile intento di fermarlo. Intanto l’uomo, un mostro, adesso, con la schiuma alla bocca e gli occhi di fuoco, continua a colpire alla cieca. Lei si divincola. Riesce a sfuggire. Solo pochi passi ed è nuovamente in balia di quell’essere rivelatosi all’improvviso così crudele. L’uomo, probabilmente, colto da raptus repentino, le commina fendenti e, nello stesso momento, urla, impreca e maledice i suoi capelli. “Ah! No! Via, via questi capelli… ”  Il giorno successivo un pescatore avrebbe trovato una giovane donna barbaramente uccisa, il capo rasato a zero. La fluente capigliatura sparsa sull’arenile. Accanto al corpo soltanto un rasoio. 

II

Il commissario di polizia, Vittorio Salvi, sta percorrendo l’Aurelia a bordo della sua Panda datata e scassata, sta andando sul luogo dove, da poco più di mezz’ora, è stata trovata la giovane donna barbaramente uccisa. Raggiunto il posto parcheggia, attraversa l’Aurelia e scende in spiaggia. Il mare è trasparente. Il sole è appena sorto su di un cielo terso all’inverosimile. “Ah! Morire in una giornata simile... di fronte a questo spettacolo!” sospira. Poi scorge giornalisti, inviati speciali ed una massa di curiosi che gli agenti faticano a tenere a bada. “Via... via! Non c’è niente da vedere...” Poi, prima di raggiungere Lotti, il medico legale e la squadra della scientifica, interroga Ennio Banfi colui che ha trovato il corpo ed ha subito avvisato la polizia. La vittima è Luisa Siri, di ventiquattro anni. Risiedeva a Torino, dove lavorava in qualità d’infermiera presso un noto ospedale. Il padre dirà, più tardi: “Ieri era il suo l’ultimo giorno di ferie. Luisa aveva deciso questa vacanza per tentare di riprendersi da una delusione amorosa. Circa un mese fa, il suo ragazzo l’aveva lasciata quasi alla soglia dell’altare.” Intanto il gruppo dei curiosi è sempre più folto. Tra questi un tipo bizzarro, scarmigliato, con dei curiosi baffi semi bruciacchiati da un sigaro che sta fumando. E’ vestito alla bella e meglio. Costretto in un giubbotto che non è della sua misura, porta scarpe scalcagnate di un colore indefinibile. L’uomo s’appressa al commissario e gli dice: “Ieri sera, l’ho vista in un bar di Noli... la ragazza morta, intendo. Seduta al tavolino insieme con un uomo. Parlavano, ridevano. Lui distinto... un vero signore.” “Lei chi è?” “Mi chiamo Giorgio Venturino.” “Faccia vedere i suoi documenti.” “Non ho documenti con me...” “In quale bar ha visto la coppia?” “Il locale è Il piccolo Lord.” “Ricorda che ora era?” “Le nove, o nove un quarto...”  Salvi chiama uno dei suoi agenti e gli fa annottare le generalità e l’indirizzo del testimone che afferma di abitare in Savona. Giorgio Venturino ha l’aspetto di un barbone, sporco e mal vestito sembra proprio uno senza fissa dimora. In ogni modo il commissario l’invita ad andare in caserma, nel pomeriggio, per firmare la sua testimonianza. “Devo proprio venire?” “Certo! Lei non vuole avere delle noie, vero?” Giorgio Venturino non si presenterà mai a deporre! Anzi, sparirà proprio dalla città.  L’indirizzo che aveva fornito era falso. Il barista di Noli, però, conferma quello che lui ha dichiarato. “La ragazza... di una bellezza... di quelle che non passano inosservate! L’uomo dimostrava una quarantina d’anni. Era molto alto, con i capelli scuri ed il volto abbronzato. Distinto e accurato nel vestire, ostentava all’anulare sinistro un diamante di ragguardevole dimensione! L’unica nota stonata, un paio d’occhiali scuri che l’uomo non s’è mai tolto, per tutto il tempo che è rimasto nel mio locale. Soffrirà di qualche inconveniente agli occhi, ho pensato, perché era notte e gli occhiali da sole… poi sono usciti, insieme, verso le ventidue.”  “Ha potuto vedere la vettura con cui si sono allontanati..?”
“Mi è parsa... dalla sagoma... credo fosse una BMW... scura. Non potrei specificare il colore perché era già buio, poteva essere verde, ma anche blu ... Il medico legale, terminato il primo esame del cadavere, fissa l’ora del decesso intorno alle ventitré della sera prima. Il corpo presenta una quindicina di ferite da arma da taglio che, l’autopsia evidenzierà molto profonde e quasi tutte mortali. E’ certo l’uso di un lungo pugnale.

III

Sono trascorsi più di due mesi, operosissimi per il commissario Salvi ed il suo gruppo. Il responsabile dell’assassinio di Bergeggi non è stato ancora trovato. Controllate tutte le persone sospette dei vari settori, dalla droga alla prostituzione. Agenti travestiti da accattoni hanno sostato per giornate intere tra quelle persone ai margini, ascoltato i loro discorsi, sperando di rintracciare il sedicente Giorgio Venturino. L’unica persona che, riguardo al delitto, è probabile sapesse molto più di quanto aveva dichiarato. L’identikit dell’assassino, concretizzato seguendo le descrizioni del barista di Noli, oltreché pubblicato sui quotidiani, è mostrato nei vari locali della Liguria, del Piemonte ed anche in Costa Azzurra, ma senza nessun risultato. Gli inquirenti brancolano ancora nel buio quando, nel centro storico di Savona, agli albori del primo dell’anno, è stata trovata uccisa un’altra giovane donna. Il corpo, orrendamente massacrato. Il capo rasato a zero. L’assassinio è stato commesso con la stessa norma di quello di Bergeggi. Usata ancora un’arma da taglio, stavolta pare uno stiletto. Accanto al corpo un rasoio. Salvi rintracciato a casa della figlia, sperava di trascorrere il capodanno con i suoi nipotini, è già sul posto con alcuni agenti e la scientifica capitanata da Lotti. Subito capannelli di curiosi, i festaioli del capodanno che non sono ancora rientrati dalla sera prima, e qualche giornalista, pronto a raccogliere i commenti dei presenti. Gli agenti hanno un bel da fare a mantenere l’ordine. La vittima, Roberta Lelli, il cui decesso è stabilito tra le tre e le quattro di quella mattina, aveva ventitré anni ed era iscritta al corso d’architettura all’università di Genova. Viveva con i genitori in un paese della Val Bormida. Aveva partecipato al cenone di San Silvestro in un ristorante del savonese con un gruppo di compagni, tutti studenti universitari. Poi erano andati in giro tra una marea di gente! “Si è imbattuta in un conoscente... l’ha salutato chiamandolo dottore...”dice Teresa Benzi, un’amica della vittima, al commissario, e continua. “Un tipo di bell’aspetto vestito da vampiro... proveniva da una festa in costume, a suo dire, il cui soggetto era: i mostri nella storia e nel cinema. Roberta, accostando il suo viso al mio, mi aveva sussurrato sorridendo: “E’ lui.” “Lui chi ?” io ho chiesto.  “Il medico che... sai, il naso… Mi fa un po’ la corte…” Non ha fatto in tempo a dire altro, quel tale, ridendo rumorosamente, l’aveva presa sottobraccio e trascinata via alla svelta. “Ve la riporto subito.” Aveva urlato nella nostra direzione. Sono rimasta stupita, benché lo sapessi che da qualche tempo Roberta si era messa in contatto con un chirurgo di Genova per una rinoplastica, ma tutta quella familiarità del medico mi ha lasciata di stucco.”  “Sono scomparsi tra folla. Non li abbiamo più visti.” dice ancora un ragazzo del gruppo che aggiunge. “Era su di giri quel tale, forse aveva bevuto troppo, o qualcos’altro...” “Ragazzi, ricordate che ora era?” chiede il commissario. “Le due, le due e un quarto. Stavamo per fare ritorno al nostro paese e Roberta sarebbe dovuta tornare indietro con noi, invece...” Sulle indicazioni degli amici della vittima, sarà fatto un identikit del medico e, alla luce dei fatti, il presunto assassino di Roberta e quello di Luisa, sembrano la stessa persona. Un killer seriale!?  Oramai si dà per certo si tratti di uno psicopatico, un individuo dalla doppia personalità. Persone del genere hanno un’intelligenza superiore alla media e, nella vita di tutti i giorni, riescono ad avere un comportamento normale. In ogni caso, basta un nulla, un oggetto, un profumo a scatenare in loro la follia. Due delitti molto simili. Quasi l’assassino avesse seguito un rituale, si fosse calato in un ruolo. Il commissario chiede alla madre di Roberta “Lei sapeva che sua figlia voleva farsi un intervento d’estetica al naso?” “Sì, ma in famiglia si era stabilito che avrebbe atteso di terminare prima gli studi…” “Teresa Benzi, l’amica di Roberta, assicura che sua figlia si era già accordata con un chirurgo plastico, ma non ne conosce il nome.” “Non lo sapevo.” risponde laconica la donna.
“Nutriamo forti sospetti sul chirurgo in questione, probabilmente è lui l’assassino. Non sappiamo nulla di lui. Sono venuto da lei, appunto, nella speranza di un ritrovare un indizio tra le cose di Roberta, nella borsetta o tra i libri. Basterebbe un biglietto da visita, un appuntamento segnato sul diario, insomma anche la minima traccia…” È frugato ogni angolo della casa, negli armadi, nei cassetti, ma nulla.

IV

A questo punto è stato compiuto il terzo omicidio. Si tratta sempre di una donna, uguali le modalità, accoltellamenti plurimi e la totale rasatura del capo. La vittima è Ernestina Biggi, una quarantenne che viveva con il marito, Franco Ricci, ad Albenga. Ed ecco, con ogni probabilità, i fatti. È già sera e Franco non è ancora tornato dal lavoro. La donna inizia a preoccuparsi, suo marito non risponde nemmeno al cellulare. Rochi, il loro cane prende ad abbaiare, occorre portarlo fuori. Di norma, a quell’ora era Franco che pensava alla bestiola. Ernestina è costretta ad uscire con il cane. Giunta sulla passeggiata a mare, nei pressi della scaletta che porta in spiaggia, scioglie il guinzaglio e lascia Rochi libero di scorrazzare. L’animale, come d’abitudine, infila l’apertura e scende i pochi gradini. Farà due o tre corse sulla sabbia poi, al primo segnale della sua padrona tornerà su. Questa volta il cane non risponde ai richiami. Non si vede arrivare e la donna deve scendere giù a cercarlo. E’ una notte buia, senza luna! I lampioni sulla strada rischiarano appena ed a tratti. L’arenile è deserto e del cane nessuna traccia. La donna azzarda qualche passo, supera alcune silenziose baracche di pescatori e vede, presso un cumulo di sassi, la sagoma bianca ed immobile di Rochi. S’avvicina, lo tocca, ma ritira subito con sgomento la mano, è lorda di sangue. La povera bestiola è stata uccisa! Ernestina avverte in quell’istante dei passi crocchianti sulla ghiaia. Chi ha ammazzato il cane è ancora nei pressi ed ora vorrà fare del male anche a lei? Terrorizzata s’appressa in fretta alla scaletta e tenta di risalire in strada. Non le riuscirà. Qualcuno con il volto coperto da un passamontagna l’avvinghia e, senza proferire verbo la colpisce più volte con un lungo coltello. Lei si divincola, urla disperatamente. Un nuovo fendente all’addome la fa barcollare. Riesce a togliere il passamontagna all’assassino che continua ad infierire su di lei. Il volto che vede la riempie di sbigottimento! Tenta ancora un grido, non riesce ad emettere che un rantolo soffocato. L’ultimo suo alito di vita. Il suo capo sarà rasato come quello delle precedenti vittime. Il corpo di Ernestina Biggi sarà trovato poco dopo, ancora caldo, da Martino, un pescatore, sceso ad approntare la sua barca per la pesca della mattina successiva... Il marito di Ernestina spiega il motivo del suo ritardo al commissario Salvi che lo sta interrogando. “A metà strada la macchina s’è bloccata. Ho armeggiato parecchio prima di scoprirne la causa. Era cosa da poco.” “Ha avuto l’impressione che il motore fosse stato manomesso?” “No, perché?” “A qualcuno avrebbe potuto fare comodo il suo ritardo... all’assassino, per esempio, per avere libertà d’azione... Signor Franco dove parcheggia, abitualmente, lei?” “Sotto casa. Ieri mattina, però, avevo prelevato la macchina direttamente dall’officina dove l’aveva lasciata per un controllo. Il meccanico è Giorgio, il marito di mia sorella che, nel consegnarla mi aveva assicurato che era tutto a posto.” “Invece la sua auto è rimasta in panne, quale era la causa?”
“Un filo s’era staccato. Probabile che un bullone fosse stato agganciato male. Forse incuria di Gigi, il garzone di mio cognato.” “A che ora è arrivato a casa stasera?” “Le nove circa, mi ha visto Antonio, il mio vicino. Lui stesso mi ha avvisato che mia moglie era fuori con il cane, forse da troppo tempo. Sono nuovamente uscito per andarle incontro ma, fatti pochi passi ed ho incontrato Giulia, mia sorella. Era disperata, il corpo di Ernestina era già stato scoperto e la notizia aveva fatto il giro di tutto il quartiere.” “Non si allontani da casa per nessun motivo, potrebbe rendersi necessario un nuovo interrogatorio.” Per uccidere Ernestina è stato usato un lungo ed affilato coltello. “Al serial killer piace variare, sempre una lama ma, ogni volta, differente e, piccole imperfezioni nella rasatura del capo, impeccabile nelle altre vittime, lasciano supporre che non sia stato utilizzato il rasoio, ma qualche cosa d’altro.” commenta il commissario. I giornali ed i telegiornali danno dato ampia eco a questo terzo delitto attribuito, come i precedenti, a colui che ormai tutti definiscono: il mostro della riviera di ponente.

V
Qualche tempo dopo in una elegante villetta nei dintorni di Genova. “Domenico! Dobbiamo andare... i Barbieri ci aspettano... la cena è stata fissata per le otto...” È Chiara, una graziosa trentacinquenne di media statura, bionda e gentile, dal balcone della casa, essa incita il marito. E’ il momento di uscire e lui, sta ancora curando i suoi canarini. Ne possiede un’infinità. Divisi in enormi voliere e in gabbie più piccole per la cova. Tutti dentro ad una veranda a tetto apribile, fatta costruire per loro. La moglie torna a farsi sentire. “Arrivo... arrivo... soltanto un attimo.” risponde Domenico. Una vera scocciatura, tutti questi volatili! Una vera mania, cui lui dedica più tempo che a me. Pensa la donna seccata, poi si da una ravviata ai capelli ed indossa un elegante cappotto. Suo marito non le permette di portare pellicce, se non quelle sintetiche! È amante degli animali e se ne vede maltrattare qualcuno, va su tutte le furie. “Uccidere quelle povere bestiole per fare le pellicce è una vera crudeltà!” ripete sempre. La donna scende a sollecitare per l’ultima volta Domenico, quindi si decide a partire da sola con la sua auto personale. Lui la raggiungerà poco dopo con il suo mezzo, nella principesca villa dei loro amici. Le due coppie si frequentano da anni, dieci per l’esattezza, da quando lei e Domenico si sono sposati. Eugenio Barbieri è un collega di Domenico. Da poco anche socio. Hanno acquistato, al cinquanta per cento ciascuno, una clinica adibita a chirurgia estetica. Intorno alla tavola riccamente imbandita, oltre loro quattro, un’altra coppia, Giovanna e Piero Socci. Lui è un avvocato di grido, uno di quelli cui sono affidate le cause più ingarbugliate. Tutti attorno al tavolo ora e l’avvocato Socci ad un tratto prende a dire sorridendo: “Eh, ragazzi... avete letto... la polizia ricerca un vostro collega! Il killer della riviera pare sia un chirurgo plastico.” “Dicono sia molto alto, un tipo robusto, ben piantato insomma, ed io, allora, posso stare tranquillo!” dice Eugenio Barbieri. Lui ha una statura media ed è piuttosto mingherlino. “E’ vero... Domenico, invece... eh, eh!” Ridacchia l’amico avvocato mentre riprende a dire: “In parole povere, la tua stazza combacerebbe con quella dell’assassino. Carissimo, se hai necessità di un avvocato... io sono qui!” Lo dice scherzando Socci, anche se, qualche dubbio lo nutre pure lui. Quindi si fa più serio ed aggiunge. “La polizia è stata nel mio studio, la nostra amicizia è nota quindi non ci si deve stupire se...” Domenico ha un sussulto? Parrebbe.  Imperterrito l’altro continua. “Mi hanno chiesto di te, della tua vita privata e, soprattutto, dove hai trascorso il capodanno.” “Tu? Che hai detto?” “La verità. Degnissima persona, dal vissuto ineccepibile, e che il Capodanno lo hai passato con noi ed altra gente in questa villa...” I coniugi Barbieri hanno ricevuto, anche loro, la visita del commissario Salvi, le loro dichiarazioni sono state un po’ incerte sull’ora del commiato dei coniugi Bottari. Dice Antonietta: “Ho detto agli agenti di polizia che non ricordavo se eravate andati via insieme. In effetti, non lo ricordo davvero. Eravamo in tanti. Poi mi è venuto in mente che essendo giunti con auto diverse, come è accaduto stasera, sarete tornati indietro ognuno per proprio conto. Vero?”  “Sì.” conferma Chiara e continua rivolta al marito: “ Tu sei partito prima, ma non eri a casa al mio ritorno! Dove sei stato fino il mattino?” La sua è pura e semplice curiosità. Non le importa granché di quello che può avere fatto suo marito. “Oh! In giro per Genova fino all’alba. Le strade brulicavano ancora di gente in festa. Poi, man mano la città si è fatta silenziosa ed io ho continuato il mio solitario girovagare per smaltire l’alcool e tutto il resto...” Le tre coppie passano ora a nuovi argomenti: le vacanze invernali, le serate a teatro. Trascorrono il dopo cena in salotto. Da una parte i mariti che giocano agli scacchi e dall’altra le donne. E’ una consuetudine. Giovanna ed Antonietta parlano dei loro figli, della scuola che crea problemi. Chiara non ha bambini. Non è una sua scelta. Suo marito, il brillante chirurgo plastico famoso anche all’estero, è impotente. La situazione è irreversibile. Hanno sperimentato ogni tipo di cura. Con farmaci e trattamenti psicologici. Tolti i primi anni di matrimonio, molto duri da quel lato, Chiara si è rassegnata. Si è adagiata in una vita comoda, senza problemi finanziari. Frequenta parecchie persone, ha molti amici. Il marito le permette di andare in vacanza anche senza di lui, se lo desidera! Non ha mai pensato a chiedere il divorzio, se non addirittura l’annullamento. L’avvocato Socci, tempo addietro, aveva prospettato loro questa possibilità.” Il matrimonio non consumato dà diritto a chiedere l’annullamento.”  Socci aveva buttato là quella frase, che tutto il mondo conosce, durante una conversazione sul divorzio in genere. Chiara ha subito pensato che l’avvocato si riferisse a loro due. “Da chi lo avrà saputo? Glielo hai detto tu?” aveva chiesto in un secondo tempo a Domenico. “No! Te lo assicuro! Certe faccende e non si sa come avvenga, sono recepite a senso, intuite da piccoli particolari... Perché? Vuoi seguire i consigli di Socci? Vuoi lasciarmi?” “No! Di certo! Io ti amo e tanto basta. Può sempre accadere un miracolo!” Adesso non è più così sicura. Di amarlo, intendo. Riguardo ai miracoli poi...

VI

La villetta settecentesca è situata sulle alture attorno a Genova. Il commissario Vittorio Salvi preme il video citofono ed il cancello, che introduce al parco, si apre elettronicamente. Poi arriva il custode tenendo al guinzaglio una coppia di cani da guardia. L’uomo lo accompagna al cospetto di un’anziana signora. “Scusi se non mi alzo... ma alla mia età... le gambe e tutto il resto!” E’ una donna piccolina e florida, con i capelli bianchi raccolti a crocchia sulla sommità del capo. “Sono la nonna del dottor Domenico Bottari. Prego s’accomodi! Sorpreso? ” “Un po’.” “L’ho invitata a raggiungermi, dopo avere letto i giornali. Il killer che terrorizza la riviera è un chirurgo plastico, come mio nipote, vero?” “Pare di sì.” conviene Salvi mentre osserva una fotografia sopra il pianoforte. E’ il ritratto di una ragazza bellissima. L’ammanta una fluente chioma rossa.  “Mia figlia Catrina, la madre di Domenico.” spiega la signora notando il suo interesse per la foto.  “Catrina era la sua unica figlia?” “Sì. Morta stupidamente. Precipitando, forse per un capogiro, dalla tromba delle scale di un sesto piano. Una terribile disgrazia!” “Domenico sarà rimasto sconvolto, immagino!” “Si. Aveva dodici anni quando accadde il fatto.” Il sorriso scompare dal volto dell’anziana donna mentre riprende a dire: “Mia figlia aveva diciotto anni e non era sposata, quando nacque il bimbo. Il padre naturale si era reso irreperibile non appena informato della gravidanza. In quel periodo in Italia non era ancora in vigore la legge sull’aborto. C’era la possibilità di andare in Svizzera e i mezzi non ci mancavano, se l’irregolarità del ciclo di Catrina non avesse fatto scoprire il suo stato quando era ormai troppo tardi per agire in quel senso. Mio marito, giudice all’epoca, non molto dopo sarebbe stato eletto ministro. Per evitare uno scandalo che avrebbe compromesso la sua carriera politica, aveva mandato Catrina presso alcuni nostri amici di Gela. Dopo la nascita di Domenico, mia figlia, che aveva rifiutato di darlo in adozione, come le era stato imposto da mio marito, lo affidò ad un istituto di Caltanisetta. Attendendo il momento opportuno per riprenderlo con sé, andava ogni tanto a trovarlo. La distanza era molta e le visite non potevano essere frequenti. Catrina dovette attendere dieci lunghi anni ed infine, dopo il suo matrimonio con Salvo, un bravo giovane che l’amava, era riuscita a realizzare il suo sogno, riprendersi il figlio. La lunga permanenza in un brefotrofio, la lontananza dalla madre negli anni in cui un bambino ne ha maggior bisogno, avevano provocato dei danni irreversibili alla psiche di Domenico. Un carattere spinoso, scomodo, difficile da gestire lo dimostrava. Bugiardo e dispettoso all’inverosimile, ne combinava di tutti i colori...” “Per quale motivo mi ha cercato signora Bottari?” La signora si fa pallida, pallida, pare quasi stia male e poi: “Sono convinta che Domenico abbia ucciso sua madre. Era con lei quel giorno. A dodici anni era già alto è forte com’è ora. La ringhiera della scala è molto alta, perciò nessuno può cadere giù, nemmeno se è svenuto...” “Lo suppone o n’è sicura?” La donna tace. Abbassa il capo. Si osserva le mani che tiene adagiate in grembo, poi le solleva e si copre il viso. Infine dà libero sfogo a tutto il suo dolore e, tra le lacrime, ammette. “Purtroppo è vero, lo ha confessato lui stesso, ma con una strafottenza ed un cinismo tali!” “Non sono state fatte le indagini del caso?” “Le ricordo che il mio povero marito, all’epoca, era un’autorità, quindi nessun’indagine. Il referto diceva: morte accidentale!” ”Dopo, che è accaduto?” “Domenico ha vissuto con noi. E’ stato in terapia per anni... ha studiato ed ha condotto una vita, in apparenza, normale, ma dentro alla sua testa chissà?” “Signora Bottari, adesso deve spiegarmi il vero motivo per il quale mi fatto venire qui.” “Da quando sono a conoscenza che l’assassino seriale delle giovani donne è un chirurgo estetico come mio nipote, vivo nell’angoscia più nera!”

VII

Il commissario Vittorio Salvi attende il dottor Domenico Bottari nel suo gabinetto medico. Le rivelazioni della nonna hanno acuito i sospetti, e poi, la madre di Roberta, la seconda vittima, ha trovato nella tasca di un giubbotto della figlia una ricevuta emessa dal chirurgo. “Il dottore è ancora in clinica.” Lo informa la segretaria aggiungendo: “In ogni modo lei passerà per primo.” L’appartamento è lussuosissimo, appesi alle pareti quadri di firme famose, ed una vetrinetta rettangolare contenente pugnali, stiletti e coltelli. Armi bianche provenienti da culture e civiltà differenti, le più disparate. “Il dottor Bottari è un appassionato estimatore di questo genere di reperti!” si fa premura di spiegare la segretaria vedendo il commissario intento davanti alla bacheca.
Arriva il medico. Alto imponente, capelli scuri... e baffi? I tratti corrisponderebbero se non fosse per i baffi! Li avrà fatti crescere di recente per ingarbugliare le acque, pensa Salvi. “Venga! S’accomodi!” dice il dottore. Indica una poltrona e siede lui stesso. “Con chi ho il piacere?” “Sono il commissario Vittorio Salvi della sezione omicidi di....” “Desidera? Posso fare qualcosa per lei?”
“Sto indagando sulla morte di una ragazza... Roberta Lelli, credo fosse una sua paziente. Penso sia stata visitata da lei almeno una volta. Abbiamo un dato certo: questa ricevuta emessa e firmata da lei. La giovane sarebbe stata in questo studio un paio di mesi fa, come afferma la data qui impressa.” “Mi scusi, ma io... non ricordo proprio... viene tanta gente qui... specialmente donne.” Appare molto sorpreso il chirurgo, più che altro a disagio. Subito dopo riprende sicurezza. “Ah! Dovessi ricordare ogni persona che visito... neanche avessi un computer in testa!” “Senz’altro lei non può ricordare, ma la segretaria avrà annotato questo nome sul quaderno degli appuntamenti.” “Sicuro. In ogni caso non riesco a capire che cosa si voglia da me?” “Il fatto è che l’ultima persona con cui è stata vista Roberta, prima di essere brutalmente uccisa, pare fosse proprio un chirurgo estetico. Le descrizioni fatte da chi era presente confermerebbero il suo aspetto, benché quella sera, fosse vestito in costume...” Il dottor Bottari appare confuso. Salvi continua: “Dove ha trascorso la notte a cavallo tra l’ultimo ed il primo dell’anno?” “Qui a Genova, con mia moglie ed altri amici. Tutti quanti lo possono dichiarare. Una serata a soggetto, appunto!” “E’ rimasto con gli altri fino all’alba?” “No, sono rientrato presto, ero stanco. Il giorno precedente l’avevo passato in sala operatoria...” “Non era a Savona intorno alle quattro della mattina?” “No! Di certo no! Ora mi scusi... sono molto in ritardo con gli appuntamenti...”ciò dicendo Bottari si alza per accomiatarsi dal commissario. Salvi scatta in piedi, volge lo sguardo tutt’intorno al sontuoso studio del medico, alla scrivania mantenuta in un ordine perfetto. Da maniaco, quasi. Lo colpisce qualcosa che riluce dentro ad un vezzoso piattino tra fermacarte e graffette. Un anello da uomo con un grosso brillante! È quello notato, dal barista di Noli, al dito dell’avventore nonché presunto assassino di Luisa Siri? Salvi è raggiante mentre si congeda da Bottari, é convinto di avere trovato il suo uomo, ma dovrà studiare un piano per incastrarlo.

VIII

Sono le quattordici di un martedì qualche giorno dopo. Il commissario Vittorio Salvi, proveniente da Savona, sta percorrendo Corso Italia, il lungomare di Genova. Ad un tratto svolta a sinistra e s’immette in una breve via. Al termine della strada, verso il fondo, c’è una costruzione a tre piani, Villa Azzurra, la clinica dei dottori Bottari e Barbieri. Salvi trova finalmente uno spazio in cui sistemare la sua Panda. Ha già notato, tra le tante vetture parcheggiate, due BMW, una è verde scuro e l’altra blu. Si segna le targhe di entrambi. Ha in mente un piano. Più che altro un bluff. Per metterlo in atto dovrà stare a vedere verso quale delle due vetture si dirigerà il chirurgo. Un poco più indietro, i suoi colleghi, un ispettore e tre agenti che lo hanno seguito a breve distanza con un’altra macchina, si sono sistemati tra un furgoncino ed una Golf. Non devono aspettare molto ed ecco il chirurgo plastico e, nell’attimo in cui lui apre la portiera della sua BMW, quella verde, si volta sentendosi chiamare. “Dottor Bottari...” e lui, riconoscendo all’istante il commissario: “Ancora lei?”  “Dottore...” chiede Salvi bruciapelo, continuando il discorso interrotto nel loro precedente incontro. “Se non è stato lei, qualcun altro ha usato la sua macchina la notte di capodanno.” “No! Neppure io. Per andare al veglione nella villa dei Barbieri ho adoperato quella di mia moglie.” “Lei mente. Il suo alibi non regge. La notte in cui è stata uccisa Roberta Lelli, lei non era a Genova come ha sempre sostenuto, bensì a Savona... Ne ho avuto notizia da poco dalla Polizia stradale. La sua BMW è stata ripresa con l’autovelox, poco distante dal luogo del delitto, sull’Aurelia all’altezza d’Albissola. L’orario coincide, così la targa !” “Me lo dimostri, voglio la conferma.” Salvi prende tempo, non esiste la prova, la storia dell’autovelox se l’è inventata. “Al commissariato avrà tutte le conferme che vuole. Ora mi segua. E’ un ordine!” Ciò dicendo il commissario si appressa all’auto del medico che, nel frattempo, si è sistemato al volante, gli sbatte letteralmente lo sportello in faccia, accende il motore e parte alla svelta. “La fuga sancisce la sua colpevolezza.” gli grida Salvi mentre si muove a recuperare la sua macchina. Poi lo segue insieme a suoi colleghi che, per fortuna hanno un’auto più potente della sua. Domenico Bottari supera un primo semaforo con il rosso, ma al successivo sarà bloccato e condotto in Questura. Durante l’interrogatorio, si dimostra beffardo, cinico e arrogante, ma poi... “Ve ne ho dato di problemi... Eh?!” sogghigna, mentre si lascia andare e confessa. Bottari conferma di avere commesso i primi due delitti. Il terzo proprio no. Nooo! Non è stato lui. Ormai non avrebbe senso mentire, due omicidi o tre, non fa molta differenza. Poi lui non avrebbe mai ucciso un cane!  “Amo gli animali molto di più di quanto non ami gli esseri umani!” afferma ed i fatti lo dimostrano ampiamente. Domenico Bottari è sincero quando confessa solo i primi due delitti. Chi ha ucciso la terza donna, con ogni probabilità ha voluto solo imitarlo, forse approfittare dell’occasione per restare impunito. Ritornando a studiare i casi si evidenziano alcune differenze. Le prime due vittime erano giovanissime e dotate di una fluente capigliatura di colore rosso naturale. Ernestina invece era meno giovane ed aveva i capelli corti. Castani e tinti. Nessun rasoio accanto al suo corpo, com’è avvenuto, invece, nei precedenti delitti. “Dottor Bottari perché ha ucciso quelle giovani donne che quasi non conosceva ?” “Erano belle e rassomigliavano a mia madre. Mi sentivo attratto... ed ero invaso da un bisogno di tenerezza, mia madre non mi aveva mai amato, per questo, subito dopo era preda di un odio feroce. Non so se lei n’è al corrente, ma io…  ho ucciso la mamma!!!” Salvi non risponde notando per la prima volta sul volto di quell’uomo, solitamente cinico e beffardo, un’espressione di profondo dolore! Non durerà che un attimo. “Il motivo che la spingeva a rasare il capo delle sue vittime?” “In senso di sfregio... erano rosse... rosse... rosse come colei che mi ha generato!” La frase è pronunciata con enfasi, con estremo rancore. “Ed i rasoi lasciati di proposito in bella vista, perché?” “La mia firma per il delitto! Per meglio dire, inconsciamente desideravo lasciare una traccia. Per questo motivo, travestito da barbone, vi ho fornito indicazioni sulla sosta dell’assassino e la prima vittima nel bar di Noli. Non lo sapete che un Killer seriale, benché sembri un controsenso, preso da una ambivalenza di sensazioni, inconsciamente desidera essere scoperto?”
“Perché?” “Per porre fine a quella che è un’orrenda condanna. La pulsione ad uccidere qualcuno è terribile!” Bottari ha gli occhi pieni di pianto? Non è possibile! 

IX

Adesso occorre scoprire l’assassino di Ernestina Biggi. Il commissario convoca nuovamente Franco Ricci, il marito che continua a proclamare la sua estraneità al delitto. Franco ha trentadue anni ed era sposato da dieci con Ernestina. Il matrimonio era stato un affare per lui. Aver sposato quella ragazza benestante, non giovanissima, lo aveva ripagato di una vita stentata in una famiglia numerosa. La moglie, figlia unica, prima ancora di conoscere Franco, aveva ereditato, oltre la casa che abitavano, un cascinale in collina e parecchi uliveti. “Avrei ucciso mia moglie? Non esiste una ragione...” si difende Franco. “Il motivo potrebbe esserci, lei è giovane, molto più giovane di quanto non lo fosse sua moglie. Poi qualcuno asserisce d’averla vista più di una volta con una ragazza, sempre la stessa, prima che sua moglie fosse uccisa.” “Oh! Sarà stata una collega, un’amica...”   “Un’amica? Abbracciati in una discoteca?” “Va bene, ho una storia... e chi non c’è l’ha? Da questo e ad uccidere ce ne corre...” Franco Ricci non ha un alibi. Nessuno l’ha visto, la notte del delitto, armeggiare attorno alla sua auto in panne. L’uomo è fermato nell’attesa d’ulteriori elementi che possano incriminarlo o, eventualmente, scagionarlo. Nel frattempo il commissario Salvi si reca a casa di Franco con un paio dei suoi agenti. L’abitazione è perlustrata da cima a fondo. Non ritrovano niente che sia attinente al delitto. Dietro la casa c’è un piccolo orto, in fondo al quale si trova una baracca per gli attrezzi. Un mucchio di cianfrusaglie alla rinfusa. Dentro ad un mobiletto sgangherato gli agenti notano un involto di tela greggia, dotato di lacci che tengono unito il contenuto. Tra alcuni arnesi di cui non conoscono bene l’uso c’è una macchinetta a zero simile a quelle che adoperano i barbieri per le sfumature, però molto più grande! Tutti quegli aggeggi sono analizzati dalla Scientifica.  “A cosa le servono quegli strani strumenti, le grosse forbici incurvate, la gran macchinetta a zero?” è chiesto a Ricci. “Per le pecore. Alcuni contadini dell’entroterra allevano ancora ovini. Io sono abile e veloce a tosare.” Sulla tosatrice non sono trovate impronte, sui restanti ferri sì. Quelle di Franco.. Al commissario ora è tutto chiaro. La macchinetta a zero deve essere stata usata per rasare il capo d’Ernestina e poi ripulita. Gli altri aggeggi, da parecchio inutilizzati, sono rimasti com’erano. Salvi, colto da un sospetto, si reca all’officina del cognato di Franco per rivolgere alcune domande al giovane Gigi, il garzone di officina. I suoi passi echeggiano nel vasto locale che pare deserto. “C’è qualcuno?” chiede ad alta voce. Le sue parole rimbombano e poi si disperdono nella grande autorimessa. Continuando a procedere nota un paio di gambe sbucare da sotto un’auto. “Vieni fuori, ragazzo! E’ necessario io ti parli.” Non è Gigi quel tale in tuta blu, con il berretto di sbieco che fuoriesce da sotto il mezzo che stava riparando. Soltanto dopo essere stato riconosciuto e salutato, il commissario ravvisa, in chi, in un primo momento aveva scambiato per un uomo, Giulia, la sorella di Franco Ricci. “Non supponevo di trovarla qui...” le dice. “Sono un po’ meccanico anch’io... a forza di guardare ho imparato!” “Non la credevo tanto abile!” “Oh, nella vita occorre sapere fare un po’ di tutto! Da ragazza ho fatto anche il barbiere! Sapevo fare barba e capelli agli uomini. L’ho appreso da mio padre. Aveva una bottega in paese.” “Allora ha riparato lei l’auto di suo fratello?” La donna impacciata è arrossita fino alla radice dei capelli. “No. Vuole scherzare? E’ stato Gigi. Adesso non lavora più con noi...” “Da quanto? Per quale motivo?” La donna inizia a dare ingarbugliate delucidazioni che il commissario Salvi non ascolta... qualcosa ha catturato la sua attenzione. Da un mucchio di cenci unti posti in un angolo, e in un’officina ne sono usati tanti, lo uomo raccoglie un vecchio berretto verde, di lana... anzi, è un passamontagna. La scientifica aveva trovato sfilacci di quel colore sotto le unghie d’Ernestina. Oltre a frammenti di pelle ed alcuni capelli non appartenenti a Franco Ricci “Questo copricapo è suo?” “No! Che cosa dice? Sono stracci che racimoliamo in giro…ci servono per il nostro lavoro.” Salvi si allontana portandosi dietro il passamontagna. Qualche giorno dopo Franco è rilasciato per insufficienza di prove. Raggiunge la sorella. La gioia dei due fratelli di ritrovarsi ancora insieme ha breve durata. Il commissario Salvi sta varcando nuovamente la soglia dell’officina. Si dirige con decisione verso Giulia che, di colpo sbiancata, chiede: “Lei! Ancora qui, perché?” “Semplice formalità. Giulia Ricci, mi segua... occorre esaminare anche i suoi capelli...” La donna non ha più la forza di continuare a fingere. “Ho sempre odiato Ernestina, mi aveva portato via il mio primo fidanzato, che poi ha sposato un’altra. Adesso, quella svergognata se la faceva con mio marito. Li ho sorpresi più di una volta. Ho minacciato di dirlo a Franco, ma nemmeno questo era servito. I due precedenti omicidi seriali mi hanno dato l’idea. Non ho fatto altro che allentare un bullone del motore nell’auto di mio fratello, tanto da causare un piccolo guasto che ne ritardasse il ritorno a casa, costringendo quella svergognata a portare Rochi in spiaggia… Ho commesso il delitto imitando le gesta del serial killer, credendo di rimanere impunita…”



RITA MUSCARDIN

Nella quarta di copertina antologia “Pennacalamaio@zacem.it”
III PREMIO FOTO
La memoria del mare


Spiegazione storica di Rita Muscardin: La fotografia raffigura un tratto di mare lungo la costa dell'isola croata di Cherso e sulla collina si intravede un piccolo paese, Ustrine, dove nacque il mio papà che purtroppo è mancato tre anni fa. Lui era nato lì quando c'era l'Italia e quelle terre fanno parte del territorio ceduto dall'Italia alla Jugoslavia dopo il trattato di Osimo. Infatti, i miei nonni materni e paterni sono nati rispettivamente nell’isola di Lussino e di Cherso sotto l’Impero Austro-ungarico, ma sono stati sempre, come li ho sentiti più volte affermare, di sentimenti italiani e parlavano anche la lingua italiana. La mia bisnonna materna con i suoi figli più piccoli, venne internata in un campo in Austria dove rimase per circa due anni (1916-1917): questo perché nel paese c’era una componente di etnia slovena che ‘segnalava’ agli austriaci quelle famiglie che erano appunto italiane e, internando donne e bambini nei campi, obbligava gli uomini, mariti e figli più grandi, a combattere per l’Austria contro l’Italia. La mia carissima prozia Beatrice, alla quale ho dedicato il racconto del vostro concorso, aveva circa dieci anni quando venne prelevata con la mamma ed i fratellini più piccoli e portata in un campo di internamento in Austria. Mi raccontava che per sopravvivere spesso erano costretti a nutrirsi con le bucce delle patate e la sua mamma ancora allattava il più piccolo dei fratellini. La mia prozia, ma per me è stata una mamma, una nonna, un’amica, insomma una persona meravigliosa che porto sempre nel cuore in un posto molto speciale, a Natale cantava qualche canto in tedesco, li aveva imparati durante la sua forzata permanenza in Austria. Nel 1918, dopo il Trattato di Versailles, le isole dove sono nati i miei genitori, assieme ad altre terre dell’Istria e della Dalmazia, passarono dall’Austria all’Italia. A onore del vero bisogna dire che quelle terre sono veramente luoghi di straordinarie bellezze naturali e di grande interesse storico e culturale: si conservano reperti dell’Impero Romano, segni della dominazione della Repubblica di Venezia, edifici che rivelano il fasto e la grandezza della monarchia austriaca (dominio iniziato nel 1797 dopo che Venezia aveva governato dall’830). Per ritornare alle vicende della mia famiglia, i miei nonni, sia materni che paterni, erano capitani di lungo corso al comando di motovelieri di loro proprietà e trasportavano le merci lungo l’Adriatico. Durante la seconda guerra mondiale, l’attività è continuata fin dopo la fine del conflitto, anche se alcuni motovelieri erano stati affondati. Ma, essendo passate quelle terre alla Jugoslavia, molti beni degli Italiani vennero nazionalizzati, mio nonno paterno aveva perso la sua nave in un bombardamento, l’altro nonno aveva anche subito la perdita di un motoveliero mentre quello superstite del conflitto gli venne nazionalizzato e lui continuò a navigare come capitano su quella che fino a poco tempo prima era stata la sua barca. Quando affondarono il motoveliero del nonno, mio papà si trovava a bordo e, con il resto dell’equipaggio, riuscirono a mettersi in salvo con la scialuppa, stremati sbarcarono su una delle tante isole lungo la costa e si addormentarono dopo aver acceso un fuoco sulla spiaggia. Ma al risveglio trovarono i partigiani di Tito che li presero come prigionieri: volevano arruolarli nel loro esercito e, al loro rifiuto, presero il capitano della nave (un giovane di ventiquattro anni con la moglie a casa in attesa della prima creatura) e lo ammazzarono sparandogli davanti a tutti. Così mio papà trascorse due anni prigioniero dei partigiani di Tito, era sempre in prima linea perché gli avevano affidato il compito di togliere le mine dal terreno e consentire così il passaggio sicuro delle truppe. Fu solo un miracolo se riuscì a tornare a casa, non sto a raccontarle qui gli episodi terribili che mi ha raccontato di quei due anni in mezzo all’orrore ed alla morte. Ma dopo che è mancato il mio papà, ho iniziato a scrivere un libro, come se fosse un dialogo tra me e lui, dove ripercorro anche quel periodo tremendo grazie al suo racconto ed anche ad un diario che lui mi ha lasciato, però non è facile perché il dolore per la sua perdita è ancora molto forte e si riaprono vecchie ferite. Comunque è una cosa che mi sento di fare per lui e spero di portarla a termine al più presto. Dopo quell’esperienza papà riprese a navigare, lasciò la sua terra e, per costruirsi un futuro che lì non avrebbe più potuto avere, andò in Italia. Mia mamma aveva  fatto richiesta di opzione al governo jugoslavo per poter andare anche lei in Italia, ma per diverse volte, senza ragioni valide, la sua domanda venne respinta, solo nel 1957 ottenne i documenti e raggiunse la sorella in Italia. Per diversi anni non poterono rientrare al loro paese perché il governo Jugoslavo non dava il permesso ai profughi di quelle terre: mio nonno materno morì nel 1959 (a nemmeno sessantadue anni) e mamma non poté partecipare al suo funerale. Questi credo siano i drammi e le ingiustizie che ogni guerra porta con sé, comunque i miei genitori fanno parte di quei 350.000 Istriani, Fiumani e Dalmati  che, fra la fine del 1943 ed il 1948, diedero origine a quell’esodo di massa. Appena gli fu possibile tornarono alle loro amate terre, a trovare chi era rimasto per badare ai più anziani che certo non potevano fuggire. Io da quando avevo poco più di un anno ho iniziato ad andare lì ogni estate con i miei genitori per trascorrere le vacanze con i nonni, adesso torno appena posso con mio marito perché amo profondamente quei luoghi ai quali sento di appartenere profondamente.



ANTONIO BERARDI


III PREMIO FANTASCIENZA
Impadronirsi della Privacy

“Impadronirsi della Privacy” è il titolo dell’ultimo mio romanzo. In questa opera ho inteso affrontare l’argomento, ipotizzando, in modo surrealista e fantascientifico, la soppressione del'attuale agire comportamentale, molto criticato ma sempre più diffuso, che solletica la propensione ai blog dedicati ai gossip, che proliferano come funghi. La tutela della “privacy” diventa una farsa e le norme che la proteggono non sono assolutamente in grado di garantire un contegno corretto. Il “gossip” è destinato a diffondersi come usuale e realistica abitudine perché stuzzica la curiosità degli individui. Il “blog” è anarchico perché ognuno è libero di scrivere ciò che vuole non solo su se stesso, ma anche su altri e darlo in pasto a tutti, ed essendo anonimo, chiunque lo può utilizzare, sottoscrivendo anche con un nome falso. E’ integrante perché eccita l’immaginazione con fatti ed eventi che non sono accettabili dalla comune morale. Per tali caratteristiche, quando la notizia falsa, infamante o semplicemente distorta arriva a milioni di persone in tutto il mondo può provocare sconforto, notti insonne e anche danni economici. E ciò può succedere anche quando la notizia è vera ma viola la “privacy” di persone che ci tengono, per motivi diversi, alla loro riservatezza.

III PREMIO LIBRO EDITO DI NARRATIVA
Il cuore e la mente

“Il Cuore e la Mente” è il primo dei miei romanzi. Tra le varie recensioni, credo che quella che ha espresso meglio lo spirito del romanzo è la presentazione che è stata inserita a pag. 7 dell’opera, per merito della scrittrice Valeria Di Felice. Lei ha scritto: Con questo libro, l’Autore affronta un tema scottante e tagliente che va aldilà della semplice risoluzione pratica di un problema istituzionale e che rinvia ad una riflessione di alto lignaggio sulla natura ontologica dell’essere e della Creazione. La trama si snoda su tre nuclei tematici: l’incontro fortuito tra Roberto e Luciana; la tormentata storia d’amore tra Abu al-Asan ed Esmeralda e l’enigma poliziesco sull’assassinio di alcuni personaggi. L’esposizione chiara e lucida del profilo dei personaggi e dell’intreccio narrativo, raccontati attraverso una dialettica persuasiva ed uno stile cronistico, costituisce il pretesto affinché l’Autore possa dare voce al fervore del suo Credo e alla profondità del suo vissuto interiore, erigendoli come modello solido di riferimento di fronte all’assottigliamento e alla deflagrazione di quelle certezze di vitale importanza che, invece, andrebbero salvaguardate per la serenità di ciascun individuo. Infatti, dietro le parole di Luciana si nasconde, in realtà, il percorso esistenziale di Antonio Berardi nel tentativo di rendere partecipe il lettore alla difesa del Valore e della Sacralità della Vita. Siamo di fronte ad “un’opera di sensibilizzazione, di convincimento e di testimonianza” di un Messaggio universale, il cui significato religioso permea ogni convinzione intimistica dell’uomo, ponendosi come baluardo strategico contro la razionalità e il materialismo fini a se stessi. E’ un Messaggio di amore, fratellanza e solidarietà che, rivolgendosi alle coscienze di tutti noi, suggerisce un “cattolicesimo libero”, un cattolicesimo che, davanti al Mistero inintelligibile della Verità e del dato teologico, trova concretezza e riscontro nell’esperienza tangibile del singolo e nell’autorevolezza della tradizione. Una religione, dunque, che si appella alla prensione intuitiva del sentimento e del cuore, grazie alla quale la Fede non potrà mai entrare in conflitto con la Ragione perché entrambe si riducono ad un assenso. Come afferma l’Autore “…ciascun individuo raziocinante, non potendo possedere una verità assoluta ma una verità soggettiva, deve trovare in se stesso la sua verità, e questa sua verità non può che trovarla nella sua mente e nel suo cuore, cioè nella Fede nella propria religione…”. L’Autore, non a caso, contestualizza questo dibattito all’interno di una “società globale” di transizione, che porta le tracce di un sofferto travaglio spirituale. Attraverso la valutazione critica della dottrina e della teologia cattolica, Antonio Berardi fa riflettere i personaggi sulle convergenze delle diverse speculazioni concettuali, e propone una “globalizzazione della civiltà” all’insegna dell’apertura e del dialogo tra le altre religioni. Con gli occhi di uno sguardo ecumenico, egli parla di una via spirituale in grado di perseguire un’adesione interiore basata su una Fede semplice e consapevole delle verità fondamentali e comuni a tutte le manifestazioni religiose. Il libro, infatti, mira alla riqualificazione dell’individuo, superando una visione dualistica conflittuale dell’uomo, scisso tra “il cuore e la mente”, e proponendo un’immagine armonica e non schizofrenica della sua consistenza morale.



DUNIA SARDI

III PREMIO RACCONTO




SIMONA TASSARA

nata a Genova il 13 gennaio 1978, appassionata lettrice di storie del mistero, ama gli autori del giallo classico inglese e in particolare Agatha Christie. Ispirandosi a quest’ultima, ha deciso di cimentarsi in prima persona nell’avventura letteraria per dar vita alla sua personalissima “fabbrica di salsicce”: nel 2010 ha pubblicato il suo primo romanzo, “Il mistero d’Arcadia” (ed. La Riflessione, Davide Zedda Editore (Cagliari); 2° classificato al VI Premio Nazionale di narrativa gialla inedita “Delitto d’Autore 2009”, sezione miglior romanzo giallo italiano a tema libero; 2° classificato al Concorso Letterario “Autore di te stesso” – Premio Nazionale Campi Flegrei 2010, sezione inediti), e si è avventurata – con la dovuta circospezione – nel territorio (assai più accidentato!) del racconto breve. Il suo primo lavoro, “Un dolce ritorno”, ha ottenuto un Premio Speciale al VII Premio Nazionale di narrativa gialla inedita “Delitto d’Autore 2010”. E io scommetto che il sole è blu inaugura una serie del tutto nuova, quella del racconto fantastico.

II PREMIO RACCONTO
E io scommetto che il sole è blu

Quando arrivo Caterina ha già disposto i pezzi sulla scacchiera e mi guarda seria seria, inginocchiata sul suo cuscino. Tocca a me il nero, come ogni volta.
Non è il favore dell’apertura. Non sceglie il bianco perché il bianco vince, perché intavola la prima mossa. Lo sceglie, ne sono sicuro, perché al nero manca la fiaba: manca l’alfiere candido, altero (e chissà che diavolo è, un alfiere, scherziamo sempre, non sembra piuttosto un salvadanaio?); manca la coppia reale in bianco avorio, elegantissima, indulgente. Il cavaliere argenteo che ti porta in salvo, al galoppo.
Al cospetto di tanta nobiltà, la mia regina bruna deve sembrarle la crudele matrigna di Aurora, l’Addormentata nel Bosco che si sforacchia il ditino. Sta dalla parte del bene, Caterina, è la principessa stregata in attesa del bacio. O almeno è quello che spero, che ho sempre sperato: che sia rimasta bambina, almeno in questo; che creda alle favole, almeno un po’.
E’ bella, Caterina: ha capelli così biondi e levigati da far pensare a una cascata di grano e d’olio, miracolosa. La mimica dolce, discreta. Sistema un bicchiere di latte accanto al cuscino, con infinita cura; quindi mi allunga l’altro bicchiere e si aspetta ch’io faccia lo stesso. Si procura sempre, ogni lunedì, due bicchieri stracolmi di latte ghiacciato: ci piace sentire i granelli di zucchero fra i denti, saggiarne la consistenza, lo sfrigolio.
“Pedone in e4”, annuncia.
Ecco il gambetto, penso. Il gambetto di re la ossessiona da quando Hélène le ha parlato dell’Immortale, accidenti a lei. L’Immortale venne giocata nel 1851, a Londra, ed è una delle partite più famose di tutti i tempi: il coraggioso Anderssen, infatti, l’Eroe con l’E maiuscola di Caterina, la vinse sacrificando torri e regina, e imprigionando il re con due cavalli e un alfiere, i tre pezzi minori. Aveva aperto con un gambetto, ça va sans dire; e da quando è stata messa a parte di questa storia Caterina ha una sola parola, in apertura: pedone in equattro.
Macina partite e avversari come un’armata invincibile, Caterina. Ha sfidato Hou Yifan, eppure sostiene di gustarsi gli scacchi soltanto con me: con me, del resto, è superflua la monetina, il mio piccolo esercito del male lo amministro con un certo orgoglio. E inoltre perché, dice lei, sono un ingenuo; e l’ingenuità, com’è noto, può sovvertire qualsiasi pronostico.
Il punto, sostiene Caterina, è che io sbaglio “in maniera poetica”. Dice proprio così, vede poesia nella mia goffaggine testarda, insanabile. Ma io benedico ogni impertinenza, sapete, ogni sensore di fanciullezza. La osservo e spero quasi che si metta a fare un po’ la sciocchina, che rovesci il latte, ad esempio, compromettendo la lucentezza blu mare dei cuscini di Hélène. Che mi faccia credere, per un momento, di avere una figlia sbadata, imperfetta.
Non fa niente del genere, naturalmente: il bicchiere riposa eretto sul pavimento, placido, inoffensivo. Il cuscino conserva intatta la sua lucentezza.
“Pedone in e5” faccio io, acconsentendo al gambetto.
“Effequattro, papà” recita quindi, parodiando il suo eroe.
Sa ridere di sé stessa, Caterina, e benedico perfino questo, ogni giorno; ringrazio di non avere per casa un bimbo-adulto tutto genio e niente sregolatezza, una mente mostruosa e muta agli altri, incapace di relazioni, di sane imbecillità. E’ una bimba socievole, la mia Caterina. Di poderosa, mefistofelica intelligenza, questo va detto; però alla mano, e vagamente eccentrica.
Certo ho temuto un alzarsi di muri, quando ci siamo impelagati nelle pratiche del divorzio. E a maggior ragione l’ho temuto quando Hélène, bontà sua, l’ha lanciata come un razzo nell’universo degli enfant prodige, forzando gli argini del mio consenso. L’ha data in pasto, letteralmente, ficcata in vetrina…venghino, venghino, sioriessiori, la più giovane campionessa di scacchi AL MONDO!!! Sviscerata come l’automa di Maelzel, come la lupa di Billy Parham.
Fosse per me sarebbe sempre rimasta in un angolo. Il mio angolo.
Da una parte perché, inutile girarci intorno, Caterina mi fa una paura del diavolo. Dovreste sentire come borbotta “gambetto d’alfiere” asserragliando gli occhi in una fessura a mo’ di sicario che prova la mira. Da maneggiare con cautela, insomma. Dall’altra parte per egoismo: volevo il tesoro a portata di mano, da rimirare e custodire. Il mio diamante grezzo fra i sassolini in giardino, la lettera rubata in bella mostra sul caminetto.
Mia moglie (la mia ex-moglie, e il laspus la dice lunga sulla mia propensione al cambiamento) non è mai stata di questo avviso. E forse sbagliavo io: anzi sbagliavo sicuramente, a giudicare dai risultati. E’ un’avventura inusuale e spericolata, la vita di Caterina: una corsa in sesta marcia che le consente, tuttavia, di assaporare le basse quote (i “piccoli momenti di piacere”, li chiama lei); che le fa sembrare addirittura “poetico” un pomeriggio con me, fra gambetti di re, cuscini e battaglioni a confronto.
“Abbiamo dimenticato la scommessa” dice improvvisamente, scurendosi in volto.
* * *
Scommettiamo sempre, Caterina ed io.
E ogni domenica lei alza la posta, senza il minimo scrupolo. Per quel che mi riguarda azzardo le ipotesi più strampalate, nella certezza di soccombere: oggi scommetto sul colore del sole.
“Ma lo sanno tutti che il sole è bianco! E’ un’esplosione di pura luce”
“E io scommetto che il sole è blu” m’incaponisco.
“Che ne diresti di una scommessa vera, una volta tanto?” propone solenne “Se vinco io ci si vede domani, papà, anche se è lunedì. Rompiamo la crème brülée con la punta del cucchiaino e saluti a tutti”
E’ il nostro codice segreto, la crème brülée: significa che ci prendiamo una giornata per noi, che ci gustiamo ogni piccola cosa. Una domenica pomeriggio di qualche anno fa io e Caterina abbiamo guardato insieme “Il favoloso mondo di Amélie”, l’unico film che abbia soddisfatto in pieno le sue aspettative. Amélie è una ragazza molto speciale “con un gusto pronunciato per i piccoli piaceri della vita: immergere la mano in un sacco di legumi, spaccare la crosticina di una crème brülée con la punta del cucchiaino…”. Da allora non fa che dar la caccia a questi momenti, Caterina; li colleziona, si direbbe.
“Il lunedì stai con la mamma”
“E il martedì, e il mercoledì, e il giovedì…”
“Caterina”
Ma non aggiungo altro.
Sarebbe sciocco sputar fuori una verità che conosce fin troppo bene. La domenica è tutta per noi, Caterina…e poi ci è toccata l’estate, di che ti lamenti? Sciocco e crudele, sarebbe: le vacanze estive, ad aprile, sono distanti anni luce.
Caterina sembra capire e non dice nulla. Si limita a fagocitarmi il secondo cavallo in un gesto meccanico, evanescente. Fa per riporlo in coda alla schiera dei pezzi scuri, i suoi prigionieri. Ma poi qualcosa va storto: perde il controllo del proprio corpo, forse, oppure ha lo sguardo appannato dalla delusione per quel che le ho detto (e che non le ho detto), e il cavallo finisce dritto nel bicchiere. Sulle prime arrossisce: non è da lei, la sbadataggine, non inzuppa cavalli nel lattezucchero, lei. Poi si accorge del mio sorriso e mi sorride di rimando.
“Forse era Pegaso, papà, che si è bruciato le ali ed è caduto in mare”
E’ in quel momento che lo sento, con tutta chiarezza.
Mentre ci distendiamo, la delusione evaporata in un sorso di mare dolce, di nuovo complici, sento che accade l’imponderabile.
Posso vincere, sto vincendo. Controllo e ricontrollo, inebetito, ed è così: basta un colpo di reni dell’alfiere campochiaro.
Mi fido di Caterina, so che non regalerebbe mai una partita. Ho temuto quel gesto, in passato, rassegnato a cogliervi un abdicare definitivo all’età dell’innocenza (non un conosco bambino che accetti di buon grado la sconfitta). Ma è troppo integra, Caterina, pura e innocente come un agnello: in quattro anni non l’ho battuta neppure una volta. E adesso guardate, venghinovenghino…sarete i primi a contemplare la caduta della dea, le ali di cera che prendono fuoco. Sto per mattarla, accidenti a me: ora che ha messo sul piatto un lunedì, oggi che vale la pena soccombere.
Lei si rannuvola in volto, ha capito. Quel maledetto controgambetto.
Avvezza com’è alle disillusioni, tuttavia, compone la faccia in una smorfia buffissima e squittisce, incassando:
À la prochaine!
“Ma non è giusto, Caterina” mi trovo a dire “Non è una vera scommessa, perché non posso vincerla. E se io non posso vincerla, Caterina, tu non la puoi perdere”
Lei considera il ragionamento per qualche secondo. Poi, lentamente, annuisce.
“Secondo me” sparo “Potremmo vederci comunque, domani, se il sole è blu”
Poi m’incanto a guardarla, preso dal nervosismo. Una fiaba va raccontata sempre per intero, lo si sa: senza impastare battute, passaggi, personaggi, o si tradisce il dormiveglia. Un figlio non ti perdona i balzi logici, le incongruenze: la favola non è questa, non era così. E una scommessa è una scommessa, o tanto valeva non farla.
Caterina pondera a lungo, soppesa la sua disfatta col paradosso della puntata e  quel che ne ricava è l’ammissibilità della proposta unita ad un filo, impalpabile, di speranza: ci rivedremo davvero, domani, in un mondo di soli blu. Apriremo gli occhi e controlleremo, per un momento, che la Terra non sia capovolta, che il pavimento stia ancora giù.
Ci lasciamo così, sospesi all’indomani.
La sagoma di Hélène si è ritagliata sulla porta della cameretta e batte l’indice sul quadrante dell’orologio.
* * *
Il mattino dopo è come se le palpebre si fossero saldate insieme, nottetempo, non ho il coraggio di aprirle. Ho disdetto l’aereo, dormito in albergo. Andrò da lei comunque, dico a me stesso: le prenda pure una crisi isterica, alla mia ex-moglie, crisi più crisi meno.
Quindi spalanco gli occhi, rinfrancato, simulando una leggerezza d’animo che non provo. Li spalanco più forte e non posso credere a quel che vedo: un disco blu mare bivacca, ciclopico, nella distesa bianca del cielo. Come una stilla di pioggia, una goccia d’inchiostro nel latte.
O a guardar bene come un destriero, come un ardente noctambule volato in alto senza scottarsi.



ANNA ROSA GALDI – ROBERTO MORCHIO

II PREMIO SEZIONE LIBRO EDITO DI NARRATIVA
La Liguria secondo noi
CoAutori : Anna Rosa Galdi ( poesie ) - Roberto Morchio ( brani in prosa ) 
Breve curriculum dei due Autori:
Anna Rosa Galdi , nata a Genova nel 1957,  città dove tutt’ora vive e che ama profondamente .
Da anni, ritenendo la scrittura la sua vera linfa vitale, si esprime attraverso una sua personale dimensione poetica con poesie e brani in prosa.
Roberto Morchio, nato a S. Margherita Ligure nel 1950 , fa la spola da pensionato tra Genova e  “ Santa “  coltivando l’arte dello scrivere , l’arte dell’ “ozio”  e l’escursionismo.

CONTRASTI ( di Roberto Morchio )

Inverno.
Febbraio.
Il Cielo è un soffitto grigio solcato da crepe coperte di muffa.
Lo smorto colore cola sulle liguri case smorzando i toni vivaci delle facciate.
Il mare è dello stesso colore del cielo ed è in subbuglio.
Onde spumose alzano la cresta con aria di sfida e si lanciano contro la costa turbinando e spruzzando.
Il profilo ondulato della riviera svanisce mesto sotto una coltre densa che tutto ingloba senza pietà.
Il vento, fiato gelido dell’inverno, scende imperioso dai monti a schiaffeggiare chiome d’alberi e bandiere tese sull’aste.
Si tendono e scoccano le sartie sulle barche, mentre il moto ondoso fa rullare gli scafi, bianchi come gabbiani.
Coriandoli abbandonati per le strade, segno del carnevale da poco trascorso, rotolano impazziti alla ricerca di un posto dove scolorire in pace.
Poche persone rattrappite in vesti pesanti vagolano con lo sguardo chino, rassegnate allo strapotere del vento.
Il pensiero si rattrista in mezzo a tanto grigiore e comincia a strisciare tra sterpi secchi verso lande desolate, cosparse di tombe solitarie e sferzate dal gelo.
Si ricorda, dietro una lacrima cristallizzata sulle palpebre, il viso triste di chi non è più con noi.
Sono queste le giornate che ispirano maggiormente poeti e scrittori dall’animo sensibile alle manifestazioni negative della natura.
Sono giornate non prive di fascino, ma personalmente mi sento l’animo oppresso da questo funesto languore e spero in un domani assolato che mi faccia aprire il cuore alla gioia.
In Liguria questo può accadere ed infatti puntualmente è accaduto.
Il giorno seguente le nuvole hanno abbandonato il cielo sopra di me, lasciando solo pochi cumuli candidi a contrastare l’azzurro terso della volta infinita.
La temperatura è più favorevole, aiutata dalla sua scalata al termometro , dai raggi dorati del sole e dalla mitezza del vento.
Il mare adesso è una superficie liscia sulla quale scivolando alcune barche da pesca, scortate da uccelli volteggianti.
La leggera increspatura dell’acqua che riflette la mutevole direzione della brezza, evoca la pelle d’oca di una bella donna stesa al sole, non ancora caldo a sufficienza.
La costa è tutto un fiorire di colori; là un gruppo di case immerse nel verde, più giù scogliere slavate mostrano impudiche la loro nudità .
Le strade sono animate da gente che pedala su  biciclette da corsa, da gente che corre a piedi, da gente che chiacchiera e sorride.
E’ tutto cambiato rispetto a ieri; nell’aria c’è qualcosa di diverso, di pacato e di brioso, di sereno e di vivace.
Ora la mente può spaziare sulle ali della fantasia e veleggiare oltre confini di speranza che aprono le porte a pensieri positivi .
Cara Liguria, questo ci dai e te ne sono riconoscente.
Un’alternanza di stati d’animo così è una scossa di vita che mi fa dimenticare per un po’ le brutture del mondo, che purtroppo si addensano spietate al di là delle creste dei monti.
Il sole sprofonda lento dietro di essi e favorisce il sopravvento delle ombre della sera.
Le luci della città si accendono dappertutto ed è uno sbocciare di fiori dalla chiara corolla su prati inariditi
Un senso di freddo si insinua sotto le vesti e mi fa rabbrividire; metto le mani in tasca e con passo lieve faccio ritorno a casa.

LA CASA IN FONTANABUONA ( di Anna Rosa Galdi )

Persiane riaperte, finestre  e stanze di nuovo inondate di sole.

E poi piatti e bicchieri, dai colori e disegni  dimenticati,
di nuovo stretti tra le mani con gesti antichi.

E poi cieli e nuvole, prati e muschi, e colline imbevute di nebbia,
chiusi con le foglie di autunno , e ritrovati ogni estate,
come una scatola di vecchie cartoline dimenticata in un cassetto.

Casa di mura , e di carne, e di vite trascorse e poi passate.

Eterno presente dell’Anima, che ascolta suoni al di là delle orecchie,
pronuncia parole, al di là delle voci,
incrocia sguardi non più nelle pupille,
ma incastonati per sempre nella luce soffusa di  giornate lontane.

Eterna solitudine dell’Essere
che non può accettare la finitezza dell’umano
e rigetta e ripudia ogni confine e ogni assenza .

Miracoloso essere dell’Anima
che vive nell’eterno presente
al di là del tempo e dei luoghi ,
del passato ormai futuro, del futuro già passato.

Esiste…
aggrappato alle nuvole
che continuano a rincorrersi nel cielo
e al crepitio delle foglie,
che continuano a palpitare nel vento.

Giorno dopo giorno, estate dopo estate,
la casa di mura e di carne accoglie la vita,
fatta di sole e di vento e di pioggia,
uguali e sempre nuovi.

Struggente nostalgia del percorrere quieto delle stagioni ,
sulla casa di mura e di carne ,
ben oltre la consapevolezza del reale.

SOTTO RIPA( di Anna Rosa Galdi )

VENTO profumato di sole.

Si insinua oltre le porte dei negozi,
guadagna i primi piani dei portoni …

Accarezza gli sguardi,
scompiglia i capelli,
gioca  a nascondino
nel chiaroscuro dei volti,
guardinghi sotto i portici di pietra.

Eterno, giovane scugnizzo,
mischia e subbuglia,
compenetra e raccoglie

odori e umori,
sorrisi e parole
fiati, sudori e sguardi
passi strascicati e poi rincorsi
affastellati nel via vai quotidiano.

Coriandoli di varie umanità
raccolte a pugno.

Di colpo gettati nel VENTO ..
poco oltre ..
in faccia al mare.

CIMITERO DI PAESE ( di Anna Rosa Galdi )

Tra sipari di vento e di silenzio
trascorre il loro sonno leggero,
in attesa dell’Alba.

CAPPELLA SUL MONTE CAUCASO ( di Anna Rosa Galdi )

Orizzonti di cielo
e di mare
si specchiano
tra i vetri lassù.



GIACOMO MANZONI DI CHIOSCA

 III PREMIO FANTASCIENZA

Ganimede

Dopo sette mesi di navigazione l'astronave è giunta nel campo gravitazionale di Giove: ha superato le orbite dei satelliti esterni e si sta avvicinando ai più interni per completare un vasto programma esplorativo. La vita a bordo procede con una regolarità cronometrica: nulla è lasciato al caso o alla decisione del momento; ogni gesto è programmato, ogni azione è prevista e tutta l'organizzazione è controllata da un complesso sistema computerizzato. I turni e le attività si alternano secondo schemi rigorosi, e la stessa presenza umana sembra quasi superflua poiché le scelte sono estremamente limitate, e raramente di importanza determinante, anche presso le più alte gerarchie di comando.
Hans ed io siamo di turno alla navetta per una ispezione generale di alcune membrature esterne dell'astronave: si tratta di una operazione consueta, ripetuta già decine di volte nel corso della spedizione. La navetta si muove automaticamente da un punto all'altro per rilevare una serie di temperature, di forze e di tensioni, ed il compito di noi operatori è solo un controllo, un noioso controllo della regolarità della marcia. Conosco poco Hans: tranquillo, taciturno, solitario. Siamo saliti scambiandoci un breve saluto, subito intenti ad osservare gli schermi luminosi degli strumenti, gettando solo una rapida occhiata all'esterno dell'ampia vetrata che ci permette una vista diretta non usuale del pianeta gigante, in parte coperto dalla massa scura del satellite Ganimede a cui ci stiamo rapidamente avvicinando. Il pianeta è un disco enorme, che irradia una luce dorata, abbagliante. Sulla sua superficie si inseguono vortici immani, grandiose correnti che sprofondano nell'immensa macchia rossa come in una caverna interminabile. Ci siamo allontanati di una decina di metri dal corpo principale della nave, seguendone la lenta rotazione, e la navetta si sta accostando ad una fiancata quando, improvvisamente, accade l'imprevisto: uno scoppio, uno schianto: tutto scompare davanti a me e incomincia l’immaginaria avventura, forse un sogno soltanto, perduto in un tempo irreale.

Mi risveglio dolorante, intorpidito, avvolto in una oscurità assoluta, irreale. Provo una sensazione strana, inconsueta dopo tanti mesi di navigazione: il peso. Una brezza leggera mi sfiora il viso e fa riaffiorare in me ricordi lontani di quando, durante i bivacchi in alta montagna, la roccia strapiombante incombeva ancora più nera del cielo fosco della notte. Si intravedeva allora, in fondo alla valle, qualche lume, chiarore remotissimo, inaccessibile come le stelle. E riaffiorano ricordi di altre notti ancora più serene, con gli astri scintillanti in mezzo ai pini; ricordi di passioni e di speranze, lasciate a terra come una zavorra. Poi a poco a poco le cose si fanno reali. Mi ritrovo nello stretto abitacolo e, con le mani guantate, lo esploro, a tentoni. Hans è disteso al suo posto, gelido, immoto. Raggiungo in alto il portello, che si apre di scatto al mio tocco; mi sporgo e vedo apparire le stelle, lassù. E' una visione familiare: la coda dell'Orsa Maggiore. Ricordo di infanzia, nostalgia di una non ancor perduta fanciullezza. Mizar ed Alcor appaiono nitide e distinte come assai difficilmente si vedono da terra. Non vedo altro: il resto del cielo è nascosto da scoscese pareti: la navicella è caduta in un crepaccio. Sgomento ed incredulo mi rendo conto di essere precipitato in fondo ad una di quelle sottili striature di Ganimede che si percepivano appena con i più potenti strumenti quando osservavamo il satellite durante l'avvicinamento. Alla sofferenza del corpo, martoriato dalla caduta, si aggiunge il terrore atroce, inumano, di un ineffabile ignoto. Resto a lungo inchiodato, con gli occhi sbarrati nel buio, stupito di essere vivo e di respirare, finché, ad un tratto, il bordo del crepaccio si accende di una luce bianca, abbacinante, che riverbera e si riflette giù giù per le pareti rocciose fino alla mia navetta. Un chiarore improvviso che contrasta con il nero del cielo come un faro nel cuore della notte. Posso vedere, rendermi conto della mia posizione: la navetta, squarciata e contorta, è incastrata tra le pareti di una profondissima voragine. Il clima è tiepido, e una leggera corrente di aria sale dal basso. Riesco ad uscire ed a raggiungere, con un breve salto, una lunga cengia coperta di muschio che percorre tutta la roccia, digradando verso il fondo. Seguo la cengia fra le pareti convergenti che si chiudono sopra a una caverna da cui esce un vento impetuoso. Intravedo all'interno una pallida luce diffusa, diafana, incerta, che va di mano in mano aumentando di intensità come il cielo prima dell'alba. Supero a fatica il passaggio più stretto, aggrappandomi alla roccia per vincere la forte corrente. Al di là c'è nuovamente la calma, e una vaga luminescenza azzurrina, indefinita e remota, mi guida in paesaggi fiabeschi, di sogno.

Il mio orologio non ha smesso di funzionare. E' un riferimento per ora unico ad una realtà improvvisamente tremendamente lontana. Lo scandire dei secondi si accompagna al mio ritmo di vita: tra poche ore il mio organismo incomincerà a soffrire: prima la sete, poi la fame e il sonno, se non troverò rimedio. La forza di gravità è molto ridotta e mi permette di muovermi rapidamente; così non tardo a ritrovare quell'equilibrio agile e piacevole che i lunghi mesi trascorsi nell'astronave, in condizioni innaturali di assenza di peso, avevano reso goffo e impacciato. Devo esplorare rapidamente le caverne intricate; definire la fonte di questa aria tiepida che mi consente di vivere; accertarmi che quell'umore che permea le rocce sia adatto per il mio organismo: poterlo raccogliere e bere. Scegliere, fra quello che trovo, che cosa provare a mangiare. Solo in seguito potrò cercare di mettermi in contatto con il mio mondo, scalare il crepaccio, inviare segnali, chiedere aiuto. L'aiuto, se mai potrà venire, sarà tardivo se non troverò io stesso il modo per poter attendere il tempo delle ricerche.

Se mi trovassi sperduto in una foresta, per sopravvivere, cercherei dei frutti, e potrei scegliere, fra quelli sconosciuti, basandomi sul profumo, sulla consistenza, sul gusto più o meno appetibile.
Qui invece gli odori sono uniformi; il sapore acidulo e la consistenza ora viscida e gelatinosa, ora ossea o coriacea della vegetazione, ripugna al nostro gusto. La temperatura è estremamente variabile da un punto all'altro, e le rare correnti tiepide che salgono verso i crepacci si incrociano a breve distanza con i gelidi soffi che scendono dopo aver lambito la spessa cupola di ghiaccio cristallino che copre la caverna. C'è umido, ma non si trova acqua. Piante senza radici assorbono dall'atmosfera tutto quello che serve per vivere. Fusti scheletrici corrodono la roccia e forano morbidi cuscini di lichene. Sottili veli diafani si tendono come ragnatele e, separando le correnti calde dalle gelide brezze, ne traggono l'energia vitale.Ogni cosa è immobile: il vento è l'unico spirito che accompagna ed impregna ogni cosa.

Ho sepolto Hans. Lo ho portato in alto dentro alla grotta, vicino alla crosta da cui emana un vento glaciale. Ho disposto scaglie di pietra sopra il suo corpo e ho composto una croce. Ho pianto.
Si volge lentissimo il lungo giorno di Ganimede. Il silenzio è esasperante, rotto soltanto dai miei passi e dal mio respiro. Il fruscìo continuo del vento, flebile e opaco, risuona lugubre, amaro, ossessionante nell'assenza di ogni altro rumore. Sono sceso dalla montagna ancora più solo.
Quello che resta della navetta è la mia casa: là posso riposare, là trovo un ambiente di pochi oggetti consueti, là ho i mezzi per iniziare quella esplorazione che costituisce l'unico scopo della mia attesa. Là è riposta la mia speranza: rottami, forse, ma significano ancora per me la funzione già assolta: parlare, vedere, sentire, comunicare, chiamare, invocare: urlare che sono qui, che voglio tornare!
Hans non mi ascolta, Hans non mi sente, e così non mi ascolta lo schermo ora muto di quello strumento che era stato per tanto tempo mia guida sicura.

Mi sono rimasti alcuni attrezzi intatti: c'è una riserva di ossigeno e posso riparare la tuta e il casco e tentare una esplorazione in superficie. Salirò il più possibile senza sfruttare la riserva. Sono leggero, il mio corpo è etereo; il cibo innaturale induce un effetto inebriante, esalta i sensi, modifica il metabolismo consentendomi una resistenza imprevista. La roccia è verticale, scabra, rotta da rare ma solide spaccature, come un saldo granito. Si può salire a balzi, slanciandosi da una parete all'altra del crepaccio con salti di decine di metri; se un appiglio mi sfugge ricado lievemente, quasi planando sulla corrente fluida ascendente, e raggiungo ancora l'appoggio precedente. Il mio procedere in verticale è assai più veloce di una corsa pianeggiante sulla Terra; eppure i bordi del crepaccio, che non apparivano all'inizio troppo lontani, sembra ora che non si avvicinino mai, mentre sprofonda in una paurosa, tenebrosa, incredibile distanza l'oscurità del fondo, e verso l'alto ogni cosa assume una maestà grandiosa. La luce si fa più intensa; fa freddo, il respiro è sempre più affannoso. La brina che incrosta le lievi asperità della roccia si sfalda e si disperde in miriadi di cristalli iridescenti che sfavillano leggeri nell'aria, ricadendo in drappeggi d'argento.
Ho preso confidenza con questo mio salire etereo verso una impossibile speranza, o piuttosto inseguendo quello che della speranza è il simbolo. Così avremmo immaginato gli angeli salire con corpo senza peso, o senza corpo, sostenuti da improbabili ali diafane, o candide come di colomba.
Il culmine ora è vicino; appollaiato sopra una esile cengia sono costretto ad utilizzare le bombole, il casco e la tuta pressurizzata. E presto, sopra la cresta, mi affaccio alla pianura.

La pietraia ghiacciata riflette trasparenze profondissime, si perde nel silenzio sovrumano degli spazi infiniti. Il suolo risuona ad ogni passo con echi ripetuti e vibrazioni percettibili solo appoggiando l'orecchio o il capo direttamente alla roccia. Ombre senza sfumature si proiettano nella profondità più trasparente. Il cielo è costellato di satelliti, a forma di minuscole falci di fuoco. La Terra appare splendida, con accanto, appena visibile, la Luna. Il Sole è minuscolo, ma abbaglia con la sua luce bianchissima. L'orizzonte segue una curva accentuata e, pure dall'altura su cui sono salito, le asperità del terreno lo rendono molto irregolare. Le rocce ed i crateri illuminati che si ergono dalla pianura risaltano lucenti contro il cielo nero, e ad occidente il pianeta spunta arcigno come una enorme cupola. Le fasce rosse, oblique, si volgono tra vortici rilucenti in una immobilità innaturale.
Il cielo, nero in una eterna notte senza crepuscolo, si popola di astri e mondi esaltanti; sono avvolto in contrasti assoluti e imprevedibili, in inumane lontananze. Anche se posso percorrere decine di chilometri, salire sulle alture o sprofondare in abissi incredibili, il mio andare, il mio correre, il mio salire affannato non mi toglie da questa prigione di vuoto e di immenso.

Sono tornato al profondo del mio abisso. La luce diretta del Sole ha lambito per brevissimi istanti la corazza metallica della mia navetta facendola lampeggiare; ha esplorato rapida come il raggio di un riflettore le remote cavità, gli anfratti profondi, ha portato nel cuore della roccia giochi di ombre effimeri ed inutili. Per pochi istanti mi abbandono a questa bellezza inebriante; poi torna il terrore, il ribrezzo della mia solitudine. Basterebbe un insetto a farmi compagnia: la mosca che di notte ti importuna, il ragno che distende la sua rete, che si ritira appena disturbato, per ritornare poi cauto al suo lavoro in una gara d'arte e di pazienza. Su Ganimede la vita è vegetale; l'unico moto è dato da correnti che muovono drappeggi inconsistenti, come diafane ali di libellula, o carnose collane di tentacoli fioriti come membra di meduse. Non c'è suono, ma mormorio soltanto.

Con la forza e la costanza della disperazione metto mano a ciò che di "nostro" mi è rimasto.
Con infinita pazienza, affidandomi più all'istinto che ad una vera tecnica, riesco a far funzionare la radio che era sembrata, in un primo tempo, irrimediabilmente danneggiata. Ora è necessario risalire lassù, consumando l'ossigeno rimasto, tentare ancora questa impalpabile unica speranza.
Dinnanzi al cielo nero, a questo muoversi di ineffabili mondi, mi affido ad un esile rottame di strumento. Esploro flebili suoni, ronzii, risonanze e, infine, riesco a intercettare voci umane lontanissime, appena percettibili. E' un dialogo dalla Terra. Brevi frasi concise, ripetute, confermate, seguite da segnali, cifre e codici. Lunghissimi intervalli, e poi il discorso riprende con voci di consenso, con risposte a sottintese domande non udite. Grido con voce disperata un appello, un richiamo, una preghiera che nessuno udirà. Poi mi abbandono esausto. Ad occidente, come una enorme cupola sospesa nel cielo, incombe Giove. Ora non posa sulla vetta dei picchi, ma lo separa dal suolo una fascia nera, obliqua, macchiata soltanto da una falce brillante di luce: il satellite Io.
E a oriente, simmetrico, Callisto è un altra piccola falce luminosa. E' una breve estasi di cielo: prima di ritornare alla mia ombra contemplo il disco rosso come i più teneri e trepidi tramonti.

Si può definire "intelligenza" la capacità di reagire in diversi modi appropriati agli stimoli esterni; cioè una capacità di scelta di comportamento in funzione delle condizioni in cui ci si trova. Le api, o le formiche, nella loro perfetta e complessa organizzazione non sono intelligenti, ma obbligate da un istinto che le guida senza possibilità di mutamenti. L'astronave, pur essendo abitata da uomini scelti, eccezionali, nel suo insieme è un essere stupido, programmato per eseguire un determinato lavoro, e per reagire in modo previsto in ogni prevedibile situazione. Nella sua complessità è obbligata al proprio programma e, anche se molti, anche se tutti i membri del suo equipaggio soffrono, si agitano, si preoccupano, segue inesorabile il suo schema, e ciascuno deve eseguire diligentemente il proprio compito. Così, come un ragno afferrato per una zampa fugge distaccandosene e l'abbandona, così l'astronave prosegue il suo viaggio senza di me.

I fiori su Ganimede sono ricchi, carnosi: hanno molta sostanza ma niente profumo e pochi colori.
La luce è subacquea; ha un colore azzurrino, diffuso, mai intenso, e i tramonti, come le aurore, sono lunghissimi nella zona viva, coperta dalla crosta di ghiaccio, e alternati a notti in parte luminose e verdastre per il caldo chiarore del pianeta, e in parte oscure nel modo più assoluto. Il contrasto è vivissimo con i rari crepacci non coperti, dove invece le sfumature non esistono e il minuscolo globo del Sole colpisce ogni cosa con luce accecante, accendendo intensi chiarori improvvisi a rompere la notte più fonda. I corpi luminosi minori passano rapidi fra i bordi delle fenditure e la loro luce riverbera fugace tra le pareti smaltate di ghiaccio, si appoggia e si assorbe su brevi umide cenge muscose. Attendo la sera. Il raggio del Sole sta risalendo impercettibilmente ma inesorabile la parete del crepaccio e, nel profondo delle caverne, giochi di ombre, riflessi lontani, correnti di vento più impetuose, presagiscono l'avvento della notte. Sulla Terra è il momento dei melanconici ricordi; qui dura troppo a lungo e fa paura.

L'eremita vive nella solitudine dei monti. Rivolge la parola agli animali; contempla e medita i misteri infiniti dell'anima e di Dio. Gli uomini sono là, giù nella valle, che lavorano e parlano.
Ha rinunciato alla vita comune ed alla voce per meditare e pregare anche per loro. L'eremita è vicino alla sua gente: le sue parole sono scolpite nella roccia, toccano i cuori, risvegliano la mente intorpidita. Ogni pensiero si affina; è una catarsi da cui nasce un uomo più vero, più profondo, e dalla comunione con quell'uomo tutto il mondo si accresce e si sviluppa. Ma verranno un giorno pii, i fratelli, a raccogliere le mie membra e a ricomporle, come io ho ricomposto le membra di Hans?

Freddo e torpore. Questa notte lunghissima è un tormento. L’oscurità costringe all’inerzia e i miei pensieri sprofondano sconsolati nei ricordi. Non c’è futuro, perché non c’è speranza. Queste mie membra resteranno qui. Faranno parte dell’Universo, di una storia fantastica che si misura in miliardi di anni. Più breve del fuggevole bagliore di una meteora è la storia trascorsa dei millenni.
Restavo affascinato dal racconto dei resti restituiti intatti dai ghiacciai dopo decine di anni, o addirittura di mummie conservate per tempi inimmaginabili. Il corpo può rimanere incorruttibile su questi gelidi scogli per millenni. La vita non si distingue più dalla morte, il moto dalla fissità che mi circonda, il mio silenzio da quello delle cose. Lievi sussurri, fremiti, sospiri; il disperato afferrarmi a una speranza: forse qualcuno ancora può cercarmi: devo muovermi, fare... Cosa fare?

Ho incominciato ad analizzare le cose, a catalogare ciò che mi circonda, nella mia immensa prigione che vado esplorando. Fra poco sarà nuovamente chiaro, e andrò cercando sempre più lontano, nel mistero di caverne e di antri. Andrò a conoscere le viscere di questa terra ospitale e deserta. Così Adamo vide la prima volta il paradiso, con occhi nuovi, e lo stupore immenso si volse in una irrefrenabile tristezza. E Iddio creò la donna. Gli occhi si sono assuefatti all’oscuro, e di mano in mano che la luce si accresce nella grotta, vado cercando il profondo degli antri, fin dove scompare ogni vegetazione, e ai margini si accumula una massa bruna di scorie inerti.
L’umanità non esiste più: tutto il mondo è mio, ed io non so che farmene. Unico superstite mi anniento in una contemplazione astrusa e senza nome. Conosco solo i nomi delle stelle, dati da un popolo lontano e irraggiungibile. Mani umane hanno impiegato secoli a plasmare i primi grezzi utensili, a formare dalla nuda materia i primi oggetti. Ora i pochi sofisticati attrezzi che mi restano, si dimostrano inefficaci e inutili per la mia vita, tornata primitiva. L’indagine che svolgo sulle cose resta sterile perché senza altra ragione che sé stessa. Solo a me stesso posso rivolgere oggi umano affetto, un attenzione fatta di segni, di gesti e di parole. Questo mondo che oggi mi circonda, è pure bello, ma vorrei tentare di mutarne in qualche piccola parte le strutture: farmi una casa, oppure coltivare, con alieni criteri, una cultura di queste strane specie vegetali che mi forniscono insipido ma efficace nutrimento. Ritengo inutile questo, e impiego il mio tempo, virtualmente illimitato, in conoscenze dirette ed esteriori: alla esplorazione sommaria di luoghi e cose, cogliendone la meravigliosa varietà, stupito per la bellezza che vado contemplando, fine a sé stessa, come scopo unico di questo scorcio di esistenza che mi è concesso di vivere, al di là di luoghi e voci umane. Solo a me stesso dedico un attesa inesorabilmente vuota e illimitata, e con me stesso si consuma il nulla.

E' notte. Nel crepaccio l'oscurità è assoluta. Ho dovuto abbandonare la navetta, lambita da tiepide correnti, e rifugiarmi in alto, nella caverna, presso la crosta gelida, da cui traspare una luce verdastra. Non ho più ossigeno e la superficie esterna è per me per sempre inaccessibile. Giaccio immobile al freddo e i miei pensieri vanno a esperienze lontane, ed il mio sogno si mescola ai ricordi. Dal rifugio, arroccato sulla cresta scoscesa, guardavamo la valle. Nel silenzio il soffio del vento ci portava flebili e confusi i rumori lontani: il latrare di un cane nella notte, il rombo di un motore solitario. Il torrente appariva come un nastro d'argento al raggio della luna. Domani saliremo più in alto. Così, senza saperne la ragione, siamo saliti più in alto, più in alto ancora; abbiamo staccato i piedi dalla terra per librarci nell'aria: più in alto ancora. Abbiamo lasciato il mondo per entrare in un sogno fatto di stelle. La famiglia sono ora i compagni, a cui la mia speranza si affida, a cui confido questo ideale folle, che dimentica l'essere carne e cuore, a cui risponde un sentimento più alto. Essere uomini: vincere nel pensiero, nell'audacia; vincere nel coraggio, con pazienza, con la fatica strenua di ogni giorno per salire più in alto, ancor più in alto; più in alto, dove la mente non arriva. Ho preparato la valigia per andarmene: la decisione è presa, ed è iniziata, dopo fervore di studi e di fatiche, la prima tappa della mia avventura. All'abbraccio di mia madre tornerò presto, per la prima licenza. Eppure sento quanto è grande il passo che sto compiendo, quanto spazio di mondo e di universo mi separa piano piano dalla casa, dai dolci affetti familiari, dal cuore degli amici sinceri della scuola, dalle piccole imprese giovanili.

Entro, con un passo più grande in un attesa che dovrà farmi uomo.


II PREMIO LIBRO EDITO DI POESIA
Credere e amare

...dinai nefela dromaiou


O nuvole lievi che andate tranquille
portate dal vento in vortici alati,
portate lontano i miei sogni,
sul mare infinito,
a sciogliersi, piano come le nebbie
nel cielo sereno d'estate,
al raggio del sole levante,
che tutto rinnova di luce
e scalda con dolce carezza
il mio cuore per sempre fanciullo.
4.12.1960

Scendi alla riva


Ancora un poco il sole e il cielo limpido.
Ho chiesto di sperare ancora un'ora
perché nel mio passato la tua vita
avesse ancora la luce di un mattino.

Oggi non più. Torniamo. Senza ombre
scende una sera torbida e pesante.

A che serve sentire che nel cuore
c'è l'ansia di una voce sconosciuta?
A che serve sapere che tremando
nascondiamo a noi stessi ogni timore?
Come un urlo improvviso nella notte
che pigramente ignori o non ascolti:
domani si saprà che cosa è stato.

Nulla di nuovo nasce sotto il sole
e ciò che fai non giunge alla sua luce.

La pienezza che cerco nel fulgore
di un cielo sconfinato sul deserto
si rinchiude nel morbido abbandono
di una tiepida notte senza stelle.

Non piangere: se cerchi di un fratello
che divida con te la solitudine,
scendi alla riva, cerca una sorgente
che l'ansia di domani non contamini.

Offri il tuo corpo come la tua anima
a chi ha sete di te; lascia alle spalle
la via percorsa: ad una scelta nuova
apriti, senza timore di un passato
che rimbomba
tra le navate vuote del tuo cuore.
25.5.1965

Confini

Che cosa c’è al di là dei miei confini,
che cosa c’è nel fondo del mio cuore?

Quando la sera è lunga, e la mattina
ci sembra solo attesa della sera;
quando la vita fugge come un fiume,
e ti aspetti alla fine l’acqua amara;
quando non trovi un nome che ti ama
e nulla ti è rimasto da donare.

Che cosa c’è nel fondo del tuo cuore,
che cosa c’è al di là dei tuoi confini?
30.8.1991

Luglio


Non c'è luce nel cielo.
Torrido il sole di luglio
mi asciuga l'anima,
arroventa i pensieri,
che fondono molli e incoerenti.
Mi afferro qua e là, senza senso
a vecchi ricordi che offrono
vana parvenza di ombra.
A sera la luna
tratteggia tra i monti
drappeggi di nuvole estive.
Ed io brancolo, cieco, abbagliato,
fra morte speranze, e non vedo
la luce che folgora in cielo.
12.7.1995



GIACOMO ABBATE

IV PREMIO FANTASCIENZA
SEGNALAZIONE DI MERITO SEZIONE UNITA’ D’ITALIA
III PREMIO RACCONTO
Solo

In tribunale a Savona si discute una causa di divorzio. Giuliano sa già la conclusione e il suo cuore è stretto in una morsa d’angoscia. La colpa è sua, ma ora parlano, parlano e che splendida figura fa Marina, sua moglie, quando risponde alle domande e racconta. Bellissima, luminosa, compunta, i lunghi capelli sciolti, le belle gambe, le belle ginocchia unite, rispettosa, aggraziata ella incanta tutti; rilassata, con la sua voce melodiosa, risponde con grazia irresistibile; con esattezza e proprietà di linguaggio, concisa e implacabile ella demolisce.
Tocca a Giuliano: una differenza abissale con sua moglie; grosso, massiccio, le mani che non sa dove mettere, le gocce di sudore sulla fronte, le risposte esitanti, la voce balbettante, l’agitazione, la confusione destano compatimento e disprezzo. Incarna alla perfezione il colpevole e del resto è un uomo timido, sprovveduto, sconfitto in partenza.
Ora, soldi alla moglie per l’affitto, per il  mantenimento suo e del bambino, il pagamento delle cure mediche e via di seguito. L’automobile resterà a lei per ragioni evidenti.
I due escono, vanno a casa; lei lo fa sedere e gli parla: ogni parola una pugnalata al cuore. Gli ricorda, soavemente e con la parola fluente, la sua mancanza di ambizione, che da manovale in fabbrica poteva farlo diventare operaio specializzato, ma non ha mai fatto niente; un uomo di trent’anni che fa fatica a ordinare le portate nelle trattorie; uno che dice troppe volte “Scusi”, che scende dal marciapiede se vede di fronte a sé qualcuno che arriva, e tutto lei biasima del suo comportamento. Lui è accasciato sulla sedia, un pugile schiantato dal k.o., incapace di parlare, di difendersi, tanto più che quello che Marina dice è profondamente vero. Lei si è evoluta: da commessa in un bel negozio di vestiario di Savona, è vicina, ad appena ventisette anni, a diventarne la responsabile. La bella ragazza che lui ha sposato è diventata un splendida donna sicura di sé e il divorzio sarebbe arrivato anche senza il suo stupido tradimento di una sola volta, ovviamente scoperto subito.
Gli ha rimproverato di essere avaro, ma anche se non riesce a rispondere, dentro di sé si ribella: non avaro, solo parsimonioso e Giuliano ricorda perché è diventato così.
Aveva quindici anni e suo padre aveva perso il suo lavoro di impiegato; dopo pochi giorni lo aveva assunto una ditta di pulizie industriali dove svolgeva un lavoro per lui pesantissimo.
Arrivava a casa stanco, ma Giuliano non se ne rese conto finché una sera, in vicinanza del portone del palazzo dove abitavano, vede da lontano suo padre arrivare; le spalle curve, il passo strascicato, ma sua figlia, lo chiama; ecco che l’uomo si raddrizza; gonfia il torace, il suo passo diventa vigoroso. Salgono in casa e si mettono tutti a tavola. Giuliano vede che a suo padre tremano le mani, anche se parla tranquillo e vivace. Va a dormire presto e, mentre loro tre guardano la televisione, con una scusa, e costretto da un sentimento angoscioso, apre la porta della camera da letto dei suoi genitori. Suo padre dorme col sonno pesante dell’uomo sfinito.
Qualche tempo dopo Giuliano passa davanti alla portineria dello stabilimento dove suo padre lavora. Arriva il pulmino delle pulizie e ne scendono alcuni uomini tra cui suo padre; un uomo, il capo gli si mette di fronte e lo rimprovera aspramente; ed ecco suo padre chinare la testa, umiliato.
Giuliano prova un odio selvaggio per quell’uomo, vorrebbe rompergli le ossa, strangolarlo, farlo a pezzi con un pugnale, ma non fa niente. Sconvolto va a casa; non racconta a sua madre ciò che ha visto, le parla della stanchezza di suo padre, ma lei lo gela con una frase terribile” Tuo padre è un vero uomo”. Poi gli dice che stanno cercando un lavoro più adatto e infatti arriva un impiego in un’altra fabbrica, ma Giuliano, emotivo com’è, è segnato per sempre.
L’indomani, uscito da scuola passa davanti a una gelateria, prende i soldi, ma il ricordo straziante lo ferma: “Ricordati come tuo padre li guadagna”. Rinuncia al gelato e a tante altre cose e diventa sensibile agli sprechi, che lo feriscono profondamente; mentre sta mangiando ad una sagra estiva, vede col cuore stretto che troppa gente lascia sul tavolo piatti di pasta, rotoli di salsiccia appena toccati, braciole intere, panini e frittelle appena addentate.
Così è diventato prudente nello spendere, anche se, passando davanti alle splendide gioiellerie di Savona e vedendo i gioielli scintillanti, gli verrebbe voglia di sfondare le vetrine e prendere manciate di anelli e collane per adornare la sua Marina; intanto intuisce che c’è qualcosa che non va, perché lei si concede più raramente e con fastidio allo scioccone che chissà perché ha sposato. Giuliano nasconde a se stesso tutti i segnali, ma vive tormentato.
Intanto Marina esige che lui si cerchi subito un appartamento; il bambino è dai nonni e Giuliano dorme sul divano. L’appartamento è trovato subito, le valige sono pronte e, usando per l’ultima volta la sua auto, Giuliano si trasferisce. Non ha soldi per compare i mobili e dorme per terra su qualche plaid.
Giuliano soffre crudelmente, è un mammone senza nessun interesse e la sua vita ruotava attorno a Marina e al bambino, era piena di loro; ora non sa più cosa fare, gli manca il peso del bambino sulle gambe, le sue braccia al collo, i teneri baci, i giochi; ecco, questo Marina glielo riconosceva; la sua capacità di giocare per ore, il suo entusiasmo per qualunque cosa il bambino facesse, anche se gli rimproverava l’assoluta incapacità di farsi obbedire.
Giuliano gira per Savona senza vedere niente, si siede per ore ai giardini, ferito a morte; la vita da solo non ha più significato e ora capisce bene quelli che si suicidano. Va alla Torretta, si appoggia alla ringhiera del marciapiede sul mare, irresistibilmente attratto dal moto incessante delle onde: buttarsi, farla finita. Lo salva la sua debolezza di carattere, si aggrappa a cose pratiche: tenersi pulito, lavorare, racimolare un vecchio frigorifero, qualche mobile. L’incessante arrovellarsi lo consuma, la sua salute ne risente: esaurimento nervoso, medicine e soprattutto la meravigliosa pastiglia per dormire; sta attentissimo ad averne sempre di riserva e per la prima volta comprende cos’è la dipendenza da una sostanza.
Giuliano rinuncia a vedere il bambino: ogni volta è uno strazio unito a un estremo disagio, perché Marina vuol essere sempre presente ai loro incontri ed è meglio la lontananza definitiva.
La ditta dove lavora ha un nuovo proprietario e la ristrutturazione si abbatte pesante. Giuliano è licenziato e va subito a incassare la liquidazione; Marina lo aspetta ed esige tutta la somma, ma lui questa volta si ribella: trattiene una piccola parte per sé, improvvisamente conscio dell’enorme affitto da pagare; va a casa sua e guarda lo squallido appartamento quasi senza mobili eppure immensamente prezioso e che bisogna lasciare.
Dove andare? Sotto i ponti, non c’è scelta. Raccoglie la sua roba in due grossi borsoni, poi si ricorda di una vecchia casa abbandonata sulle colline di Savona, quasi nascosta dalla vegetazione e abbastanza vicina alla città.
La raggiunge e guarda se ci sono tracce di persone, ma è evidente che da moltissimo tempo non è frequentata da nessuno; è in una posizione splendida, riparata dal vento e con la vista sulla città e sul mare; al primo piano ci sono tre stanze e in quella centrale più riparata dal vento porta le sue borse. Si mette a pulire come può, stende i due plaid che ha portato, recupera due vecchie sedie, uno scaffale tarlato, qualche vecchio bicchiere.
A posto. Si sdraia, sentendosi irreale, fuori dal mondo; passano le ore, viene buio e la casa e il terreno intorno, il boschetto vicino si animano.
Sul tetto corre qualcosa, saranno ghiri o gechi, una vecchia porta sbatte, versi strani di uccelli.
Com’è diversa la percezione dei rumori tra la città e la campagna! In città ci sono voci, automobili, luci, infiniti suoni che finiamo per non sentire più perché formano un sottofondo costante. Nella solitudine della campagna ci sono suoni ignoti, animali notturni, lunghi silenzi e i sensi sono all’erta per captare la vita segreta di quel mondo sconosciuto.
Giuliano ricorda come al bosco delle Ninfe ci siano i serpenti più grandi d’Italia, lunghi fino a più di due metri e con un diametro di otto centimetri, Cervoni o Colubri di Esculapio, presenze inquietanti; certo non saliranno le scale, però ………
Si addormenta, ma nella notte viene svegliato da un rumore spaventoso: un grufolare sordo, grugniti profondi, rompersi di piante, si alza col cuore che batte all’impazzata e si affaccia cautamente: un enorme cinghiale cerca da mangiare in quello che una volta era il cortile; rimane a lungo, Giuliano ha tempo di calmarsi e di vedere che il cinghiale è di media grandezza e certo non rappresenta un pericolo per lui, tuttavia capisce che deve andarsene; non è un uomo da campagna.
Se ne convince quando una sera, andando verso la casa, una creatura alata con enormi occhi luminosi quasi gli arriva addosso; terrorizzato, fa fatica a capire che è un gufo, dalle grandi ali e dagli occhi fosforescenti.
All’indomani, scendendo verso Savona, passa in una crosa dove non passa ormai quasi nessuno, perché è molto stretta in mezzo ai muri e vi si passa solo a piedi.
Giuliano vede qualcosa che lo riempie di gioia: c’è un grande edificio pubblico che sporge un po’ sulla crosa e la sua parete non ha finestre. Ritorna più in alto e vede che tra la sommità del muro e il vano che sporge c’è un vano lungo e stretto, non pulito da anni. Badando a non farsi vedere lo raggiunge, scavalca una ringhiera e va ad esplorare questa specie di cunicolo: è asciutto, ventilato, ben protetto dalla pioggia e con uno strato di aghi di pino sul fondo.
Raggiungerlo da dove è passato è pericoloso perché dai palazzi, anche se sono abbastanza lontani possono vederlo, ma c’è un aiuto: un tubo del gas sale dalla crosa al cunicolo e Giuliano prova subito la scalata; il muro è ruvido e il tubo ha il diametro adatto ad essere saldamente afferrato dalle mani, per cui la salita è piuttosto agevole.
Perciò in tre viaggi trasporta i suoi averi nel cunicolo e quella notte di maggio dorme tranquillo.
Ora bisogna pensare a molte cose: trovarsi un lavoro, tenersi in ordine e pulito perché potrebbe incontrare i suoi genitori, e sua sorella, che fortunatamente stanno al Santuario, o i suoi suoceri che però stanno ad Albissola.
Giuliano scopre il vantaggio della società dei consumi: nei centri commerciali ci sono grandi gabinetti riscaldati e con acqua calda, dove è facile lavarsi e farsi la barba, nonché lavare i vestiti, messi in una borsa decorosa per non destare sospetti.
Cominciano le sagre nei paesi e, quegli sprechi di cibarie che tanto gli davano fastidio ora tornano a suo vantaggio: passa tra i tavoli, prende braciole, salsicce, pasta, versa il vino avanzato nella sua bottiglia e mangia benissimo; bisogna, come gli animali che vanno in letargo, accumulare grasso per l’inverno.
Il lavoro è difficile da trovare, anche i lavori saltuari nei bagni o negli alberghi non escono, anche perché le leggi sono più severe, i controlli più frequenti, e lavorare in nero è quasi impossibile.
Giuliano cerca di trovare soldi. Camminando per le strade guarda avidamente a terra in cerca di monete perdute, ma trova pochissimi centesimi.
Alla stazione e dove ci sono le macchine del caffè, apre gli sportellini dove cadono le monete di resto, ma anche qui i risultati sono scarsi.
Certo, ci sono i dormitori pubblici e le mense di carità, ma un forte senso della vergogna gli impedisce di approfittarne; gli sembra sacrilego, a lui giovane e forte, mangiare il pane dei disgraziati, dormire nei letti degli sventurati.
Inoltre ha paura di essere veduto da qualcuno che lo conosce: sarebbe il disonore sulla sua famiglia, sui suoceri e un giorno futuro qualcuno potrebbe dire a suo figlio di aver visto suo padre in mezza ai miserabili, ai vinti della vita.
Arriva l’autunno, le sagre finiscono e fa più freddo. Bisogna equipaggiare il suo rifugio; perciò raccoglie molti giornali perché la carta è estremamente isolante; raccoglie dei cartoni di imballaggi, dei sacchi di plastica, delle borse. Poi, un colpo di fortuna: vede una donna che con un grosso involto sulle braccia, si avvicina ai bidoni della spazzatura; non riesce ad aprirli e appoggia il suo carico a un bidone; Giuliano si avvicina e vede che un pesante tappeto arrotolato; colmo di gioia, benedicendo il consumismo e facendo attenzione a non essere visto, raccoglie l’involto e lo porta nel suo rifugio.
Doppia gioia, sono due vecchi e pesanti tappeti, che, distesi sui giornali e con sotto lo strato di aghi di pino formano un ottimo giaciglio.
Diventa un esperto di spazzatura, ma deve ricorrere a un trucco. In un negozio di articoli cinesi si compera una parrucca; dopo il divorzio è diventato semicalvo e, provando la parrucca davanti allo specchio del negozio è stupefatto del cambiamento: veramente irriconoscibile.
Perciò può guardare nei bidoni e, se proprio ridotto allo stremo, andrà alla mensa dei poveri sicuro di non essere riconosciuto.
Impara a conoscere l’orrore della spazzatura: ci sono mobili, piatti, libri, sedie, lenzuola e molto altro e si rende pienamente conto del significato di una frase letta un tempo sul giornale: con la spazzatura degli Italiani si potrebbe sfamare un continente. Trova vari plaids, dei borsoni e altro. Con del silicone incolla un plaid sul soffitto del suo rifugio, in modo da formare una pesante tenda. Piano piano si fa un nido caldo e ben protetto.
Il mangiare è un problema; potrebbe andare dai suoi genitori, ma una frase detta certo a fin di bene, lo ha stroncato. Parlavano della sua situazione e suo padre gli dice. “Stringi i denti, fai vedere che sei un vero uomo”, la terribile sentenza che prima o poi tutti i maschi si sentono dire; ma tanti, sotto la corazza sono bambini incerti e senza coraggio e Giuliano è uno di questi.
Perciò ogni tanto telefona e tutto è a posto.
Una sera vede alcuni ragazzi che, seduti ai giardini mangiano pizze e focacce; affamato com’è attende fiducioso senza farsi vedere ed è fortunato; se ne vanno lasciando i cartoni sulle panchine e lui, con le mani tremanti li apre e trova dei bei pezzi di pizza ancora calda; li mangia avidamente, benedicendo per l’ennesima volta la civiltà dello spreco e piange di gioia; ormai ha le lacrime facili, un’emotività esagerata dovuta all’esaurimento, altro che vero uomo.
Diventa un lupo di città, esperto di sprechi di cibo, oltre che di spazzatura. Tuttavia la fame resta, e un mattino non resiste; conta gli spiccioli e entra in un bar; il profumo del caffè e delle brioches calde lo colpisce come una mazzata. Solo ora apprezza profondamente quegli alimenti divini che gli altri avventori consumano con indifferenza; la magnifica brioche gli nutre l’anima, lo splendido caffè lo inebria come una droga. Sta per pagare, ma il barista ha letto qualcosa sul suo viso e gli dice, con la voce un po’ balbettante: “E’ il mio compleanno, offro io”, una bella bugia, ma Giuliano prova una gratitudine profonda, farfuglia un ringraziamento ed esce.
Ha notato che la propria voce è cambiata: con il fatto di non parlare quasi mai e certo con l’esaurimento nervoso, le corde vocali si sono irrigidite, la voce è più rauca e incerta.
Non legge i giornali e va dalle edicole a sbirciare un po’ di titoli e una mattina ha un colpo di fortuna; un uomo esce dal bar e getta il giornale piegato nel cestino della spazzatura.
Giuliano lo prende e può leggerlo, gli sembra di essere più dentro la vita, meno solo.
Tutte le mattine attende il giornale,ma un giorno ha una sorpresa amarissima: l’uomo si è accorto della sua manovra e, prima di uscire, strappa in varie parti il giornale e lo va a buttare nel grande bidone vicino, guardando Giuliano con odio. Ormai ripete lo scempio tutte le mattine, con cattiveria gratuita; del resto anche il bene è gratuito e come non si possono evitare i gesti di cattiveria così non si può impedire a certa gente di essere buona.
Non sta bene e va dal suo medico che, preoccupato lo manda dal neurologo; Giuliano va alla visita pensando con angoscia all’enorme spesa; il dottore lo visita e lui è intimidito perché, mentre il suo dottore è basso, grasso, rassicurante, il neurologo è alto magro, con duri lineamenti. Dopo la visita lo invita a parlare e, con grande stupore Giuliano racconta tutto, si lascia andare anche se sprofonda nella vergogna per il fatto di essere ridotto così, un uomo giovane e valido allo sfacelo.
Ma arrivano le incredibili parole di lode da quell’uomo in apparenza così duro: apprezza il fatto che Giuliano non si lasci andare alla sporcizia, al bere, a mendicare, magari alla droga. Poi la sentenza “Lei è un vero uomo”. Incredibile. Quando prende i soldi per pagare, il neurologo gli raccomanda di tornare tra tre mesi, senza sensi di colpa; bando al vittimismo, alla vergogna, perché, come gli dice, uno dei problemi di Giuliano è il sentirsi inadeguato, il mangiarsi il cuore.
Cammina a lungo in città, sbalordito da quelle parole, significano la rinascita. Arriva in via Paleocapa e vede da lontano Marina, in compagnia di un uomo; il bambino è in mezzo a loro e li tiene per mano. Lei è incredibilmente bella, altera, elegante, fiera, cammina come una principessa. L’uomo è un giovane avvocato di Savona. Giuliano lo ha saputo dai suoi; bello, elegante. Soprattutto la sicurezza di sé: mai Giuliano potrebbe camminare così, senza sicumera ma con quel modo così … così … non gli veniva la parola, ma certo l’avvocato non si scostava, non diceva “Scusi” cento volte.
Li segue; entrano in un bellissimo bar, dove mai Giuliano avrebbe osato entrare e, da fuori li osserva, con che eleganza si tolgono i cappotti, li appendono, si siedono; Marina, la piccola commessa che lui ha conosciuto è diventata una signora; vestita con costosa semplicità, pochi gioielli, aristocratica.
Poi l’avvocato prende in braccio il bambino che gli mette le braccia al collo: un coltello rovente nella carne, una gelosia lacerante. Mi ha dimenticato.
Giuliano si avvia verso la Torretta, come già una volta irresistibilmente attratto dall’acqua scura del porto, che lo chiama dolcemente.
Non sei niente per nessuno, sei solo sulla terra, il sole si spegne,la muta dei cani urlanti attacca. Passano le ore, uno sconforto assoluto, non vale la pena di vivere. Un brivido di freddo lo scuote, pensa alle bellissime, inutili parole che gli ha detto il neurologo, tuttavia un fondo di coraggio lo sostiene. Pensa che lui sognava per suo figlio un futuro bello, ma incerto; invece adesso si può parlare di cose sicure: avvocato, ingegnere, medico. Meglio farsi da parte, vedere di nascosto suo figli che cresce nel benessere.
Ricorda con amarezza che i suoi suoceri erano contrari al matrimonio e ora certo saranno contenti; per la loro figlia c’è un uomo brillante, come meritava Marina, nata per primeggiare.
Ricorda invece con piacere che i primi tempi che erano sposati, un giorno che lei parlava al telefono con una sua amica, lo paragonava a un buon cagnone, paragone che gli piaceva moltissimo, infatti i suoi genitori avevano proprio un grosso cane affettuosissimo, ingombrante, con la coda imponente sempre in moto. Se qualcuno si sedeva, il cane, memore di quando era cucciolo, voleva salire in braccio, “dimenticandosi” di pesare trentacinque chili.
Se vedeva la mano di qualcuno appoggiata, faceva in modo, spingendo col muso, di infilare la testa sotto la mano per essere accarezzato; chi era sul divano non sfuggiva alle sue attenzioni, si sedeva a fianco, spingeva, leccava, insomma era irresistibile.
Col bambino era in perfetta sintonia, giocavano, si rotolavano sul pavimento e, quando erano stanchi si addormentavano abbracciati.
Ora tutto è finito, ed è inutile combattere, vivere.
Va nel suo rifugio ed è tentato di ingoiare tutte le pastiglie di sonnifero; sarebbe bello non svegliarsi mai più. Ma poi ne prende due e si addormenta profondamente e si sveglia nella mattina fredda e soleggiata. Con immensa fatica scende con la sua borsa e va nel solito posto caldo e si fa la barba e si lava, tutto con movimenti automatici, privo di interesse a qualunque cosa.
Come è vero che il sole si spegne! Vede le cose ma è spento, distrutto.
Lo rianima il profumo di caffè proveniente da un bar; entra, ma poi si ricorda di aver lasciato i soldi nel suo rifugio, per timore di perderli e ha in tasca solo pochi spiccioli.
C’è qualcuno seduto e un uomo solo davanti al banco sta mangiando una brioche. Giuliano è ammaliato da quel gesto e gli sfuggono parole che mai avrebbe pensato di pronunciare “Ho fame”. La premurosa gentilezza! L’uomo alto, magro, i capelli un po’ lunghi si gira, lo guarda. Il calore di quegli occhi! Prende una brioche, la porge a Giuliano e ordina un cappuccino. Poi prende due pezzi di focaccia e li posa su due tovaglioli davanti a Giuliano, invitandolo a mangiare. Gli dice altre cose; è di Genova, in trasferta a Savona per dei lavori e rimarrà ancora qualche giorno.
Mette in un sacchetto due pezzi di focaccia e lo porge a Giuliano; lo invita domani al bar alla stessa ora.
Un’onda di energia passa da quell’uomo a Giuliano; è certamente un potentissimo pranoterapeuta senza saperlo, e chi gli sta vicino sta bene senza capire perché. Ora mette un braccio sulle spalle di Giuliano, un gesto fraterno, poi saluta ed esce. Mentre questo succede, Giuliano vede tutto con grande chiarezza, i colori sono vividi e vede anche il viso del barista, che manifesta un estremo disprezzo per lui, lo sguardo insultante, la piega di disgusto sulle labbra. Basta veramente poco ad esprimere un sentimento.
Pieno di forza e di calore, Giuliano esce e si ripromette di tornare, sfidando se stesso e vincendo l’onda di disprezzo del barista. Ora pensa a quanti giorni rimarrà l’angelo, lo chiama così perché gli è venuta in mente una frase che sua nonna diceva: “Gli angeli non sono in cielo, camminano sulla terra, ma troppe volte non li vediamo”.
Mettendo la mano in tasca si accorge che ci sono dieci euro, certo messi dall’angelo senza che lui se ne accorgesse.
Ora bisogna pensare a quanti giorni si ripeterà il miracolo: deve essere un numero magico, tre, cinque, o sette, ma non bisogna pretendere troppo. Tre è il numero perfetto.
L’indomani è davanti al bar, col segreto timore che l’uomo non ci sia, invece è lì, apre la porta lo fa entrare e gli stringe la mano, il caldo sorriso, gli occhi duri e luminosi, che sconfiggono la ripugnanza ben disegnata sul viso del barista.
Il quarto giorno Giuliano entra nel bar ed è sicuro di non trovare l’angelo e infatti il barista gli dice dolcemente, grondando malignità: “Se n’è andato, basta focacce e caffè”. Già. Prende un caffè, paga e se ne va.
Quell’uomo lo ha nutrito, ma lo ha anche curato, si sente meglio; fa freddo, ma il ricordo di quegli occhi, la stretta di quella mano vigorosa lo scaldano.
Quella sera, uscito dal supermercato caldo, Giuliano si avvia verso il suo rifugio, nella notte scura; nevica forte e in piazza Saffi non c’è nessuno. Un uomo gli viene incontro, rapido tira fuori un coltello, chiede il portafoglio; il pugno di Giuliano colpisce il rapinatore che scivola, cade e batte la testa, rimanendo svenuto.
La giacca è aperta e si vede un portafoglio spesso; Giuliano lo prende,lo apre, mentre è invaso da una selvaggia impressione di trionfo: ci sono centinaia di euro, li prende e se li mette in tasca, sfrega, sulla neve il portafoglio per togliere le sue impronte e lo rimette nella tasca del rapinatore.
Giuliano va al telefono pubblico di piazza Saffi e chiama il 118. Poi attende l’arrivo dell’ambulanza, nascosto dietro le auto parcheggiate. Tutto bene, arrivano e caricano l’uomo.
Facendo un giro molto lungo Giuliano ritorna al suo rifugio, intanto le orme vengono cancellate dalla neve che cade fitta. Arrivato alla crosa, si arrampica e bisogna essere prudenti: guai a farsi male, non c’è nessuno a cui chiedere aiuto, le finestre sono sprangate in tutti i palazzi e inoltre non bisogna pesare sugli altri.
Si scrolla di dosso la neve ed entra nel vano preparato con tanta cura; la prudenza è servita a qualcosa: è ben asciutto e lui si sdraia e si copre con vari plaid racimolati qua e là. Prende la sua pastiglia per dormire quando arriva la mazzata.
Un pensiero terribile: gli appare il viso dell’angelo e capisce; dice a se stesso “Hai ricevuto il bene, hai fatto il male; pagherai caro”. Tormentato dal rimorso stenta a prendere sonno, anche se ha preso la medicina. Ma poi scivola in un sonno profondo e senza sogni e l’indomani mattina si desta prestissimo, infatti ha messo la sua sveglia cinese (benedetti i negozi cinesi che con i loro prezzi bassi sono una manna per i poveri) alle cinque perché gli è venuta un’idea esaltante: il comune cercherà spalatori e lui si presenterà presto. Si fa la barba, si lava con un po’ d’acqua contenuta in una bottiglia e poi mette al sicuro i soldi, una somma enorme quando si hanno pochissime esigenze. Però il rimorso rimane e bisogna fare un giuramento a se stesso, nel posto adatto.
Cerca di uscire spingendo il plaid che fa da tenda ed è preso dal panico: la massa della neve preme pesantemente; allora, piano piano spinge e riesce ad aprire un varco per uscire e, con la massima prudenza rimette tutto a posto. Scende nella crosa e cerca, con un grosso straccio che si è portato, di cancellare le tracce attorno al tubo del gas.
Scende in piazza Mameli e, davanti al monumento ai Caduti, giura di restituire i soldi rubati, non certo al rapinatore ormai scomparso, ma ad una istituzione benefica della città.
Ora bisogna fare una colazione abbondante per riprendere un po’ di forza in modo da poter spalare la neve.
Comincia, ma non è più abituato allo sforzo fisico e in più è indebolito da mesi di alimentazione insufficiente, e benché la neve sia fresca e pesi poco, si stanca subito, ansima; a un certo punto si sente male: lo prende un’estrema debolezza, il cuore batte veloce e deve sdraiarsi.
È vicino ad alcuni bidoni della spazzatura e c’è anche quello della carta recuperata. Fa in tempo ad aprirlo e prendere alcuni giornali, poi si stende sulla neve; per fortuna, in quello slargo non c’è nessuno, c’è solo il vento freddo e nevischio e la gente se ne sta in casa ed è anche presto per aprire i negozi.
Il malessere è terribile, un’angoscia estrema, l’impossibilità di darsi aiuto, mentre la mente rimane vigile; una volta, in officina aveva visto uno svenimento e ricorda che l’uomo era stato fatto sdraiare e gli avevano sollevato le gambe e Giuliano, con uno sforzo enorme solleva le gambe contro un bidone, mentre gronda sudore freddo; riesce a mettersi un giornale  sul petto e attende; peggiora, perde i sensi, rinviene; gli sembra che siano passate le ore; va un po’ meglio e guarda l’orologio: solo pochi minuti.
Si alza penosamente, le gambe tremanti, ma il malessere riprende perché, in posizione eretta, il sangue abbandona il cervello e Giuliano di nuovo si sdraia con le gambe sollevate; è ancora lucido, mentre l’oppressione al petto diventa orribile. Vomita e vede se stesso come dal di fuori: un vero uomo, si dice con feroce ironia.
Comincia a star meglio e cautamente si alza, fradicio di sudore e tremante di freddo; per fortuna c’è un bar poco lontano e,prendendo lo zainetto che si è portato, si avvia: attenzione a non barcollare.
Il calore del bar lo avvolge; poi il miracoloso cappuccino caldo e due brioches lo rianimano.
Va in bagno, prende dallo zaino la maglia e la camicia di ricambio che per prudenza si è portato e si cambia con la solita rapidità. Esce, bisogna spalare, è debolissimo e il freddo gli taglia la pelle; tuttavia spinge penosamente la neve via dal marciapiede, stando attentissimo a non accelerare troppo il battito del cuore.
Il tempo passa lento, reggersi in piedi è dura, poi, guardando l’orologio vede angosciato che sono appena le dieci. Di nuovo al bar, questa volta mangia due panini poi riprende a spalare; un po’ di forza e di calore sono tornati, quando si sente chiamare. È Marina, luminosa, con la pelliccia e un bel berretto, sembra un colbacco, lui si raddrizza, gonfia il torace e sorride: tutto bene, ha trovato il modo di guadagnare qualcosa e poi troverà senz’altro  lavoro. Ma lei vede un uomo stremato, il povero sorriso sulla faccia stravolta, orribile e gli chiede se ha bisogno d’aiuto. No, sta bene e a mezzogiorno andrà in trattoria; frasi fatte, timore di lasciarsi andare, strazio per il paradiso perduto.
A mezzogiorno in un altro bar, colpo di fortuna; c’è un tavolo vicino al termosifone, cibo caldo, caffè, riposo stando attento a non addormentarsi, ma la vecchia signora del bar lo invita ad appoggiarsi al tavolo e farsi una dormita; penserà lei a chiamarlo. Giuliano si addormenta subito e quando viene chiamato, impiega del tempo a capire dov’è. Ricomincia il suo lavoro, pulisce davanti al negozio di Marina approfittando della chiusura e procedendo rapidamente per allontanarsi il più possibile.
Alle sei è allo stremo delle forze, ma vede con gioia che riprende a nevicare; altro lavoro, altri soldi. Ora una bella cena completa, non più panini e brioches e poi si avvicina al suo rifugio; debole com’è guarda angosciato il tubo del gas su cui deve arrampicarsi; sale cautamente e per fortuna il muro è grezzo, ha degli incavi in cui appoggiare i piedi; guai a cadere proprio adesso.
Si chiude dentro e prende il suo tesoro: una piccola stufa a liquido (che meravigliose invenzioni!) la accende e subito un bel calore invade il piccolo vano. Quando c’è ben caldo si cambia e mette ad asciugare i panni bagnati su un manico di scopa che aveva raccolto; il desiderio di sdraiarsi è fortissimo,ma bisogna attendere che i panni si asciughino e poi spegnere la stufa per non provocare qualche guaio.
Intanto riflette sull’invidia; non sulla comune invidia tra persone, ma sull’invidia dei giornali e della televisione per il benessere che molta gente, rispetto al passato, si può permettere. Sempre a denigrare il modo di vivere, le comodità, le cure, il vestiario e tutto quanto rende facile vivere. L’abbondanza permette la generosità, però forse le persone delle cosiddette “Élite” vorrebbero il benessere solo per sé e la miseria per il popolo, come è stato per secoli.
Finalmente si corica, ma non prende la pastiglia per dormire per timore di non riuscire a svegliarsi.
Al suono della sveglia è pronto ad alzarsi; è ancora debole, certo è stato un piccolo collasso e pensa che, nel momento di maggiore angoscia si era detto “Hai fatto il male, devi pagare” e gli era apparso il volto dell’angelo indimenticabile. Sa di essere troppo emotivo e di ingrandire le cose, perché se tutti quelli che fanno il male pagassero subito, al mondo resteremmo in pochi.
Nevica ancora e per lui è una pacchia perché riesce ad accumulare soldi preziosi, risparmiando ferocemente, ma sempre nutrendosi bene. Finché, arrivati a febbraio nevica ancora e anche a marzo: è stato l’inverno più nevoso degli ultimi anni a Savona e Giuliano ha spalato tonnellate di neve.
Gira Savona e dintorni per cercare lavoro e lo trova nella ditta (scherzi del destino) di pulizie industriali dove aveva lavorato suo padre. È un lavoraccio, perché bisogna entrare a pulire in cunicoli scuri, in grosse tubazioni dove si lavora accucciati, in tramogge incrostate di sporcizia. Ci sono le maschere, i guanti, gli occhiali,ma resta un brutto lavoro e certi operai lo abbandonano, mentre Giuliano resiste, per guadagnare, poi si vedrà se si può migliorare.
Conosce il capo, quello che aveva rimproverato suo padre e che aveva destato in lui l’istinto di ucciderlo.
È un uomo collerico, maleducato, impulsivo.
Dicono a Giuliano che certi scatti che il capo non riesce a dominare sono provocati dal diabete, ma certo il carattere non è dei migliori.
Giuliano ritorna dal neurologo che ancora prolunga la cura e si congratula per come ha reagito al grave malessere che lo ha preso, senza chiedere aiuto o chiamare l’ambulanza.
Ora bisogna accumulare soldi e per mesi utilizzare il suo rifugio senza cercare appartamenti in affitto, diventando anche più prudente nell’entrare e nell’uscire; arriva l’estate ed è meglio qualche sera dormire a spiaggia dietro i cantieri Solimano o in altri posti protetti anche a Zinola e a Vado o in altri posti sicuri che ha trovato perlustrando attentamente la città, vedendola con occhi ben diversi da come la vede il cittadino normale. Telefona a Marina, usando quel telefonino che teneva sempre acceso con la stupida illusone che lei lo chiamasse, e dicendole che ha trovato lavoro  e se deve versarle dei soldi come ha stabilito il giudice. Ma lei rifiuta e gli annuncia che si sposa, un colpo al cuore che lo lascia inebetito, anche se era prevedibile.
Allora Giuliano prende i soldi che aveva rubato e li lascia in una busta ad un’istituzione savonese profondamente radicata nella città, e il sollievo che prova è immenso e quella notte sogna l’angelo, il suo viso duro e cordiale.
Se Giuliano potesse sapere una cosa sarebbe estremamente contento: Marina è segretamente fiera di lui; temeva che un uomo debole e appiccicoso come suo marito le fosse sempre tra i piedi con una scusa qualsiasi. Invece è scomparso e inoltre le ha scritto una breve lettera, certo completata con fatica da un uomo non abituato a esprimersi e a scrivere, in cui le spiega il motivo che non vedrà più il bambino: ha visto l’affetto dell’avvocato per suo figlio e loro due sapranno circondarlo di calore e sicurezza ed è inutile suscitare ansia e conflitto nel bambino. Lo vedrà crescere da lontano.
Aiutata da una persona fidata aveva saputo che Giuliano viveva in una specie di tana in città ed era pentita di avergli tolto quasi tutta la liquidazione, ma ormai era fatta. Era stata sconvolta quando lo aveva incontrato a spalare la neve, stremato, scarno e aveva visto, nascosta dietro le colonne dei portici, come spingeva penosamente la pala piena di neve. Ecco, era fiera di lui, si era dimostrato un uomo di carattere e pensava che il bambino avrà ereditato queste qualità positive.
Giuliano va a vedere il matrimonio ed è stupito: a volte si dice che c’è della belle gente, ma qui è proprio vero; bellissimi gli sposi, i genitori di Marina che ovviamente conosceva, ma è stupefatto a vedere quanto sono giovani e belli i genitori dello sposo, le due sorelle, gli amici.
Le parole del sacerdote ribadiscono la sua cacciata dal paradiso, e del resto, come dice di se stesso, il buon cagnone ha un solo padrone; ha amato una volta e può ritenersi fortunato così.
Giuliano sta meglio, ha recuperato le forze e diventa donatore di sangue; va anche ad aiutare nelle mense dei poveri, ma una sera vi incontra Marina che ha lasciato il negozio, ha avuto altri due figli ed è attivissima nel sociale, come si dice.
È ancora più luminosa e i poveri la divorano con gli occhi, tutti vorrebbero essere serviti da lei. Giuliano perciò cambia e si inserisce in una delle Croci di Savona. Riflette sul significato delle parole, come spesso ama fare e sente di essere un uomo solitario, ma non certo solo; c’è un caldo legame con la gente che lo fa sentire pulsante di vita.



MARIA COLLINA

III PREMIO ROMANZO O RACCOLTA DI RACCONTI INEDITI
In braccio a mia figlia

Nella vita un’altalena di braccia tese. Braccia che chiedono,
braccia che accolgono. Io, in braccio a mia figlia.

Ti voglio raccontare una storia. Così, serenamente prendi sonno attorcigliando le dita intorno ai riccioli. Vedo che cominci a mollare le difese. Stai fermando lo sguardo nel vuoto. Ti sei arresa a un punto fisso nello spazio. Fra pochi istanti schiuderai le labbra e so che dormirai tranquilla. C’è un odore nella stanza che mi inebria. Questa stanza sa di bambino. Un profumo particolarissimo, misto di pelle e borotalco. Irripetibile. Lo raccoglierei in un’ ampolla preziosa da tenere sempre in tasca. La porterei ovunque con me, così da poterla sniffare come droga che mi inebri di vita, nei momenti più tristi. Gambe rannicchiate e dito in bocca. Sei tu, che torni in posizione fetale. Mi sembra di averti conosciuta così, da sempre. E’ bello averti conosciuta. A volte penso che sarebbe bello conoscere ogni bambino. Ogni bambino che dorme. O che scalcia. O che ciuccia. Ogni bambino che è. Averti conosciuta è stata una gioia indescrivibile. Fatta di infinite sfumature del tuo essere. Una sequenza di tanti attimi diversi ed esclusivi, ma ugualmente meravigliosi e unici.  A volte ho la sensazione che nel tuo bisogno di me, nella tua fragilità sia tornata bambina. Da quando hai iniziato la fisioterapia, man mano che i giorni passano, si vedono i miglioramenti. Ti impegni tantissimo, ti guardo mentre fai gli esercizi e sento tanta tenerezza. Provi a fare dei passi cercando di mantenere l’equilibrio. E’ sorprendente la tua energia e nonostante tutti i disagi , la voglia di ridere non ti manca. Pian piano riacquisti un po’ di autonomia. Sei felice. Cominci a rifiutare il mio aiuto, sicuramente ti senti meglio. Si vede. Per scendere le scale hai ancora bisogno di me e questa cosa mi rattrista. A volte però rifletto e mi accontento. E’ meglio non pretendere tanto. E’ già andata bene così. Di solito per preparare il pranzo scendo in cucina e tu rimani in camera. Poi quando e’ pronto salgo e ti aiuto a scendere le scale. Questo giorno e’ stato un bellissimo giorno: mentre apparecchio la tavola, penso e dico “Oh Signore , come sarebbe bello se la mia piccolina potesse scendere le scale senza di me e me la ritrovassi qui in cucina. ” Ma ripeto. E’ meglio accontentarsi e non chiedere altro. Improvvisamente ho un presentimento. Salgo una rampa di scale velocemente. Mentre giro l’angolo per proseguire sull’altra rampa, stai scendendo il primo gradino. Ci mettiamo paura contemporaneamente. Parli tu per prima: - Mamma , perché sei salita? Ti volevo fare una sorpresa! – Mi sembra di aver toccato la luna con le mani. Che meraviglia vederti. Tu, così meravigliosa e imprevedibile. Mai scontata. Tu, così intima e coerente con te stessa. Tu, che non risparmi parole di complimenti, per te sono tutti belli. Ma sono davvero così. Senza retorica e falsa enfasi. Hai avuto un ottimo rapporto anche con gli anziani. Senza mai tenerli a distanza. Li aiutavi quando con le buste della spesa varcavano incerti il portone d’ ingresso e li salutavi con un bacio. All’ inizio, mi accorgevo che li lasciavi perplessi. Disabituati in questa società talvolta igienista e distante, a sentire un affettuoso contatto di pelle. Di pelle. E’ proprio così. Ami sentire chi ti è vicino.
Questo particolare senso di vero rispetto per ogni età, non è convenzionale e non conosce le ingessate distanze che talvolta ci inducono a non vedere la bellezza e a non provare l’ autenticità di alcuni rapporti umani. Non trovi difficoltà a relazionarti con chiunque. Hai un bellissimo rapporto con i nonni. Non li escludevi quasi mai dalle tue iniziative. Quando oggi, talvolta avverto mia madre piangere in silenzio, cerco di consolarla dicendole che tu vuoi vederci sorridere. Tu, così unica e irripetibile. Tu, che nessuna fantasia mai avrebbe potuto immaginare. Mentre noi genitori, talvolta, crediamo di sapere qual è il momento giusto. Quando le condizioni ci sono o non ci sono ancora. Condizionati da mille problemi sociali. Sordi al richiamo della vita. Avari di generosità e apertura. Adulti in frenetico movimento che non si fermano di fronte al volto infantile della vita. Non la sanno guardare negli occhi. Chiudono i propri, fino a vedere solo buio. Non sanno ascoltare il suo respiro. Un respiro che non è debole e sommesso, ma continua a strillare dall’ intimità, senza fine. Non sanno penetrare in profondità. Perché la profondità fa paura. Tu invece sei scesa negli abissi più profondi. Non hai avuto paura di amare la tua storia. L’ hai amata fino in fondo. Ti sei riconosciuta nei diversi volti dalle inesauribili sensazioni e infinite sfaccettature. Ci hai lasciati senza che i nostri occhi scorgessero l’ accenno di una ruga sul tuo viso. Sei volata precocemente oltre il tempo perché la tua vita non invecchiasse. Ci hai dato le ali per volare, così da intuire e trovare i luoghi dell’ Infinito. Ci siamo sentiti accolti. Abbracciati nella dimensione della serena riconciliazione con noi stessi. L’ hai fatto senza abbassare lo sguardo. L’ hai fatto guardandoci negli occhi…  Ho ancora negli occhi la luce che mi hai trasmesso guardando il cielo. Lo hai fatto con naturalezza. Senza fare rumore. Nel generoso ed eloquente silenzio con cui talvolta ci hai parlato. “Ricordate quando ero piccina? Guardando verso il mare nelle giornate limpide si vedeva la calotta celeste. Vedevamo tutte le stelle e mi insegnavate l’ infinito. Non ho mai dimenticato niente di quella meraviglia, ricordo perfettamente tutto e ora se guardo ancora il cielo, sto vedendo di nuovo l’ infinito.”  “L’ infinito , amore mio, hai finito per insegnarcelo tu, indicandoci il cielo. Lo abbiamo visto nei tuoi occhi, che non sono mai divenuti specchio angosciato della sofferenza o buco nero della disperazione.”  Infatti, dentro a quell’ ospedale in cui la scienza aveva emesso un verdetto definitivo e immutabile, io riuscivo a guardare oltre, a non lasciarmi ingabbiare dai tentacoli del dolore. E mentre quell’ uomo in camice bianco mi guardava negli occhi perplesso, chiedendomi se davvero avessi compreso la gravità della situazione, io mi specchiavo nei tuoi e mi lasciavo accarezzare dalla tua vitalità. Ma quale diritto aveva quella persona di intrufolarsi nella testolina della mia bambina? Una testa piena di boccoli inutilmente ripresi con le mollette, boccoli ribelli, innamorati dell’ aria, del movimento, della libertà, della vita. Cosa poteva saperne lui, con quell’ aria dotta, dei pensieri che animavano il cervello della mia bimba? “Il cervello…” stava dicendo “ …è interessato in maniera importante. “ Ma cosa poteva sapere dei tuoi interessi, di ciò che davvero era importante per te, tanto da animare e pervadere la tua vita? La tua energia e la tua voglia di scoprire emozioni e situazioni sempre nuove, non potevano certo essere ingabbiate e congelate in un freddo vetrino di anatomia patologica. Queste persone non sanno che tu riesci a scherzare su quella che chiamano una malattia molto seria. Non possono sapere che per tirarci su, se ci vedi un po’ assorti, ci coinvolgi in una contagiosa risata mentre racconti che siccome sei una persona troppo intelligente, dovranno toglierti un pezzetto di cervello. Il tuo sorriso è travolgente, corposo, pieno e traboccante di smania per quella vita di cui hai saputo cogliere le immagini più semplici e più profonde. La tua energia vitale a dispetto delle obiettive condizioni, ha fatto di alcuni giorni non una tribolazione ma una gioia, che porterò sempre nel mio cuore. Ci hai insegnato da sempre il sorriso, da quando eri piccina, con la naturalezza delle piccole cose. Il tuo sorriso è travolgente, corposo, pieno e traboccante di smania per quella vita di cui hai saputo cogliere le immagini più semplici e più profonde. Col tuo sorriso continui a insegnarci che la felicità è fatta di piccole emozioni che garbatamente e in silenzio bussano al nostro cuore, lo allargano immensamente fino a commuoverci e intenerirci di fronte ai colori dell’ alba, al bacio di un amico, al miagolio di un gattino. Le giornate trascorrono lentamente. Tu distesa sul divano, sempre nella stessa posizione. Non puoi guardare la televisione ma solo ascoltare. Non riesci quasi più a leggere. Ognuno di noi a turno si sdraia vicino a te. Sappiamo che ti piace farti accarezzare la testa, farti stringere le mani. Durante queste coccole, spesso ti addormenti. Non un lamento per la tua condizione. Non un momento di intolleranza. Solo dolcezza dalle tue parole e dai tuoi sguardi. Tanta gratitudine. Una vera lezione di vita per quanti si lamentano per un nonnulla, compresi noi che per primi abbiamo imparato la lezione. La lezione del sorriso. Un sorriso pieno di fiducia. Ne hai avuta tanta. Soprattutto nei confronti di tuo fratello. Di lui ti sei fidata ciecamente. E lui è stato davvero sorprendente nell’affrontare questo grande problema. Ci ha dato sempre forza e ha avuto in ogni circostanza una parola di conforto e di speranza. Ti manifestava tutto il suo amore. Ti faceva ridere, ti baciava, ti abbracciava e non ti lasciava mai sola, dimostrando nonostante la sua giovane età, grande maturità e forza di carattere nel nascondere il suo immenso dolore. Nello stesso tempo cercava di fare coraggio a noi genitori. Non so se senza di lui, ce l’avremmo mai fatta. Forse non gli ho mai detto fino in fondo quale immensa gratitudine nutro nei suoi confronti. Perché la vita ci trascina, talvolta impedendoci di dedicare il giusto tempo e il dovuto riconoscimento alle situazioni e alle persone. Sento una profonda stima verso questo ragazzo che è stato costretto dagli eventi a diventare uomo. Perché è proprio così, ci siamo ritrovati all’ improvviso dal cullare i nostri figli sulle ginocchia, ad essere accolti dalle loro braccia, più forti delle nostre. Mi tornano alla mente immagini vive della loro infanzia. Quadri dai colori soffusi. Mi aiutano alcuni raccoglitori di foto impilati nell’ angolo dei ricordi. Sorrisi, sguardi, piccole braccia protese verso di noi. Grande è il ringraziamento alla vita per la misura in cui, intima, profonda e ineludibile sento la spiritualità del nostro esistere. Avverto poi una strana emozione che sembra bloccarmi il respiro. Una sensazione di fisicità, di limite, che percepisco come mio costante ostacolo alla serenità, alla leggiadria che tanto cerco nelle mie giornate. Ho accompagnato con mano tremante l’ ultima pagina di questo album. Mi fermo a pensare. Declino la testa all’ indietro, appoggiandola allo schienale del divano. Chiudo gli occhi e cerco di ridipingere nella mente il viso di mia figlia. Sento di fare uno sforzo più grande delle mie stesse forze. Una morsa mi attanaglia la gola. Il pennello della memoria è più avaro di colore di quanto mai avrei potuto immaginare. Il segno che marca i suoi profili improvvisamente diviene flebile, incerto e quasi invisibile. Il suono, il fragore del suo sorriso mi è ancora familiare nelle orecchie, ma le sue labbra, le sue belle labbra carnose, non trovano le tinte nella tavolozza. Il suo sguardo si allontana, nelle sfumature di una nebbia che mi avvolge sempre più. No. Questo non potrà mai accadere! Mi sento immobile. Fasciata da un crudele senso di colpa. Mi libero velocemente da questa cappa di stringente impotenza. Corro dal fotografo con i negativi in mano. Porterò con me tante immagini che hanno fissato gli attimi più belli. Nella nostra casa, lei continuerà a godere dei nostri salotti, a sentire i profumi della cucina, a riposare nel suo letto. Mai più potrà accadere che la sua immagine mi sfugga, lasciandomi nella sofferenza straziante di non ritrovarla integra, di non riuscire a ricomporre il puzzle della sua figura, inseguendo quelle tessere tristemente evanescenti. Ma i ricordi delle emozioni, no. Sono nitidi e presenti. Penso alla mia vita di mamma. Alle mie forze. Credevo di avere muscoli per vincere ogni debolezza. Ho dovuto fare i conti con il limite più marcato, il cratere più profondo che un genitore possa scavare dentro al proprio cuore. E fa talmente male, che in alcuni momenti lo neghi anche a te stessa… A volte penso che basterebbe credere a un gioco. Potrebbe bastare vivere il presente come assoluto. Non cercare di collocare i fatti e le emozioni nei ricordi o nelle speranze, ma pensare che tutto sia lì, in quel momento, in quella immagine, in quella sensazione. Quanti figli partono? Partono e sono lontani, proiettati verso mete che appagano desideri e aspettative. Anche per te potrebbe essere così. Dove mi piacerebbe immaginarti? In Inghilterra, in Irlanda, negli Stati Uniti? No, quei luoghi li rappresento tristi e grigi e tu non ha niente di triste e grigio nella tua vita. Ti vedo sorridere in una verde e sconfinata prateria, correre libera nella natura. Vedo nello sfondo la corsa incessante di canguri con i cuccioli nel marsupio. Ma certo! E’ l’ Australia che sto dipingendo col mio pensiero. L’ Australia è lontana ma quanti italiani vivono in Australia? Oltre 900.000 persone hanno radici italiane e l’ Italiano è la seconda lingua più parlata in casa. Potrebbe bastare pensare che sia una di quelle tante storie legate con affetti ed emozioni alla loro terra, ma che volano poche volte nell’ arco di un’ intera vita nei cieli che infinitamente li separano. In fondo non sarebbe poi così male! Qualche volta potremmo venire noi… sì, è vero, c’è la paura dell’ aereo, ma tanto chissà, anche se noi dovessimo rimandare la partenza, forse nel calore e nella tenerezza di quella tasca, la mamma canguro non farà mai sentire solo il proprio cucciolo. Nei brevi attimi in cui riesco a crederci, la nostra vita scorre serena e normale come quella di tante famiglie con i figli lontani. Ma la percezione del tempo e dello spazio sono una cosa molto complessa. Vorremmo fermarci qui e ora, ma ci sentiamo soffocare, abbiamo inesorabilmente bisogno di guardare lontano e vedere cosa c’è, laggiù, lassù, oltre ogni limite, verso l’ orizzonte. Questa irrefrenabile esigenza ci fa fare i freddi conti con la realtà, ma sentiamo la carezza di una consolazione che non è solo pietosa, bensì si nutre di un ragionamento che da qualche tempo non ci abbandona più: perché cerchiamo l’ infinito, se non esiste e mai lo abbiamo incontrato o conosciuto? Se il nostro essere fosse legato soltanto alla materia, alla fisicità e alla finitezza, chi ci avrebbe alitato la percezione del respiro infinito, tanto da cercarlo ansimando spasmodicamente e incessantemente? Sentiamo che laggiù, in fondo al nostro animo è rimasta un’ impronta trasparente ma salda, presente, profonda, penetrante. Sentiamo che c’ è un desiderio inesauribile di qualcosa che abbiamo toccato e seppur lontana, ancora ci appartiene. Cos’è, se non la struggente nostalgia dell’ amore infinito? Infinito e silenzioso è nella penombra questo corridoio. Di qua e di là stanze piene di letti. Uno dopo l’ altro conto i miei passi. Sono da te.
Rompi questo silenzio che cominciava a farmi male. Ci salutiamo. Con dolcezza ci dici di andare. Ci incamminiamo di nuovo per il lungo corridoio poco illuminato e mentre mi allontano non posso fare a meno di voltarmi per vedere la luce della tua camera. Riprendo a camminare e prima di girare l’angolo mi volto ancora per dare un ultimo sguardo. Fatico a trattenere le lacrime. Mi sfogo. Tu ora non puoi vedermi. E così amore mio, ognuno è solo. Continua ad essere sempre più solo. Nascondendo e ingannando tutto il dolore dentro la propria disperata finta normalità. C’ è luce. Ci alziamo velocemente e in pochi minuti siamo pronti per uscire. Non sembra una giornata particolare per le persone che incrociamo in strada. Il sole è sorto come ogni mattina. Qualcuno procede a passo svelto con la cartella da lavoro in mano. Qualche altro scivola via stanco dall’ uscita dell’ ospedale. Una busta gualcita ne accompagna lo strofinio nella cadenza dei movimenti. Forse panni da lavare. Panni di persone care. Magari già operate. Noi siamo soli con noi stessi e a mani vuote. Anzi, il vuoto è soprattutto dentro di noi. Sì, il sole è sorto, ma noi non lo abbiamo visto. Questo grigiore ci avvolge come nebbia in un giorno d’autunno. Penso a quante volte, negli anni, preoccupandomi per cose sciocche ho ignorato il grande dono della vita e l’ immenso valore che è in essa. Quanto tempo perso in cose inutili. Ma ora è inutile pensare a queste cose… Non vedo l’ora di arrivare. Voglio abbracciarti. Mi chiedo come possa sentirti in questo momento. Ho paura di entrare in camera, respiro profondamente ed entro. Tu sul letto sorridente. Mi chiedo come faccia ad essere così forte. Io non posso essere da meno. Con tanta fatica riesco a farmi vedere tranquilla. Avresti preferito non vederci prima dell’intervento. Probabilmente avevi il timore che l’emozione ti avrebbe tradita proprio all’ultimo momento. Ma ora siamo qui. E’giunta l’ora. Ti accompagniamo fino alla sala operatoria. E’ ora di salutarci. Il cuore comincia a battere velocemente. Non voglio che varchi quella porta ma devo stare tranquilla. Ti bacio e dico di non preoccuparti, perché ci saremmo riviste di lì a poco. Tu rassicuri me. La porta si chiude. I miei occhi si fissano sulle lancette dell’ orologio. Le mie mani stringono una coroncina che porto sempre con me. Il corridoio che conduce al blocco operatorio è lunghissimo, con dei corrimano lungo tutte le pareti. Sulla sinistra, a metà corridoio, solo una porta. Entriamo nella cappella dell’ospedale. Non vi sono seggiole su cui sedersi. Restiamo lì impalati in trepidante attesa. Sappiamo che l’intervento durerà parecchie ore, potremmo anche tornare in camerata ma non ce la facciamo ad allontanarci da lì nemmeno per un minuto. Restiamo in silenzio. Ognuno con il suo pensiero, più grande dell’ altro. Accendo una candela. Mi inginocchio. Mi rivolgo alla Madre del cielo. Credo che solo Lei possa capirmi. Qualcuno ci porta un panino da mangiare. Non ho fame. Ho solo voglia di piangere. Su un mobile di legno scuro sono appoggiati in ordine sparso tanti libricini; ne prendo uno. All’interno, preghiere di consolazione per le afflizioni ai malati. Alcune sono veramente belle. Comprendo subito che tanta gente ha pregato prima di noi in quella piccola cappella. Siamo molto stanchi, non abbiamo avuto nessuna notizia riguardo l’intervento. Ansia, agitazione, paura, aumentano sempre di più. Sono passate quasi dodici ore. Ad un certo punto la porta si apre ed ecco che il chirurgo ci viene incontro. Io non ho il coraggio di avvicinarmi troppo, faccio piccoli passi. Un respiro enorme, il cuore batte all’impazzata, mi riempio di speranza. E’ strana questa frase : - Il suo male è benigno.- Fra poco e’ orario di entrata, ti potremo vedere. Ci vestiamo velocemente. Ci avviciniamo lentamente. Dormi, ti accarezzo, ti guardo. Sei bellissima. Apri gli occhi. Il tuo viso è tranquillo e disteso. Non vi è traccia di sofferenza e adesso che ti ho vista, mi sono tranquillizzata. Il tempo che abbiamo a disposizione è poco. Ti bacio. Tu hai una luce particolare sul viso. Io ho ancora negli occhi la luce che mi hai trasmesso un giorno guardando il cielo. Lo hai fatto con naturalezza. Senza fare rumore. Nel generoso ed eloquente silenzio con cui talvolta ci hai parlato. Sollevati, ci allontaniamo per uscire. La paura non è completamente scomparsa, però i nostri cuori ardono per la speranza. La morsa che ci attanagliava prima si è allentata e ci lascia respirare. Una morsa che ha poi ristretto i denti tante volte, fino a farti davvero tanto male … ma non voglio più ricordare!
E’ bello parlarti di noi. Di come ci siamo amate profondamente. Di come è stata unica e intensa la nostra vita. In silenzio sorridi. O forse è soltanto un movimento involontario senza coscienza. Così dicono i dottori. Ma loro non sanno. Non possono sapere che tu con la mano stai dolcemente accarezzando un enorme elefante dal pelo morbido e caldo. Sulla proboscide è attaccato con un magnete un piccolo topolino anche lui di peluche. E’ veramente grande e morbidissimo. E’ qui con te. Non hai mai voluto lasciarlo da quando, dopo il primo ricovero, Andrea entrò nella tua stanza buffamente nascosto dietro quella soffice nuvola beige. Aveva scelto un peluche dai toni caldi e naturali. Sa che sono i tuoi colori preferiti. Hai sempre amato le tinte che hanno il sapore della terra, che danno tiepide sfumature di luce non solo agli oggetti, ma anche agli occhi e alle emozioni di chi guarda. Emozioni colorate. Un’ altalena di immagini che si impregnano talvolta dalla tavolozza delle esperienze vissute, talvolta si animano e si tingono nei quadri che la mente delinea senza che noi possiamo scegliere. Ma che continuano ad appartenerci. Abbiamo scherzato con i colori, quando durante i periodi di “sfiga” andavamo scappando puerilmente dai gatti neri che guardinghi e ignari, ci attraversavano la strada. Fuggivamo da cosa? Forse dal dolore. Penso al dolore. Finora sono sempre fuggita senza mai guardarlo in faccia. Ora ha bussato alla mia spalla all’ improvviso, con decisione. Mentre camminavo veloce per le vie del mondo. Ho dovuto voltarmi e non ho potuto abbassare lo sguardo. Mi ha fissato profondamente negli occhi. E’ arrivato laggiù, nel profondo della mia anima. Mi ha accompagnato passo passo, facendomi percepire una nuova dimensione che fermenta diffondendo nelle stanze. Entra negli angoli più discreti e nelle pieghe più riservate. Non esiste più una dimensione che si senta soltanto dentro. Rende tutto pieno. Pieno di dolore. E’ strano come tanta pienezza finisca per lasciarti il vuoto. Un vuoto che ha riempito tutti. Ma non te. Grazie amore mio, di avermi ridato la vita. L’ hai fatto stringendoti a noi. Proprio come quando eri piccola. Eravamo poco più di due ragazzi quando la vita è venuta a cercarci. Abbiamo vissuto anche i momenti più importanti con l’ incoscienza di chi è molto giovane. Siamo cresciuti con gli eventi e con la naturalezza nelle mani, spesso piene soltanto delle nostre passioni, dei nostri desideri, delle nostre insicurezze. Vuote della piena consapevolezza di essere genitori. Siamo cresciuti all’ improvviso, specchiandoci nello sguardo di nostra figlia. Uno sguardo che sapeva scrutarci, interrogarci, parlarci in silenzio, entusiasmarci, comunicarci la luce nei momenti di buio, invitarci a guardare lassù.… A non mollare. A non mollare mai. Con grande sforzo, stiamo cercando di dare il meglio di noi. A volte è davvero dura muoversi quando ci si sente paralizzati, inebriarsi di musica quando si cerca il silenzio, uscire quando si ha bisogno solo di casa. Ma sentiamo che tutto è possibile per farla felice. Le abbiamo fatto una promessa e la rispetteremo con gioia. La gioia… amore mio, hai finito per insegnarcela tu. A volte penso a cosa sia per noi la gioia. Ho avuto con essa un rapporto un po’ strano. Credo di averla incontrata nei momenti in cui mai avrei creduto. Quando la vita mi stava spingendo oltre la normalità e l’ apparente quiete. Allora ho guardato in faccia la bellezza di ciò che avevo. Ho guardato in fondo all’ anima quel sorriso radioso, quel respiro d’ infinito che i rumori delle abitudini non mi facevano percepire. Abituata e attenta all’ incedere dei tuoi passi, quando il sabato inutilmente a letto, ero sveglia ad aspettare il tuo ritorno. La chiave girata due volte. “E’ tornata finalmente. Posso dormire.” Tu e la tua felice esuberanza. Io e la mia malinconia. Ora sei qui. Non esci. Molto spesso si fanno i cruciverba. Tu dai le soluzioni ed io scrivo. Per tirarti su di morale, invento anche risposte assurde che ci divertono. Il tempo non passa. Io ti sto sempre vicino. Una vicinanza che non conoscevo. Si riempie di noi anche l’ ultimo cantuccio del nostro essere. E’ intensa la nostra affinità. E’ forte il nostro contatto. Credo che tu abbia sentito la stessa cosa. Ma io non ho parlato. Non ti ho detto. Non ti ho detto mai. Tu invece parli. Parli molto. Parli al telefono con le amiche. Sempre gioiosa, scherzi e ridi anche del tuo malessere. Fai battute sul tuo disagio e ridi divertita. Hai uno strano rapporto con il dolore. Cerchi di ignorarlo, senza farti avvolgere. Ma sai guardarlo in faccia senza paura. Io no! Io sono abituata a fuggire. Ho sempre cercato di non farmi trovare. Poi l’ incontro. L’ incontro con il dolore degli altri. Quando “gli altri” sono mamme. Mamme come te. Quelle stesse compagne di giochi, di quando si giocava a mamma e figlie e ognuna di noi lottava per quel ruolo tanto ambito. Si lottava già allora per essere mamma. Forse nel profondo di ogni donna, già da bambina, ognuna di noi sente il fascino viscerale di questa dimensione materna. Talmente appagante da non vedere ostacoli davanti. Da non avere neppure il minimo dubbio di voler ripercorrere la stessa identica strada. Perché ognuna sa che quella strada conduce dentro noi stesse, ci porta allo spessore abissale della nostra profondità. Laggiù, tanto laggiù, dove la schiavitù conosce la libertà, dove il dolore ha lo sguardo dell’ amore, dove la preghiera incontra la misericordia, dove il fondo coincide con l’ apice. Lassù, tanto lassù, in alto, anche se all’ orizzonte, sulla guglia di un campanile inizia a intravedersi la croce. Sì, amore mio. Sono certa di quello che ti sto dicendo : - Rifarei daccapo tutto. Non cancellerei un solo istante del mio essere mamma. Nonostante il dolore che mi ha segnata con una profonda, acuta e lancinante ferita. - Ah, sì! Eravamo al dolore degli altri. Allora non potevo sapere, nonostante gli sforzi per capire e la solidarietà che soltanto una madre può provare. Quelle notizie avevano portato inquietudine alle mie giornate e angoscia alle mie serate. Dei brividi pungenti mi avevano penetrato il corpo, attraversandolo totalmente. Avevo solo intuito. Ma erano cose che capitavano agli altri. Io e la mia malinconia… Tu e la tua vita fatta di positività e fiducia. Di entusiasmo per ogni alba e per ogni tramonto. Di stupore per il cielo imbronciato e minaccioso. Di luce negli occhi nel guardare le stelle. Eppure penso che in alcuni momenti forti, nel tuo cuore, di tristezza e timore ce ne siano stati abbastanza. Cerco di mettermi nei tuoi panni per tentare di capire cosa si può provare, ma nonostante mi scoppi il cuore, credo di non riuscire a comprendere in pieno il tuo stato d’animo e quali possano essere le tue paure più profonde, la precarietà di questa vita , che ad un tratto mette in forse tutto. I tuoi sogni , le aspirazioni, gli affetti. E ti fa intravedere ciò che può esserci in fondo a quella via che stai percorrendo. Ma il tuo sguardo è imperscrutabile. Ti osservo mentre parli con le altre persone. Cerco di capire dalle tue espressioni se hai paura, ma esteriormente nulla tradisce le tue emozioni. Al contrario temo che io non sia all’altezza di nascondere le mie. Ti sento al telefono. Parli allegra come se nulla fosse. Ma come puoi continuare ad essere così? Così normale, così tutto, così sempre tu ? Spesso mi allontano volutamente per cercare di sapere cosa realmente pensi , ma non ho mai sentito un lamento sulla tua storia, su ciò che così grande ti sta capitando tra le mani. Dai la buonanotte e ti addormenti. Mi piace vederti dormire. E’ in questi attimi che ritrovo una normalità che va sfuggendo. Ogni giorno di più. Ogni notte di più. Anche le notti mi hanno insegnato qualcosa. Quando oramai credevo di avere imparato ormai pressoché tutto. Esserti vicina mi ha fatto crescere ancora. Mi ha fatto esplorare l’ intensità e la profondità umana nella condivisione nel dolore. Quando la sofferenza diventa partecipazione intima, adesione a un mistero che ti permette di uscire dal tuo dolore senza mai lasciarlo. Entrando nel dolore dell’ altro, per comprendere fino in fondo la profonda umanità che ci unisce tutti. Un ’ umanità che non si tinge di convenzioni. Ci cerca, trovandoci nella verità. Nella consapevolezza di una miseria umana né mortificante né umiliante. Un sentire viscerale attraverso quell’ intelligenza emotiva che solo il dolore può risvegliare. E così, mentre per te, questa sembra una notte abbastanza tranquilla, ogni tanto mi reco nella camera accanto dove è ricoverato un ragazzo con la stessa malattia. Sua madre ha chiesto di controllarlo, di dargli uno sguardo, perché lei non è potuta rimanere. Anche lui ha la febbre e si agita. Cerco di tranquillizzarlo, gli parlo. Chissà se cerca la madre! Lo rassicuro dicendogli che arriverà più tardi. Poi torno nella nostra camera, piango per quel ragazzo solo. Soffro per lui. Mi affaccio tante volte a vederlo e così vado avanti fino alle cinque del mattino. Ti controllo. Riposi bene. Man mano che il tempo passa, le notti sono sempre più lente. Non passano mai. Mi volto verso di te, così posso vederti. Assumo la tua stessa posizione per cercare di capire se è abbastanza comoda. Per noi questo è un incubo. Decidere di sistemarti come ci sembra meglio, mentre non puoi dirci nulla. Verso l’ alba sento il tuo respiro più veloce. Mi alzo di scatto e mi siedo vicino a te , ti tengo la mano, ti parlo, ti accarezzo. Ma il tuo respiro diventa sempre più affaticato. Cerco di muoverti ma nulla cambia. Mi giro per la stanza. Non so cosa fare. Chiamo l’infermiera. Mi dice che la febbre è molto alta. E’ inevitabile che ci sia sofferenza. Cerco di mantenere la calma , non so se tu puoi capirmi, quindi faccio domande, ti chiedo : “ Come ti senti? “Ad un certo punto inizi a lamentarti. Non avevo mai sentito un tuo lamento. La cosa mi ha impressionata. Non mi sento per niente tranquilla. Vorrei ci fosse qualcuno con me. Quel respiro è sempre più incessante. Ti metto l’ossigeno ma il respiro non migliora. Non so che fare. Non ti ho mai visto così sofferente. Non hai mai permesso che questa valanga incontrollabile di dolore si ponesse tra noi e te. Senza che potessimo fare nulla. Ti prego, sorridi! Come hai sempre fatto. Ovattando il male, soffocandolo fino al punto di non dargli ossigeno… Ora l’ ossigeno è qui per te. Ma non sembra così efficace. Non resisto nel vederti soffrire. Sembri allontanarti da me. Prima sussurro il tuo nome. Poi ti chiamo più forte. Forse gli altri stanno riposando. Ma io ti chiamo. Ti chiamo ancora. Sempre più forte. Tu non mi rispondi. Mi rivolgo allora al Signore. Ho la sensazione che Lui invece, stia vicino. Forse mi avrebbe sentito anche se avessi parlato piano. Ma io ho urlato. Ho urlato sempre più forte: “ Signore ti prego, fa’ che questo sia l’ultimo suo giorno! “ Poi ti ho chiesto perdono. Non mi hai risposto. Ma io so. So che tu hai capito. Non sei arrabbiata con me. Infilo le mani tra le sbarre e prendo delicatamente le tue. E poi le accarezzo. Come ti piaceva. Ti sussurro parole d’amore. Tutto l’amore di cui sono capace. Un amore forte, che mi trabocca dal cuore. Ti guardo… Uffa! Queste lacrime mi stanno disturbando. Voglio vederti bene. Sei sempre bella. La bella di mamma! Queste sbarre mi riportano a quando eri bambina. Serenamente dormivi protetta nella tua culla. Mi tornano in mente le strofe di alcune canzoncine con cui ti addormentavi. Le ripetevi canticchiando. Con una mano accarezzo le tue mani. Aspetto che arrivi anche il tuo papà. Mi addormento. Strano. Sono proprio esausta. Altrimenti, nei momenti di tensione, resisto e non cedo alla stanchezza. Ma forse, non volevo proprio saperne di vederti così pallida. Mi preoccupavo sempre tanto quando eravate piccini tu e Andrea. E tu ora sei davvero pallida. Sempre più pallida. Un pallore che crea trambusto intorno a noi. Infermieri che corrono. Medici che vanno. Che tornano. Sono tutti intorno a te. Io sono ferma, immobile. Forse nel tentativo di non rompere l’incantesimo di questo tempo che ora sembra non scorrere più. Fisso, tanto da darmi l’ illusione che si fermi, che queste poche ore durino un’ eternità. Sto difendendo l’ intimo silenzio che ci unisce profondamente. Prima che qualcuno ci allontani. Prima che tra noi cada la barriera di un tempo dilatato e smarrito dentro lo steccato della nostalgia. Sono accanto a te. Sono dispiaciuta per non averti portata a casa in tempo. Ma non mi arrendo. Non desisto dal desiderio di sistemarti nel migliore dei modi. So cosa ti dà fastidio. Se i vestiti sono arricciati sulla schiena, se i calzini non stanno perfettamente su, se stai scomoda con la testa, se le mani non sono ben curate. Che stress nel cercare di non dimenticare nulla! Proprio come quando dovevamo partire con te e Andrea piccoli. Un mare di cose per non dimenticarne nessuna. E alla fine qualcosa mancava sempre. Ma ora no. La tua mamma non vuole davvero trascurare nulla. Che strano. Adesso che ti abbiamo sistemata, il tuo viso è sempre più disteso e sembra che ci sorrida, i tuoi muscoli sono tutti rilassati e non vi è alcun segno di tensione. Sembra proprio che l’ apprensione di alcuni momenti non ti abbia nemmeno sfiorata. E questo senso di pace forse ha contagiato anche noi. Nel mio cuore, non un senso di ribellione , nessuna rabbia. Guardo papà. Nel suo sguardo non c’è disperazione, lo vedo solo molto addolorato. Anche in questo momento, hai saputo consolarci. Ti prego, se puoi stammi sempre vicino. Rimani nel mio cuore e nei miei pensieri. Ciao, amore mio. Mi dicono di uscire. Io stento a farlo. Infine obbedisco, guardo fissamente negli occhi quest’ ultimo dottore. Gli dico : - Dottore, lei me la deve svegliare! – I suoi occhi non mi fissano. Sono lucidi. Sembrano sfuggirmi, scivolare via ancor prima della sua sagoma bianca che silenziosamente si allontana. A volte il silenzio finisce col confonderci. Sembra che il tempo non scorra, che non accada niente. Niente di importante. Invece io so quanto grande è ciò che ci sta capitando. So, ma non so se ho davvero varcato i confini di questo momento. Non so se ho realizzato quell’ immensità che a volte percepiamo completamente, solo nello smisurato turbamento che scorgiamo negli occhi di chi ci è accanto. Quel vissuto comune che ci torna indietro dallo sguardo dell’ altro. Fra poco saranno qui tanti sguardi. So che mi torneranno indietro ancora più carichi di dolore. Penso ad Andrea. Dovrò essere forte. Penso a mia madre, che ti adora. Da sempre. E’ bene che prima di incrociare anche il suo sguardo, i nostri dolori si avvicinino piano piano. E’ importante che si incontrino senza toccarsi. Senza farsi vicendevolmente troppo male. Ma ho constatato che il dolore non conosce lontananza che lo attenui. Non c’ è filo che lo isoli. Dentro quell’ auricolare del telefono ho sentito passare nella sua voce, fitte di un dolore umanamente invalicabile, che solo una nonna può provare. Un dolore doppio. Pieno non solo della propria sofferenza, ma carico di quella del proprio figlio. Eppure, io non sono disperata. Porto con me le tue parole. Quella certezza che mi hai saputo dare. Per sempre. “Il nostro amore è un amore speciale. Il tuo cuore è il mio cuore. Due cuori, un cuore solo. Il nostro amore è indissolubile , inseparabile, fatto di sguardi e intese. Un amore immenso che ci fa essere una sola cosa, parte della stessa radice. Un amore che respiriamo come aria di primavera. Un amore che nessuno mai ci potrà togliere.” Mi guardo intorno. C’ è una quiete quasi irreale. Anche la luce è molto strana. Sembra quella di un tramonto che si mischia all’ alba. Come nei paesaggi senza tempo. Immobili e silenziosi, intenti nel loro disegno. Un disegno che non sempre riesco a leggere in profondità, ma del quale il Signore mi ha dato prospettive inimmaginabili. Schizzi di colore che zampillano, che riescono a produrre macchie di tinte intense, calde, vive. Squarci che raccontano. Raccontano di una città che si è stretta intorno a te… La nostra città, Ascoli. La sua piazza più grande e più antica è teatro esclusivo. Sembra che voglia lasciarti il palcoscenico per questa danza silenziosa con cui ci stai abbracciando tutti. Entriamo con le automobili qui, nella suggestiva Piazza Arringo che è ormai soltanto isola dei pedoni. Ma non si vedono passanti che camminano come al solito. E’ deserta . Questo spazio è solo per te. Vederti apparire e crescere nella prospettiva di questa storica piazza, richiama alla mente la storia di tanti alberi di olmo che qui si sono susseguiti in epoca medioevale, quando ogni volta che ognuno di essi moriva, veniva rinnovato al centro della piazza. Dell’ ultimo di questi giganteschi olmi si trovano tracce nei documenti dell'epoca ed in quelli della fine del XV secolo. La pianta rimase in vita ancora per cento anni, ma poi l' ultimo olmo della piazza cedette alla tempesta di vento che investì la città. Anche oggi non brilla il sole nel cielo e spira un vento forte. Talmente forte che mi sembra ti stia strappando dalle mie braccia. Sullo sfondo di travertino, tantissime persone che aspettano. Quante persone ti vogliono bene! Vi sono tantissimi tuoi amici. Anche quelli delle elementari. E pensare che non abbiamo potuto avvisare nessuno. Le cose si sono svolte così in fretta! Credo che se ci fosse stato il tempo , oggi non ci sarebbe stato spazio per tutti, neanche in questa Basilica così grande! Scendiamo dalle macchine. Tutti ci baciano e ognuno dice qualcosa per confortarci , a volte senza parole , con un semplice sguardo o un abbraccio forte. I lampadari all’interno della chiesa sono tutti accesi come nelle grandi occasioni. Tutto è come avresti voluto tu. Tu che avevi scelto questa splendida chiesa per il giorno del tuo matrimonio. Le parole di Padre Paolo sono toccanti. I suoi sguardi spesso sono rivolti a noi e al tuo ragazzo che è seduto qui accanto. Sono certo che anche tu sei qui. Ci stai guardando, sei vicina e suggerisci ai nostri cuori di non piangere , perché oggi è una grande festa. Vorresti dividere con noi la tua gioia , mitigare con le tue carezze il nostro dolore , farci comprendere che oggi non è la fine ma l’inizio della vera vita. Sono sicura che ci stai aiutando a capire quanto è importante cercare la fede, quella senza ombre , quella che toglie ogni dubbio. Sì, vuoi dirci che solo così, noi oggi potremmo vederti qui, seduta accanto a noi. Un canto, un bellissimo canto e le campane suonano a festa. La tua danza è finita. Esci dalla chiesa e ti accompagna un grande e caloroso applauso. La piazza, in tutta la sua dimensione torna ad essere deserta. Sembra voglia darti l’estremo saluto con discrezione. In silenzio e con ordine si anima. Noi ci avviamo. Seguiamo il giovane parroco che è proprio dietro di te. Canta , ha una voce meravigliosa. Tutto intorno mi dà una strana sensazione di pace: gli odori delicati, le voci affievolite e sommesse, i colori tenui, i toni caldi e naturali, i tuoi colori preferiti. Hai sempre amato le tinte che hanno il sapore della terra. Una terra che oggi ti ha dato un abbraccio senza fine. Un abbraccio pieno di tenerezza. Tanta tenerezza fatta di sguardi sinceramente vicini, carezze leggere che ti scaldano appena sfiorandoti, figure che si defilano con garbo e delicatezza. Con rispetto. Nel silenzio di chi sa ascoltare. Un abbraccio che mi ha toccato da vicino, riportandomi alla mente tanti miei abbracci silenziosi…  Ti guardo mentre dormi. Sono seduta qui accanto, nella penombra della stanza. C’è un silenzio che ormai non ci divide più. Ho imparato ad ascoltare anche i tuoi silenzi, intravedere i tuoi sorrisi muti, sentire le tue carezze mancate, percepire le tue sofferenze accettate, leggere la tua rassegnazione maturata, intuire le tue insofferenze contenute, scrutare la tua lotta dignitosa. Nel silenzio ho imparato a parlarti. A dirti alcune cose di cui non ti avevo mai raccontato. Di un amore infinito che io e te abbiamo incontrato guardando lassù, verso il cielo. Il cielo di Medjugorje. Un silenzio che lentamente è divenuto un coro. Tutti riuniti sotto il cielo stellato per cantare le lodi a Cristo. Si respira in ogni luogo quest’aria di bontà e fratellanza, di comunione, che ci rende tutti più uniti. E lì, guardando il sole, abbiamo dipinto quadri in cui a pennellate tenui, si alternavano squarci di luci violente e dirompenti. Noi sapevamo di aver visto, ma non potevamo raccontare. E solo quando una bimba di otto anni disse che c’ era un sole lassù, rotto, spezzato come un’ ostia sulla mensa, solo allora i nostri sguardi ebbero conferma di aver visto nell’ azzurro del cielo, una croce grigia sopra quella Madre con le braccia aperte. Io ora so che in quel messaggio di sofferenza arrivato ai nostri cuori silenziosi, c’ era una promessa di tenerezza e maternità infinite. Tu hai percepito la delicata dolcezza di quelle braccia. Ti sei rilassata fino ad abbandonarti per lasciarti accogliere. Intanto, sulle pendici di quel colle, altre braccia ti hanno accolta. Otto ragazzi per te e sei per Cristina, anche lei fermata su una sedia nella corsa della vita. Ventotto braccia per voi. Braccia di giovani come te, che generosamente sanno quanto l’ascesa alla cima non sia molto comoda neanche per chi cammina con le proprie gambe. Figuriamoci per voi due, che siete sulla sedia a rotelle. Mentre discutevamo a lungo sul da farsi, uno degli accompagnatori ti ha chiesto con la naturalezza di chi è giovane dentro, se desiderassi andare. Hai risposto semplicemente che sì, era un tuo desiderio. Quindi ha aggiunto che avrebbe risolto il problema. E’ andato verso alcuni ragazzi ospiti di una comunità di recupero per tossicodipendenti, curati e allontanati dalla loro droga con la sola preghiera. Gentilmente e senza esitazioni si sono prestati, nonostante la loro precarietà, per portare te e Cristina fin lassù, sul colle. Due sedie alle quali avevano attaccato quattro sbarre di ferro, sono divenute le vostre carrozze. Mi viene da piangere, ma ti guardo e sei particolarmente felice. Quante volte avevo immaginato di vederti arrivare come Cenerentola su una carrozza, forse non proprio a forma di zucca! Scendere da una lussuosa ed elegante auto, per poggiare il tuo piede sul tappeto rosso, mentre i flash ti illuminavano il viso. Un abito bianco, lucente, forse di raso. Un tulle che ti vela lo sguardo, ma non tanto da nascondere la tua gioia. La tua gioia! Ti guardo. La vedo ora. Qui. Su questo monte in attesa di essere scalato. La tua gioia così intensa, intrisa di speranza, di fiducia, di una luce carica, decisa. E’ davvero strana la vita, sembra tutto così surreale. Guardavo il sentiero tutto fatto di sassi e rocce da scalare, privo di percorsi marcati, come se ognuno dovesse seguire la sua strada. Unica. Ma tu non puoi percorrerla da sola, passo dopo passo, con il tuo impegno. E questo ti fa male. Ti pesa pesare a questi ragazzi. Si legge nei tuoi occhi immensa gratitudine. Si deve fare molta attenzione per non cadere e perdere l’equilibrio, e’ proprio una scalata. Questi sassi fanno male dappertutto. Mi guardo intorno. Ci sono persone che per devozione salgono a piedi nudi. Si fermano alle stazioni di preghiera. Anche le braccia che vi stanno accompagnando poggiano a terra le vostre sedie barelle. I ragazzi s’ inginocchiano. Ognuno di loro ha in mano il rosario e tutti cominciamo a pregare. Ti osservo. Ti scruto. Sei molto presa da queste preghiere. Il tragitto è lungo. A ogni stazione ci fermiamo per dieci minuti. Ormai sta per sorgere il sole. Inizia a fare caldo. Temo che tu possa sentirti male. Mi unisco a te nello sforzo. Sento anch’ io la fatica che accusi mentre cerchi di attutire gli scossoni, reggendoti forte con le braccia. Mi pesa, ma non ho paura. Sono sicura che tutto andrà bene. E’ Lei che ci ha voluti qui. I ragazzi sono stanchi. Il caldo si fa sentire ma continuano senza chiedere nemmeno l’acqua. Vi sorridono. Arrivati in cima, c’è la statua della Madonna. Qui è apparsa. E’ tutto pieno di fiori. Senza radici. Nati altrove e qui arrivati stretti tra diverse mani. Oggetti di qualsiasi genere lasciati con cura. Senza una dimora precisa, ma ognuno con un senso che si lascia intuire. Io non ho fra le mani niente. Le piego in atto di devozione. Sono solo piena di speranza. Sento un profondo desiderio di pregare. Senza disperazione. Serena, fiduciosa, tranquilla. Non sento più quella solitudine che tante volte mi ha colto mentre ero fra la gente. Ti guardo. In silenzio. Non mi avvicino subito a te. Hai gli occhi rivolti alla statua. Non riesco a trattenere le lacrime. Sono sicura che anche tu hai una preghiera precisa da fare. Abbasso gli occhi. Ho la sensazione di violare la tua intimità. Non ce la faccio. Ti guardo ancora. Mi si strugge il cuore. Sento una profonda tenerezza. Avrei voglia di abbracciarti. No! Non posso contaminare questa intensità di personale preghiera. Si riparte. La discesa è ancora più faticosa anche perché si è più stanchi. Sei tranquilla. So. Ho letto nel tuo sguardo tutto. So. Anche se non ti ho mai detto… Il mio più grande dolore nasce dal tuo dolore. Dai tuoi pensieri che non conosco eppure intuisco. Nasce dal fatto di non averli condivisi con te in un abbraccio tra dolore e lacrime. Il tuo grande amore per noi ti ha impedito di dire : - Papà, mamma, ho tanta paura ! –   Il tuo grande amore per noi ci ha protetto, impedendoci però di avvicinarci per mostrarti la nostra preoccupata partecipazione, consolarti come avremmo voluto. Un amore fatto di sguardi profondi che giungono sino in fondo all’anima, tenere carezze che stringono più di mille abbracci. Ma fra di noi, l’ eco di tante parole soffocate. L’ asfissiante silenzio di parole mancate. Questo è il mio dolore e il mio rimpianto. Per quelle parole mai dette. Per un amore mai dimostrato abbastanza. Essere mamme e' un mestiere che non si può imparare. Ma gli anni aiutano. Io lo sono diventata molto giovane . Avevo vent’ anni. Portavo con me tante incertezze, ma oggi sento di dover parlare per dire che io ho una certezza… c’ è ancora un tempo. Un tempo nel quale un Padre misericordioso mi ha cercata ancora, aprendomi le braccia, accarezzando e nutrendo il mio orecchio con una voce che ha riaperto il mio cuore, è entrata nella mia vita facendo ormai parte di ogni mia giornata. E’ la luce nel mio primo pensiero la mattina e il calore nell’ ultimo bacio della sera. Un nettare dolcissimo che mi nutre coccolandomi: LA TUA VOCE.  So che umanamente tutto ciò diviene molto labile. Discutibile, inconsistente, sfumato. Ma io so. Io sono certa. Desidero contagiare la sofferenza con la mia certezza. Far risplendere la luce che ha illuminato la mia croce. Farla arrivare a chi la cerca, come io disperatamente l’ ho cercata. Quando nel buio ho intravisto il bagliore della preghiera. Dapprima flebile e incerto, poi sempre più chiaro e luminoso. Non ho smesso mai di pregare. Con la preghiera mi sento più tranquilla, non mi faccio domande, non mi chiedo il perché di quanto è accaduto. Cerco solo di vivere nel migliore dei modi, con la speranza che un giorno ti potrò riabbracciare. Le mie giornate cerco di renderle più o meno piacevoli con l’aiuto dei ricordi che ho di te. Cerco di fare ciò che a te piaceva; come ballare, ridere, anche stare allegramente in mezzo alle persone. Tanto che qualcuno si chiede dove io trovi la forza per reagire. Non ti so spiegare. A volte sono persino felice. Non riesco a capire a cosa sia dovuta questa felicità. Cosa mai può accadere di bello dopo quello che è successo? Eppure qualcosa è accaduto. In giro ti cerco. In qualsiasi modo. Ti cerco nelle persone, ti cerco nelle strade , ti cerco nelle nuvole, sono in una ricerca continua di te. Il mio pensiero e’ costantemente per te e avverto sempre di più la tua presenza. Tutto ciò mi rasserena. Mi succede spesso quando sono fuori casa di avere desiderio di rientrare come se io e te dovessimo incontrarci in qualche modo e tu mi aspetti. E questo “desiderio di te ” mi aiuta a sopravvivere. Il dolore che ho, certo non lo si può minimamente immaginare. Non mancano mai le lacrime, ma poi sento la certezza che tu sei in un mondo migliore e ti immagino piena d’amore, di luce. Così il mio cuore si rallegra e riesco ad essere anche felice. Una felicità che divido con te, che appartiene anche a te. Da quando una sera di maggio sei venuta a parlarmi. Solo allora ho capito quegli stati d’ animo di attesa, quel qualcosa di meraviglioso che sarebbe accaduto. Quasi una seconda gestazione di te. Una maternità ancora più intima e più completa. Nella certezza appagante che la morte non è la fine. E’rinascita. E io vivo con te una vita nuova, che non conoscevo. Vivo con te un rapporto di comunicazione quotidiana, durante la quale sciolgo lentamente tutto il groviglio di dubbi e sofferenze. Oggi so che un’ altra dimensione ci appartiene da ora e per sempre. Per usare un tuo messaggio: - Stai tranquilla , un altro mondo vedrai, vedrai!–
Questa sera mi sono messa al computer. Volevo appuntare flash di ricordi che dessero un contributo a conoscere meglio il tuo carattere. Sono stata presa da un blocco. Non riuscivo a materializzare neanche una parola. Ho deciso di andare a fumare una sigaretta, immancabilmente portando con me il registratore. Ormai è parte di me! Ho sceso le scale parlando durante il tragitto ad alta voce. Ti ho detto che non è proprio serata, che non mi viene niente da scrivere. Ti chiedo di aiutarmi. Torno sopra dopo aver fumato e riascolto la registrazione.  Con mia immensa gioia, sento la tua voce che sussurra:  - Mamma, dì che sono felice . –  Sempre più felice faccio riascoltare la registrazione a papà. Ci stringiamo in un forte abbraccio. Non abbiamo bisogno di altre parole. C’e’ un silenzio rotto solo dal nostro pianto. E’ un pianto liberatorio. Ci guardiamo senza parlare. Un velo di umido luccichio cela la felicità, coprendola di pudore. Ma io leggo nei suoi occhi la stessa domanda che forse intravede nei miei. - Perché a me? –  Perché questa consolazione così grande da non riuscire quasi a contenerla nel cuore. Non so e non mi è dato di sapere. Tante volte ci eravamo chiesti come tu, così giovane, così innamorata della vita, non ti fossi mai ribellata. Come tu, così piena di energia dinamica, avessi accettato con mitezza di rimanere inchiodata a una sedia a rotelle. Come tu, fiera dei tuoi riccioli ribelli, della tua chioma fluente e libera al vento, dopo le terapie non abbia mostrato rabbia né imbarazzo. Come tu, non abbia mai pronunciato tre parole : - Perché a me? –
Mentre io ogni mattina, mi chiedevo il perché. Il perché di tutto questo. Da due anni nutrivo speranza di una tua guarigione. Non era cambiato nulla. Era solo arrivato un altro inverno. Tutte le mattine al risveglio pregavo e speravo che fosse un giorno migliore. Un’ altalena. Un giorno meglio dell’altro , un altro peggio e così siamo andati avanti. Ti vedo ancora qui, forte. Tu non ti abbatti e mi fai coraggio. Mi dici: “Finirà. Non ti preoccupare, ci vuole tempo”. Non chiedi niente. Neanche io chiedo più niente per me. Sento solo il desiderio di donare ad altri questa mia esperienza. Un raggio di luce che mi ha preso per mano e mi conduce. Mi ha sostenuto nel momento del grande dolore. Ha spalancato i miei occhi tanto da non essere più ciechi. Ha accarezzato il mio cuore con un tenero conforto. Un conforto che talvolta diviene fermento per l’ anima. Mentre i giorni passano io ancora stento a credere che tu non ci sia più. E nonostante l’ immensità di tutto ciò, ci sono momenti in cui resto nella felice attesa di qualcosa che deve succedere. Provo meraviglia di me stessa. Non comprendo quello che mi accade. Tu non sei più qui con noi. Cosa ci può essere di bello in questo? Eppure, questi stati d’animo di felicità inspiegabile si ripetono. Tornano a cercarmi con splendida e tenera premura. E io mi lascio trasportare. Non mi è dato di capire, di trovare la ragionevolezza di questa manifestazione d’ amore che non scorge all’ orizzonte spiegazioni. Ma ho il desiderio profondo di raccontare questa meraviglia che mi è venuta incontro, perché sento e vivo una nuova dimensione del mio amore di madre. Perché l’amore ritorna. Perché quell’ amore intenso, unico, che ci unisce ai figli piccoli, quando seppur digiune, ci fa sentire sazie dopo averli imboccati per la pappa, continua ad alimentarsi nonostante la lontananza, a crescere nonostante l’ età, a riempirsi d’ Infinito nonostante la morte. A tessere un filo che non conosce strappi definitivi. Non conosce piaghe che lo lacerino mai fino in fondo. Un filo che sa ricamare il disegno della vita, creando meravigliose immagini di tenerezza, di comunicazione, di amore. Un filo che ci riprende per mano. Dal nostro ieri. Dal nostro sempre. Ti accompagnavo spesso a fare la nanna, quando vivace e sempre in movimento, facevi tua, ogni cosa che incontravi nel tragitto del corridoio che conduceva alla tua cameretta. Non prendevi sonno facilmente e ti aggrappavi al mio collo come una scimmietta, tentando di sollevarti e rendermi complice del tuo gioco. Crollavi soltanto quando esausta ti abbandonavi alla voce della mia ninna nanna. E’ strano come nella vita, l’ altalena del tempo porti i ruoli e le situazioni, gli uni al posto delle altre. A volte guardo mia madre. La vedo invecchiare e penso con tenerezza a come piano piano, lei che mi ha accudito e dato tutto dall’ immenso e generoso sacco della sua vita, cominci talvolta ad avere bisogno di me. Vedendo invecchiare sommessamente i miei genitori, sento che il filo della mia vita diventa più debole e flebile. Avverto la malinconia di vedere allontanarsi i miei punti fermi. Sento indebolirsi la certezza che loro ci saranno. Comincia a vacillare la sicurezza del consiglio disinteressato, dell’ amore certo, della verità. Quest’ odore di solitudine mi giunge precocemente, mentre ancora i miei vecchi continuano a proteggermi. Un sussurro delicato mi accarezza l’ orecchio. Un ritornello che io non
conoscevo. Quasi una ninna nanna che venga a sopire la mia inquietudine. Inquietudine di mamma, di figlia, non so. Parole pronunciate con voce flebile, in tanti piccoli messaggi. L’ ultimo riecheggia nella mia mente. Con garbo e pieno di delicata speranza che si tinge man mano di Verità. Lo srotolo piano. Parla sottovoce. Ancora nella vita, l’ altalena del tempo ci porta gli uni al posto degli altri. Mi sento piccola. Coccolata. Sono proprio io. Sì, io. In braccio a mia figlia. Leggiadra e delicata è la danza delle tue parole. Una danza gentile e silenziosa. Fatta a piedi nudi. Per non far rumore. Per non destare chi desidera silenzio. Per prendere la mano di chi dolcemente attende. Attende di tornare a danzare.
Anzi, a volare.