Franca Maria Ferraris
ANIMALI IN TEATRO
Prefazione di Milena Milani; illustrazioni di Michela Savaia
Bastogi Editore, 2011
Nella storia della letteratura, a partire da quella dell’antica Grecia, attraverso quella romana e avanti avanti, in ogni epoca fino ai nostri giorni, molteplici sono i casi in cui gli animali sono diventati protagonisti di racconti, favole, interi romanzi, trattati, cartoni animati…
Ritengo che ciò sia sostanzialmente un metodo letterario utilizzato dagli autori per avere più libertà, più manovrabilità nel raccontare le cose degli uomini, attribuendo situazioni, pensieri e atteggiamenti agli animali.
Facendo questo, tra l’altro, si può utilizzare lo stereotipo che ogni figura animale rappresenta nell’accezione comune senza dover preventivamente spiegarlo.
Così la pecorella sarà stereotipo di mansuetudine e sottomissione, la volpe di astuzia, il leone di ferocia e forza, la gazzella di velocità ecc….
La scelta dell’animale protagonista mette quindi subito il lettore nell’ordine di idee di ciò che seguirà; lo scrittore può quindi prescindere dal descrivere e introdurre la personalità del suo racconto.
Altre volte, al contrario di quanto prima detto, si potranno avere volpi sciocche, pecorelle intriganti, leoni sornioni, gazzelle apatiche… ma in questo caso la tecnica sarà usata per dimostrare che paradossalmente non sempre gli stereotipi sono confermati nella realtà e quindi conviene essere prudenti e guardinghi nel farsi le proprie convinzioni.
Recentemente, mi è stata proposta la lettura di un libricino di poesie intitolato “Animali in teatro” scritto da Franca Maria Ferraris con prefazione di Milena Milani e illustrazioni di Michela Savaia:
42 poesie e 11 illustrazioni piene di colori.
Ogni poesia ha come protagonista un animale che da attore presenta se stesso o un suo vissuto su un immaginario palco del quale si è aperto il sipario.
La carrellata di personaggi e situazioni è davvero ampia: nei racconti in versi siamo immediatamente portati a riconoscerci o a riconoscere situazioni, fatti, persone della realtà di ogni giorno. Siamo portati a riflettere come se guardassimo in uno specchio la realtà di ciascuno e di ciò che ci circonda, cogliendone i contorni in maniera più nitida e definita perché, pur riconoscendo il parallelo tra storia e realtà, non siamo coinvolti direttamente ma riusciamo a valutare più oggettivamente perché, in fondo, è altro da noi stessi.
Dopo aver letto alcune poesie, una dietro l’altra, velocemente, spinta dalla curiosità, mi sono fermata perché ho capito che è un libricino che bisogna prendere “a piccole dosi”, un po’ per volta, lasciando tempo da una lettura all’altra per riflettere sui messaggi lanciati da ogni animale attore.
Arianna Craviotto
V B, Liceo Artistico A. Martini, Savona, anno scolastico 2011-2012
         
FRANCA MARIA FERRARIS, CRISTINA SOSIO
Aquilius e la Stirpe del Drago
DE FERRARI EDITORE, aprile 2011
“Aquilius e la Stirpe del Drago” è il titolo di un libro che unisce la magia e il mistero del passato alla modernità del presente. Scritto da Franca Maria Ferraris e illustrato da Cristina Sosio, il testo è adatto sia per i più grandi che per i più piccoli perché, per mezzo della fantasia, fa viaggiare in epoche straordinarie popolate da pirati, cavalieri medievali e draghi o in luoghi remoti come castelli, grotte e villaggi di elfi e fate. La magica storia è ambientata a Quiliano, in provincia di Savona, il nome del paese è stato trasformato in Aquilis in onore del cavaliere Aquilius, possessore di terre realmente esistito in quel luogo. Nella storia, raccontata con minuzia di particolari e trasporto dall’autrice, vi sono molti personaggi simpatici che accompagneranno il lettore in favolose avventure. Ad esempio, i fratelli Octavia e Maximus Dragobello De Aquilibus, i loro quattro Gatti Sapienti Amìr, Bedàl, Ganùt e Zadòr, il fantasma di Aquilius, il Drago Mago soprannominato Draghetto, ma anche elfi, fate, streghe e forze malvagie quali il malefico mago Norum e le sue forze Occhiute.
Ad accompagnare le parole della scrittrice vi sono, all’interno del libro, i bellissimi disegni di Cristina Sosio, colorati per mezzo di un programma particolare di grafica realizzata a computer. L’illustratrice ha dato vita alla storia disegnando sia i personaggi, molto espressivi e simpatici, che i  luoghi magici e misteriosi descritti nel libro. Ma, per capire meglio di cosa tratti il testo ci vengono in aiuto le parole dell’autrice stessa che scrive: “Questa è la storia di una stirpe, la Stirpe dei Dragobello De Aquilibus. Tenetelo ben a mente ragazzi! Ma soprattutto tenete a mente che ogni essere di questa terra, umano, animale, vegetale, fa parte di una stirpe, perché in questo mondo ognuno ha una sua storia precisa, inequivocabile ed inconfondibile con la quale il suo sangue (o la sua linfa) attraversano i secoli e i millenni.” Con queste frasi la scrittrice vuole stimolare i lettori a prendere coscienza delle proprie radici, a dar valore alla storia della propria famiglia, a conoscere l’ambiente di origine in modo tale da poter comprendere il presente con l’aiuto del proprio passato.

Arianna Craviotto
VB, Liceo Artistico A. Martini, Savona, anno scolastico 2011-2012

FOTOGRAFANDO LA POESIA / sperimentazione di unione tra foto e poesie

FOTOGRAFANDO LA POESIA

Mostra di manifesti SPERIMENTALI di unione tra foto e poesia

del LICEO ARTISTICO MARTINI di SAVONA e

dell’ASSOCIAZIONE CULTURALE SAVONESE ZACEM

A settembre e ottobre 2009, con grande interesse del pubblico savonese, si è tenuta, presso la Libreria Ubik di Savona, la mostra “Fotografando la poesia” organizzata dal Liceo Artistico Arturo Martini di Savona e dall’Associazione Culturale Savonese Zacem.Si tratta di un esperimento attuato per la prima volta a Savona: il connubio di fotografia e poesia. Nello scorso anno scolastico, infatti, sotto la guida dell’insegnante di italiano, prof.ssa Renata Rusca Zargar, gli alunni della classe II C del Liceo Artistico hanno rielaborato una lirica da loro stessi creata, alla quale hanno affiancato foto proprie o dei compagni. Così pure hanno fatto alcuni soci dell’Associazione Culturale Savonese ZACEM, di cui la prof.ssa Rusca è Presidente. Infine, foto e poesie, sono state composte graficamente a computer e stampate su pannelli, con l’aiuto del prof. architetto Maurizio Gay.

Il risultato è davvero interessante, sia per i contenuti che i partecipanti hanno voluto comunicare che per l’immediatezza visiva del tutto.

CLICCA SULLA LOCANDINA PER VEDERE I MANIFESTI FOTO-POESIA DI TUTTI I PARTECIPANTI

FOTOGRAFANDO LA POESIA - sperimentazione di unione tra foto e poesie
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SALVATORE D’APRANO

SALVATORE D’APRANO
 dal CANADA, il poeta italiano dei sentimenti e dei buoni valori che edificano un mondo migliore e rendono la poesia necessaria al nostro cuore
 Salvatore D’Aprano nasce a Castelforte, provincia di Latina il 28 / 11 / 1940 e dal 1960 vive in Canada.
Autodidatta, scrive dal 1980 e ha pubblicato in Italia tre raccolte di Poesie: la prima dal titolo “Alla mia patria”,  Edizioni Caramanica nel 1987;  la seconda “Le radici dell’anima”, Edizioni Libroitaliano” nel 2002 e “Oltre cielo e mare” nel 2009, regalo della Casa Editrice “NUOVI POETI” per il Primo posto assoluto ottenuto al Concorso “Spazio Autori”. Le sue liriche sono presenti in 63 Antologie Nazionali e Internazionali. Dal 2007 ha incominciato a partecipare ai Premi Letterari italiani ottenendo
lusinghieri successi, vincendo numerosi Primi, Secondi e Terzi Premi.È iscritto alla S.I.A.E.
Oltre al nostro stupendo e musicale idioma, scrive il francese, l’inglese e lo spagnolo.

L’Arcobaleno
 È una gioia contemplare
un insperato arcobaleno
che repentino appare
nel bel cielo ormai sereno
dopo la pioggia torrenziale
d’una mattinata uggiosa.
Gaia pennellata di colori
che propaga l’allegrezza.
Balsamo per solitari cuori
impregnati di tristezza
pronti a schiudersi e sperare
ad una vita un po’ più rosa.

E fu subito amore
 Quando
incrociai il tuo sguardo
tornando dal mercato
e per la prima volta vidi
i tuoi stupendi occhioni neri,
rimasi folgorato
e per me non ci furono
più misteri.
Sentii mille farfalle
volare nel mio cuore
e fu subito Amore.

O mio Signore

Spegni i Tuoi  astri,                                                            
o mio Signore,
e lasciaci languire nell’oscurità
su questa Terra c’é carenza d’amore
e sovrana regna la malvagità.
Pur se fratelli
siamo sempre in guerra
e tra noi vige la legge del taglione,
soltanto Tu redimer puoi la Terra;
Tu solo puoi condurci alla ragione.
Scaccia dai nostri cuori
l’istinto del rapace
e dei pargoletti donaci il candore,
fa che quaggiù sia oasi di pace
senza più lotte, senza più dolore.
E quando da lassù
vedrai il mutamento
dei famelici lupi che docili
convivono con le inermi pecorelle,
soltanto allora, o mio Signore,
potrai riaccendere nel firmamento
tutte le Tue stelle.

Verrò

Verrò, o padre mio,
in un meriggio assolato
nel silente eremo ove tu riposi
ad accendere un cero
sotto la tua lapide e cambiare i fiori
oramai avvizziti.
Verrò per raccogliermi
davanti alla tua tomba
e discorrere con te, da padre a figlio,
perché ho ancora bisogno
del saggio tuo consiglio.
Per farmi perdonare qualche dispiacere
che, senza volerlo, ti ho arrecato
verrò per rimembrare il passato.
Per confidarti le mie tristezze e pene,
verrò poiché ho il tuo sangue
che scorre nelle vene.
E quando anche per me
suonerà l’ora della dipartita
e la truce Signora colpirà
il mio debole cuore col suo maglio,
dirò addio alla terrena vita
cessando l’oneroso mio travaglio.
E come solevi fare quand’ero bambino
prenderai dolcemente la mia mano
e accompagnerai al cospetto del Divino
il tuo ritrovato figlio che viene da lontano.

La Capinera

Là, tra gli alti
e sempreverdi cipressi
dove regna un silenzio
cupo e misterioso,
dove chi entra
non fa più ritorno
t’hanno portato
o mio diletto sposo.
Là, nella fredda terra
hanno scavato la tua fossa,
hanno piantato la tua croce
affinché riposar tu possa.

Là, dove muore il sole
e rapida scende la sera
vivi nel regno delle ombre,
non rivedrai più
la dolce primavera;
intorno a te vedrai
soltanto tombe.
Ma se su un ramo
vedrai una capinera
quella son’io,
non aver timore.
Quando sei morto tu
son morta anch’io:
non si lascia mai solo
il primo amore.

Delizia e croce

Anche se è inverno
sembra  primavera
quando appari tu,
e in pieno giorno
fai calar la sera
se non ci sei più.
Alterni le emozioni
del mio povero cuore
con la tua presenza;
un giorno mi regali amore
e l’altro indifferenza.
Sei incostante, altera,
caparbia e capricciosa
ma quando vuoi sai essere
carina e meravigliosa.
Sei ombra e luce,
delizia e croce
della mia esistenza.
Mi sei indispensabile
come l’aria che respiro
sei l’unica cosa bella
alla quale aspiro.
Ormai hai la mia vita
nelle tue mani
e sono persuaso che
malgrado la tua indole ribelle
il nostro amore avrà un domani
e riusciremo a toccar le stelle.

Il prezzo del progresso

La frenetica corsa
verso il benessere a tutti i costi
ha  provocato la perdita
dei valori umani
e la nostra malata società,
divenuta più violenta,
ha partorito potenziali Caini
pronti ad accoltellare l’inerme Abele
per una manciata di spiccioli.
Avidi, arrivisti
che venderebbero le loro madri
pur di accedere ad un più alto
gradino sociale.
Uomini senza dignità che, prostrati,
leccano i  piedi e reggon le borse
ai politici del momento,
per ricompense future.
Di fronte a tanta meschinità
rimango perplesso
e trovo alto, vergognosamente alto
il prezzo che dobbiamo al dio progresso.

Il viandante stanco
                                                 
Sono un viandante                  
stanco di peregrinare,
talmente stanco che non so
se sarebbe opportuno fermarmi
oppure continuare
fino alla prefissa meta.
Avrei tanto bisogno
sotto questa calura
di una fonte che disseta
e un’oasi di frescura
per rinfrancare il corpo
e ritrovare la forza di proseguire.
È l’ultimo viaggio
che intraprendo per amore
anche se premonitori segni
mi fanno capire che
difficilmente riuscirò a raggiungere
il tuo arido cuore.
È tardi ormai e mi fermo qui
a questo crocevia
per passare la notte
con l’amica e fedele malinconia
fortemente persuaso che,
almeno lei,
non mi deluderà mai.









 VERBALE VINCITORI TERZA EDIZIONE
CONCORSO 2009/2010
SECONDI E TERZI CLASSIFICATI CHE HANNO VINTO LA PUBBLICAZIONE SUL SITO ZACEM NELLA II EDIZIONE DEL CONCORSO LETTERARIO INTERNAZIONALE pennacalamaio@zacem.it
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II CLASS. ROMANZO EDITO

Fabrizio Sparaco
nato a Roma il 05 luglio 19..
E’ autore di romanzi e opere teatrali.
Predilige uno stile narrativo semplice e un linguaggio realistico. Ha esordito nel 2005 con il romanzo “Le Furie Rosse” (Michele Di Salvo Editore). Nello stesso anno ha pubblicato anche “La Caccia” (Società Editoriale ARPANet). Nel 2006 ha vinto il premio Letterario Internazionale per inediti Elsa Morante con una commedia teatrale intitolata “Il Sindaco”. E’ del 2007 “La Piaga” (Il Melograno), mentre nel 2008 ha pubblicato “L’Eroe” (Giraldi editore). Ha vinto la 12^ edizione del Premio di narrativa italiana inedita Arcangela Todaro – Faranda 2008 Sezione Romanzo con “E’ sempre notte” (Bonomia University Press).
Nel romanzo narra le vicende intricate del mondo della boxe, un ambiente popolato da uomini che non si rassegnano alla perdita dei propri sogni e che continuano a combattere da veri eroi, per difendere la propria dignità.
Il titolo dell’opera è un omaggio al celebre aforisma del grande pianista jazz Thelonious Monk: “E’ sempre notte; se non fosse così non sentiremmo tanto il bisogno della luce”.
Si augura che il suo ultimo lavoro faccia il giro delle palestre d’Italia e non solo…
e-mail: fabspa@leonardo.it; fabriziosparaco@libero.it


È SEMPRE NOTTE di Fabrizio Sparaco Bononia University Press, 2008 pp. 149 € 15,00
Lo confesso: non sono sportivo, non ne capisco niente, non so praticare nessuno sport, e, per di più, ho l’impressione che si tratti di un business non sempre pulito (vedi caso Moggi) e intriso di facili soldi (vedi Kakà); insomma, forse ho un rigurgito calvinista, è troppo spesso immorale. E, tra tutti gli sport, quello che proprio aborro, è la boxe: sudore e sangue, violenza gratuita. Insomma, ero proprio inadatto a recensire questo libro. Ma… C’è sempre un “ma”. Intanto, dopo averlo affrontato, lo ammetto, con fatica, non sono più stato capace di abbandonarlo. È una narrazione fluida e avvincente, che non fa allontanare il lettore. Ho trovato, in questa vicenda di un pugile che emigra negli Stati Uniti, sulla scia di Primo Carnera e di Tiberio Mitri, la conferma che l’odore dei soldi supera spesso quelli del sangue e del sudore. Ho capito, però, che può esserci una passione genuina e “pulita”. Il personaggio del Crudo, il protagonista, è ricco e tratteggiato con molte sfumature, e ci si appassiona alle sue vicende, nelle quali, come al solito, entra la mafia, nostro incrollabile prodotto di esportazione negli USA. Un libro breve, ma che ti resta dentro, anche se sei impermeabile alle passioni sportive, come il sottoscritto.
(recensione PAGINE DI LIBRI di Paolo Modugno. 4/2/09)
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II CLASSIFICATO ROMANZO EDITO
ANTONIO DE CRISTOFARO

Antonio De Cristofaro è nato a Bellona, in provincia di Caserta, il 16/04/1955 ed ha vissuto la sua giovinezza a Vitulazio, paese limitrofo sempre in provincia di Caserta; nel 1983 si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne all’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Nel 1985 si trasferisce a Milano per insegnare lingua e civiltà inglese e francese, dopo vari anni di precariato svolto in tutta la provincia, nel 1998 diventa insegnante di ruolo di lingua e civiltà inglese e nel 1999 ottiene la cattedra presso l’Istituto “E. Alessandrini” di Vittuone (MI). Dal 1990 fino al 2008 risiede a Bareggio (MI), alla fine del 2008 si trasferisce a Corbetta (MI) insieme alla moglie Filomena ed al figlio Marco.
Nel 2007 pubblica il suo primo racconto dal titolo “Vite spezzate, il sogno e la memoria” con lo pseudonimo A.D.C. presso la Casa Editrice: L’Autore Libri Firenze.

Libere osservazioni su Vite Spezzate

Vite spezzate è una storia di intrinseca drammaticità che risulta spezzata nel racconto come è spezzata la vita di Ada e delle donne e degli uomini che le stanno intorno.
Drammatico è anche il personaggio di Giulio, spettatore impotente del dramma, che ha depositato nella memoria immagini che in realtà non ha mai visto se non attraverso gli occhi dell’immaginazione guidata dai racconti della zia.
La storia è caratterizzata da un tempo misto in cui si intrecciano le esperienze dirette del protagonista e le immagini quasi oniriche che compaiono nella sua memoria annebbiata dalla stanchezza e dal dolore: immagini che scaturiscono da ricordi di fatti realmente vissuti e da ricordi di racconti che hanno preso vita attraverso il racconto di altri.
Il racconto pertanto è sottratto alla dimensione lineare del tempo cronologico, che risulta enormemente dilatato durante l’estenuante attesa in ospedale, perché vive una dimensione sospesa tra il presente, il tempo della memoria e il tempo dell’immaginazione. Anche la descrizione minuziosa di gesti apparentemente banali, privi di significato, contribuisce ad accentuare la sensazione di un tempo reale sospeso.
E’ nel tempo non tempo di una camera di ospedale infatti che Giulio vede, accanto ad immagini della vita passata della zia, immagini della vita e della morte che si giocano sotto i suoi occhi. Ed è in questa dimensione di tempo sospeso che egli fa i conti con la figura interiorizzata di Ada che incide sulle strutture del suo io.
Attraverso l’Ada che giace sul letto di morte e l’Ada che vive nella sua anima Giulio si inoltra nei labirinti del femminile.
Un universo che gli appare connotato, al di là delle differenze tra i diversi caratteri, dalla cifra comune del sentimento, che guida e spiega tutte le azioni delle donne del racconto. La dimensione del sentimento appare qui così tragicamente femminile e travolgente da investire con la sua forza d’urto tutti i destini e tutte le relazioni umane.
E non a caso l’unica figura maschile che nel racconto appare psicologicamente connotata è la figura di Giulio che, nel tentativo di attraversare il femminile che ha incontrato, acquisisce lo sguardo giusto per raccontarsi la storia di Ada e delle altre donne della sua famiglia: quello guidato dal sentimento.
Ed è forse proprio l’accettazione di questa dimensione sentimentale l’ultimo dono che Giulio riceve da loro.

FIORENZA BOSCHI
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VALENTINA VITALE (Roma):

nata a Roma nel 1970; dopo studi classici si è laureata in Ingegneria per l’Ambiente e il territorio all’Università La Sapienza di Roma e si è trasferita poi a Parigi, dove ha conseguito un master presso la Scuola Superiore del Petrolio e dei Motori. Dal 2000 è impiegata all’Autorità di Bacino del Fiume Tevere e negli ultimi anni ha scritto diverse pubblicazioni scientifiche. Attualmente risiede a Roma, è coniugata e ha tre bambini. L'esordio come narratrice è del 2008, con il romanzo "Placenta", edito da Sovera (segnalato al Premio letterario “La città dei Sassi”). Nel settembre 2008 è finalista al Concorso letterario "Scrivere per sport" con il racconto "La calottina d'oro" e nel dicembre 2008 al Concorso nazionale letterario “Note al Margine” con il racconto “ L’albero d’acciaio”.

III CLASS. RACCONTO A TEMA LIBERO
LA CALOTTINA D’ORO

Tutti in fila a bordo vasca per il solito controllo: unghie, costume, braccialetti, crema. Testa alta e braccia avanti, il primo esame lo passo senza problemi, tanto le unghie me le mangio da un po’, infatti mi sembra che l’arbitro mi guardi di traverso come fa papà la sera quando mi osserva all’ora di cena e so che si trattiene a stento dal dirmi sempre la stessa cosa; costume e sopracostume me li sono ricordati all’ultimo momento, un costume ben stretto mi sembra già abbastanza per il mio corpo esile di bambino; bracciali e anelli un ragazzo come me non se li mette mica, per non parlare della crema, non sopporto la mano di mamma quando mi attraversa la schiena per ricoprirmi di uno strato viscido di qualcosa che mi proteggerà dal sole, figuriamoci se mi faccio ungere di olio proprio oggi, quando vorrei piuttosto riempire il palmo delle mie mani in crescita di colla a presa istantanea. Oggi vorrei avere le mani di colla e essere figlio di una sirena, perché m’hanno detto che i figli delle sirene hanno i piedi palmati e nuotano come pesci; invece sono figlio di mia mamma e di mio papà che mi stanno guardando ora dall’alto delle scomode gradinate, ho la testa bionda e i piedi pieni di dita, le orecchie grandi ben salde ai lati degli occhi attenti a non farsi sorpassare da qualche pallone nemico. Le mie braccia sono così lunghe e agili che la prima volta che m’hanno visto uscire dalla piscina gelida in cui ci alleniamo le sere umide d’inverno mi hanno infilato in testa una calottina rossa con il numero uno e mi hanno detto che il mio posto per tutto l’anno sarebbe stato quello, sempre quello e solo quello, dentro ai pali di una piccola e incerta porta mobile appoggiata sull’acqua intorno a me, come un rifugio precario di cui non avevo proprio bisogno, un riquadro fluttuante messo lì per incorniciarmi gli occhi, che sono azzurri come l’acqua di cloro in cui mi sto immergendo ora. E’arrivata la nostra prima finale, una finale vera, anche se il maestro Giacomo ci dice che ogni partita è una specie di finale ma noi non siamo tanto d’accordo; siamo piccoli sì, ma sappiamo distinguere le emozioni, conosciamo la differenza tra una vittoria d’oro e una sconfitta d’argento, anche se poi le medaglie che ci mettono al collo all’età nostra sono sempre tutte uguali. E’ il momento di entrare in vasca, il portiere gioca sempre lo so, non devo temere come gli altri, non devo guardare impaziente Giacomo e chiedergli perché non posso entrare in campo dall’inizio e dall’inizio puntare il bambino che sarà la mia vittima o forse il mio carnefice, perché siamo proprio piccoli noi rispetto a questi giganti bambini venuti dal nord, non devo esultare asciutto e nervoso quando i miei compagni bagnati e sudati segnano, seduto su quella panchina corta e scivolosa su cui vedo spesso un po’ crucciato mio cugino Billo; mio cugino che sempre in ritardo dopo tanto aspettare si allaccia la calotta stretta sotto al mento e non è mai pronto quando Giacomo urla il suo nome e si tuffa ancora un po’ intontito nell’acqua, come un pesce appena pescato rigettato immediatamente in mare che può di nuovo felice respirare la sua aria liquida con le piccole branchie laterali. La palla arancione è in acqua, immobile al centro del mondo aspetta quel bambino che per primo si impossesserà di lei. Il tempo inesorabile comincia a scorrere davanti a me, guardo il tabellone luminoso e so che tra poco non saranno più sette, ma otto, dieci e poi cento, i minuti si moltiplicheranno in un numero infinito di secondi che nemmeno il fischio dell’arbitro mi sembrerà poter interrompere. Indugio un istante solo, prima di riposare lo sguardo sull’orizzonte confuso e increspato dalle bracciate forti e sicure di quegli otto bambini-pesce. So che non mi posso distrarre, non devo perdere di vista le teste blu dei quattro bambini avversari, di cui in un attimo devo imparare a riconoscere i movimenti a volte disordinati, la posizione che non sempre è la stessa e la potenza del tiro che vedo poco incerto già dirigersi verso me. Non devo domandarmi perché all’età di undici anni a pallanuoto possiamo giocare maschi e femmine insieme, io una bambina non la voglio né in squadra né contro di me; non riesco a passare la palla a una femmina, la voglio tirare ai miei amici o a mio cugino e ogni volta che mi segnano quelle bimbe senz’anima è come se di reti me ne avessero fatte non una ma almeno due. Scaccio via questi pensieri che sono sbagliati ma che ci posso fare se ce l’ho, intanto uno a zero per loro, due a zero per loro, due a uno, tre a uno, fine primo tempo, la palla al giudice bianco che cammina accanto a noi e dal bordo vasca ci spiega quello che a volte non capiamo. Cambio vasca, cambio orizzonte, cambio panchina, Giacomo però è sempre lo stesso; schemi sbagliati, rimesse troppo corte, occasioni trovate e poi perdute, Martino fuori perché non ha passato la palla prima di tirare. C’è Billo in acqua però, che bello; mi si allenta la tensione quando vedo la cuffia bianca con il numero 6 sopra alla marea di lentiggini marroni appiccicate sul naso di mio cugino, il centroboa più piccolo che si sia mai visto nelle piscine del centro Italia. Ma tanto nessuno si accorge di quanto è piccolo quando nuota avanti e indietro senza sosta sull’acqua, nessuno sa che ha faticato molto più di noi per imparare a prendere la posizione giusta come sta facendo ora in un attimo, nessuno sa che lui non fatica affatto per capire prima degli altri su quale lato sta viaggiando la palla, lui lo sa perché gliela rilancio io, abbiamo provato e riprovato lo schema mille volte anche fuori dall’acqua, ci capiamo al volo noi, come il quarterback con il suo ricevitore preferito. Ora sono tutti immersi, ipnotizzati dai suoi movimenti naturali in cui non c’è sospensione, non c’è pausa nel momento magico in cui prende la palla, non c’è tregua, non c’è spazio per l'intervento scomposto del bimbo difensore prima dell’implacabile tiro. Tre a due, tre pari. Due minuti alla fine. Ludovico no, il fallo da rigore qui davanti a me proprio ora per favore no. So che sono un privilegiato, so che per me hanno inventato regole speciali che non valgono per i miei compagni. Ma a che mi serve ora poter toccare il fondo della vasca, tanto non tocco comunque, non ci arrivo a sentire il pavimento rassicurante posato sotto di me. A cosa mi servono i privilegi da numero uno se ora a tirare è proprio quella bambina lì, che ha un braccialetto al polso che luccica come il plancton nelle notti di luna piena, le unghie mal tagliate su cui mi sembra aver intravisto un po’ di smalto, ma l’arbitro non se n’è accorto, forse è rimasto anche lui incantato dai suoi occhi, che sono neri come l’inchiostro con cui vorrei scriverle una lettera stasera, e ha guardato altrove. Non devo pensare a quegli occhi vivi che mi stanno fissando ora, mi stanno scrutando solo per capire come infilare il pallone dietro alle mie spalle strette senza che io abbia il tempo di tirarmi su perché sto guardando lei; devo pensare che lei sì forse che è una sirena bambina, bellissima e crudele. Ma io non mi lascio ingannare da quello sguardo di carbone, non dimentico in un battito di ciglia che per arrivare fino a qui ho dovuto lottare contro il senso di smarrimento che qualche volta ho sentito galleggiare accanto a me durante i duri allenamenti in solitario, contro il desiderio forte di varcare la linea ostile di metà campo per segnare e poi nuotare a testa alta verso il compagno più vicino a me e aspettare la sua mano sbattere contro la mia; non dimentico che ho dovuto percorrere centinaia, forse migliaia di metri liquidi seduto su un’immaginaria bicicletta senza manubrio, con le braccia fuori, poi giù in acqua, poi ancora alzate e poi di lato a destra e di nuovo a sinistra e poi immobile con gli addominali di bambino stremati per una fatica più grande di me. Ripasso tutto ora, anche il salto laterale che si chiama volo del colombo ma io lo chiamo il volo di Buffon e mi ripeto in testa quello che mi urla Giacomo in continuazione, come un martello nell’orecchio anche se io lo so già, questa è la regola Francesco, è l’unico grande unico vero e imperscrutabile segreto dei portieri grandi e piccoli, non chiudere gli occhi Francesco, mai. Si allontanano tutti da me, mi lasciano solo con lei; Billo prende posizione accanto a lei, a debita distanza aspetta. Aspetta che la palla non traversi la linea di porta tra i pali, che io senza esitazione la catturi e la rimetta a lui mentre tutti lo inseguono increduli, aspetta di passarla a Ludovico che lo accompagna alla sua destra verso la porta che sembra improvvisamente enorme, aspetta di vederlo tirare, esultare e correre da lui. Le medaglie è vero saranno pure tutte uguali, ma il nostro sorriso è d’oro, di quell’oro splendente che ho sognato stanotte riflesso negli occhi fieri dei miei compagni affaticati. Sognare e segnare, forse c’è una ragione se queste due parole sorelle sono quasi gemelle, se basta cambiare una lettera perché si confondano insieme nei pensieri liquidi di chi le sta appena toccando.

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III CLASS. RACCONTO A TEMA LIBERO
CRISTINA MANTISI

Un amore
Rossana si svegliò di soprassalto e rimase con gli occhi sbarrati a fissare i contorni della stanza. Percepì il ticchettio del grosso orologio a parete provenire dall’ingresso e si sorprese ad ascoltarne il ritmo in perfetta sincronia con i battiti del suo cuore. Non capì cosa l’avesse fatta svegliare in quel modo: a parte l’orologio, in tutta la casa il silenzio era totale. La sveglia sul comò segnava ancora le sei del mattino. Si raggomitolò di nuovo sotto il piumino cercando di riaddormentarsi subito.
“Bianco e vuoto”, si ripeté mentalmente creando il nulla davanti agli occhi, un foglio bianco per l’appunto, e il nulla nella mente, “bianco e vuoto”.
A volte quel gioco funzionava, ma non quella mattina. Iniziò a rigirarsi nervosamente sentendo che i pensieri cominciavano a riempire ogni angolo remoto della sua testa. Il sogno… era stato proprio il sogno a riportarla alla realtà in modo così brusco. Nell’infinitesimo spazio che l’aveva separata dal sonno, lui le era parso così vero da pensare che fosse lì, veramente vicino a lei, in una dimensione in cui sogno e realtà diventano un’unica visione di evanescenti percezioni.
Scostò con forza il piumino, infilò le pantofole e si alzò: “Basta, basta o divento matta” pensò “è stato solo un sogno e tra un po’ si ricomincia”. Ma il vuoto, che la fine del sogno le aveva lasciato dentro, la stava torturando ingigantendosi ad ogni passo mosso verso la quotidianità del nuovo giorno.
Armeggiò con la caffettiera cercando di non far cadere gran parte del caffè sul piano di marmo; sistemò la tovaglietta sul tavolo, la zuccheriera, la tazza da caffè e il cucchiaino e si preparò una ciotola di cereali innaffiandoli abbondantemente di latte fresco. Tirò su la tapparella ed era ancora buio: la sfera luminosa della luna era proprio davanti alla finestra sulla sagoma nera della collina. “Perfetto, come sempre, come ogni cosa avviene al di fuori di noi, con le stagioni e i giorni… ogni cosa perfettamente al momento giusto….”
Ma il sogno no, quello non era arrivato al momento giusto della sua vita. No perché lei aveva accantonato l’incontro avvenuto anni addietro ad una cena di lavoro, lo aveva archiviato, come un file da cancellare, nel cestino della sua memoria. Troppa emozione le aveva provocato conoscere quell’uomo, troppo rimescolio interno aveva destabilizzato ogni suo razionale comportamento e , lei , questo non lo avrebbe mai accettato.
Dal borbottio della caffettiera capì che il caffè era quasi pronto.
Il sorriso di quell’uomo era entrato in ogni sua fibra, in ogni cellula del suo corpo, della sua anima, di ogni cosa con la quale è composto un essere umano. Ammaliata per tutta la serata, aveva
sofferto di ogni emozione provata, di una sofferenza che aveva rasentato il culmine di un piacere quasi demoniaco. Anche il saluto delle mani non avrebbe più dimenticato, mani calde, mani dalle quali non avrebbe più staccato le sue.
Rimescolò il caffè, girando e rigirando il cucchiaino meccanicamente. Chiudendo gli occhi cercò ancora quel sorriso, cercò ancora il contatto delle sue mani, quel sorriso e quel contatto che il sogno le aveva riportato per un attimo.
Cosa aveva sognato? Ah sì, si era trovata davanti alla porta di una casa… no, forse era già in una stanza, non ricordava… ma sì , erano già in una stanza. Non era ben definita, poteva essersi trattato di un grande ingresso dal momento che il pavimento era sgombro di qualsiasi mobile. Sì, erano in un ingresso col pavimento alla veneziana: alla parete frontale era appeso un bellissimo e grande specchio decorato da una cornice barocca e alle pareti, tra le aperture delle porte, quadri di nature morte.
“Ciao” il suo saluto aveva riempito il silenzio della stanza diffondendosi tutto intorno e ripercuotendosi dentro di lei col rimbombo di un’eco.
Era andata incontro alle sue mani che l’aspettavano protese per il saluto. Dio, com’era bello rivederlo, dopo tanto tempo e, quanto era bello il suo sorriso. Come aveva potuto prendere quella assurda decisione di non volerlo più incontrare se tanta era la gioia che, adesso, le stava dando quell’incontro?
“Ciao” gli rispose mentre le mani si ritrovavano nel gesto del saluto, ma un grido fuori dalla finestra la fece voltare perdendo la luce del sogno , i contorni della stanza e il suo volto.
Il grido della gazza, di passaggio nel giardino, l’aveva risvegliata, ecco la causa del risveglio improvviso. La risentiva correre da un albero all’altro mentre il cucchiaino continuava a tintinnare nella tazza. Ne fu risentita, ma anche la gazza era parte di quel tutt’uno perfetto che andava a completare un cielo, un ramo altrimenti vuoto.
Col trascorrere dei giorni i ricordi del breve incontro reale e il sogno stesso persero i loro confini, diventando uno parte dell’altro tanto che Rossana si chiese spesso cosa era stato vero e cosa solo sogno fino alla notte in cui si ritrovò di nuovo in quella casa.
“Ciao” la salutò Patrizio prendendola per mano e accompagnandola oltre una delle porte del grande ingresso.
Come trovava naturale lasciarsi portare tra quelle pareti, le sembrava di essere… a casa!
“Che bello!”, esclamò alzando lo sguardo al soffitto completamente affrescato. “E’ l’allegoria dell’Universo, guarda quante stelle”.

“Sembra di esserci dentro per davvero” Rossana si sentì trasportare attraverso pianeti e galassie sconosciute. Stupendo! Adesso avrebbe potuto anche morire.
Lo guardò attraverso riflessi di cobalto ed anche il suo sorriso brillò di luce.
Il risveglio fu ancor peggiore della prima volta. Quella mattina non andò a lavorare adducendo la scusa di un malore. Effettivamente non stava bene, provava un male indefinibile che le toglieva ogni volontà. Dopo la leggerezza del volo, la coscienza dell’essere fisico in una realtà da toccare, da sentire, da sopportare, la schiacciava a terra facendole sentire tutta la sua forza di gravità.
Nell’arco della giornata, in preda ad una profonda crisi di ansia, chiuse ogni tapparella immergendo le stanze nel buio più profondo. Si coricò cercando di addormentarsi; doveva dormire, doveva ritornare nel suo sogno, ne aveva un bisogno irragionevolmente smodato..
Questo servì soltanto a provocarle un forte mal di testa che andò ad accrescere il suo profondo disagio.
Il mattino seguente lo specchio le rimandò l’immagine di un volto orribile. “Dov’è finita tutta la tua baldanza? Stupida, sei solo una stupida!” gridò a quel volto. “Guardati, fai schifo, fai schifo!”
Rossana si accasciò sul bordo della vasca da bagno e pianse disperata. Cosa le stava succedendo, neppure la solitudine di una vita da “single” , fatta per sua scelta e di cui, forse, non si era mai pentita, le aveva mai causato quel senso di disperazione in cui, adesso, stava precipitando.
Lo squillo del telefono la fece sussultare. Non avrebbe risposto, in quel momento non gliene importava assolutamente nulla. Avrebbe sentito il messaggio della segreteria più tardi. Perché continuava a suonare? Non lo sopportava più,. Si alzò per andare a staccare la presa, ma quando fu vicina all’apparecchio, alzò la cornetta e, questo sorprese anche lei, rispose con voce solitamente professionale. Era una collega che voleva avere sue notizie, sapere come stava, se aveva bisogno di qualcosa e quando sarebbe rientrata in ufficio.
Rossana lanciò una rapida occhiata all’orologio, era ancora in tempo per giungere in orario. “Sto meglio, grazie , molto meglio. Mi vesto e arrivo. Sì, sì, sto bene , stai tranquilla… no, era solo un lieve malessere”. Mise giù la cornetta e si preparò in fretta senza dare possibilità al suo dolore di violare oltre la sua integrità psichica.
Era autunno e gli alberi di platano avevano già tutte le foglie gialle. Una folata di vento ne fece volare giù qualcuna, facendola roteare prima un po’ nell’aria e poi posandola sull’asfalto della strada con le altre già cadute. “Moriranno così, tutte insieme, nell’ultimo tripudio di colore, così senza sapere di un’altra estate. Mai più verdi, mai più illuminate da trasparenze di sole …” Rossana si chinò a toccarle, frusciavano già secche. La vita regala e la morte ruba. Ma com’erano belle
seppure morte, l’illusione ancora della vita giocava con la bellezza dei colori e la morte vi si soffermava divertendosi a sfumare i gialli con i marroni o con i rossi accesi nell’ultima crudele illusione.
L’illusione… quella che ci accompagna per tutta la vita, che ci fa creare motivi affinché la vita abbia un senso per essere vissuta non invano, l’illusione che la morte sia un destino degli altri, l’illusione di poter trasformare un sogno in qualcosa di vero come ascoltare i propri passi sul selciato della strada o toccare le foglie d’autunno sentendole scricchiolare sotto le dita.
Sempre l’illusione, ovunque, ogni momento della vita. Dunque la sola realtà poteva essere la morte?
Rossana trascorse la settimana alternando momenti di oscuri pensieri a momenti di apparente normalità.
La notte in cui si ritrovò nel sogno, vi si abbandonò tralasciando la paura, sempre latente, che potesse finire presto: voleva viverlo, quel sogno, che scorresse libero, che fluisse come un fiume senza aver fretta di giungere al mare.
“Ciao” la salutò Patrizio come sempre. Quella volta si trovarono in una stanza al piano di sopra, una stanza piena di sole le cui grandi finestre si aprivano sul giardino. Rossana non lo aveva notato, ma che importanza poteva avere averlo visto o no? Nel sogno tutto può essere e non essere. Corse verso le finestre, anzi volle che non fossero finestre, ma una porta finestra che si aprisse sul giardino. Vi uscì d’impeto perché sapeva che là, fuori, si sarebbe trovata sul terrazzo da dove avrebbe potuto vedere il cancello d’ingresso e il viale di accesso alla casa. La fontana di pietra, sì, la fontana di pietra sorgeva al lato del giardino, sotto il grande salice e lei, questo, lo aveva già visto.
“Guarda” le stava dicendo Patrizio “guarda che panorama si vede da qui. Non è splendido?” Rossana avvertì il forte profumo dei pini che ricoprivano la parte alta della scogliera. “E’ un posto meraviglioso, vero?” le domandò Patrizio posandole teneramente un braccio sulla spalla “Sai, sulla parete più a sud nidificano i gabbiani. Spesso risalgono le rocce e restano sospesi a mezz’aria tra il cielo e il mare ad ali aperte come in attesa”.
Lungo il bordo alto a ridosso del muro di pietre, grandi agavi facevano sfoggio delle loro foglie. Una tra quelle era fiorita e il suo fiore si ergeva alto quasi volesse arrivare al pino.
“Che bel fiore” esclamò Rossana “è meraviglioso”
“Sì vuol dire proprio questo” le aveva spiegato Patrizio “il suo nome deriva dal greco e vuol dire meraviglioso. Fiorisce una volta sola nella vita e poi muore”

“Muore al culmine della sua perfezione, della bellezza assoluta… come a voler dire: non dimenticarti di me… “ poi, guardandolo negli occhi, gli sussurrò: “Vorrei vivere qui per sempre”
“Ti sto aspettando da tanto tempo, da quella sera …Tu sai come arrivare qui perché sai che questa è la nostra casa”
“Non è possibile, questo è un sogno e soltanto in questo sogno siamo destinati ad incontrarci”.
“Lo sai anche tu che non è solo un sogno” le rispose Patrizio accarezzandole il volto “non è solo un sogno… non è solo un sogno”
La sua voce si stava allontanando perdendosi nel vuoto, lentamente come la casa, come il mare, come la scogliera.
Rossana si risvegliò col cuore che le stava martellando nel petto: “Patrizio” chiamò urlando il suo nome, ma l’unica risposta della realtà fu la soneria della sveglia. Si toccò la guancia: quella carezza se la sentiva ancora sul viso.
Si alzò e preparò per uscire: aveva finalmente deciso che non avrebbe rinunciato a quell’amore che la stava consumando annebbiando ogni sua volontà di essere viva. Avrebbe cercato la casa perché sapeva dove cercarla.
In stazione il treno era già sul binario, pronto per partire quasi stesse aspettando soltanto lei. Si mosse dolcemente, senza scossoni come si spostasse su una nuvola. Il paesaggio le scivolò dietro il finestrino allontanando per sempre dalla sua vita tutto ciò che era stato il suo scenario quotidiano. Ben presto la torre della città, il porto con le navi e l’isolotto della cappella al marinaio sparirono alla sua vista come spariscono i ricordi, messi via nel cassetto dell’oblio.
Era una stupenda giornata e il sole abbagliava la superficie del mare. In quel luccichio d’acqua Rossana perse ogni contatto con la realtà del treno, della gente che vi saliva o scendeva.
Alla fermata prima della sua, si ridestò sentendo una lieve ansietà scorrerle dentro. Cominciava a chiedersi se avesse fatto la scelta giusta, se non sarebbe stato meglio restare a casa… se, se! Forse era diventata pazza senza capirlo. Si era lasciata catturare da un amore che non esisteva, che si era creato nella sua fantasia malata. Con gesti meccanici e inconsapevoli indossò la giacca dirigendosi verso l’uscita. La sua stazione di arrivo non era molto distante e, presto, il treno cominciò a decelerare. Tutto avvenne così rapidamente da non darle più il tempo di farsi domande o di avere altri dubbi: scese dal treno e lasciò la stazione come un qualunque pendolare tra gli altri. Camminava sicura sapendo dove andare. Il paese non era grande e non impiegò molto ad attraversarlo percorrendo la passeggiata lungo il porto dove le case colorate erano tutte disposte a schiera di fronte al mare.

Accelerò il passo e si ritrovò a correre; aveva paura che tutto sparisse all’improvviso, paura di essere nel sogno senza saperlo. Le mancava il respiro e il cuore le batteva nel petto impazzito, ma non aveva tempo per fermarsi a riprendere fiato. Lo fece soltanto quando si trovò sul promontorio in cima alla scogliera e riconobbe le piante di agave protese sul bordo e aspirò il profumo dei pini.
Lentamente si girò indietro e vide la casa. Si avvicinò al cancello che si aprì con una leggera spinta e percorse il viale alberato: ovunque foglie gialle e rosse ricoprivano il prato e la fontana di pietra zampillava sotto il salice.
In quel momento si fermò aveva creduto a quell’amore senza sapere se fosse reale, immaginato, sognato. Desiderato, però, sì: lo aveva desiderato con tutta se stessa sebbene adesso che ne era così vicina venne assalita da una paura incontrollabile tanto che credette di poterne morie.
Sussultò quando la porta della casa si aprì e lui apparve sulla soglia sorridendole con quel suo sorriso che tanto l’aveva turbata. “Patrizio!“ sussurrò quasi incredula. “Ciao Rossana, ti stavo aspettando” Rossana si fece catturare dal suo abbraccio e finalmente respirò profondamente quell’amore inspiegabile, quel profumo di pini, l’aroma del mare e l’urlo dei gabbiani sospesi a mezz’aria tra mare e cielo: era a casa!
La porta si richiuse alle loro spalle mentre, fuori, il vento faceva danzare tutte le foglie.
Una mattina di primavera una scolaresca si fermò davanti al cancello della villa. “Quanto è bella!” esclamò una ragazza “Mi piacerebbe vivere in una casa così”. L’accompagnatore sorrise “A chi non piacerebbe? E’ una villa molto antica, era dei signori del paese”.
“Che belle piante sulla scogliera” ammirò l’insegnante.
“Vedete quell’agave?” disse l’uomo “E’ morta da tanti anni, ma è rimasta così come fossilizzata nel tempo”
“Si può visitare la casa?” chiese qualcuno del gruppo. “Oh no, la villa è chiusa e nessuno ha mai avuto le chiavi”. I compagni chiamarono la ragazza rimasta dietro il cancello a fantasticare una storia d’amore.
“Peccato” disse “sarebbe stato bello vederla. Non si può chiedere ai proprietari?”
L’accompagnatore scosse la testa: “Non è possibile, gli ultimi proprietari sono morti da più di cinquant’anni e non c’è più nessuno della famiglia”
“Nessuno” sussurrò la ragazza e ripeté “peccato!” , ma, andando via e girandosi per l’ultimo sguardo, le parve di vedere una giovane coppia passeggiare nel parco sotto le fronde del salice.

III CLASS. FAVOLA
IL REGALO DELLA COLOMBA

C’era una volta una bambina tanto bella da far oscurare il cielo perché ogni volta che usciva dalla porta di casa, il sole si copriva con un mantello di nuvole per non sciuparle il volto. Si chiamava Sarina. Come tutti i bambini avrebbe desiderato giocare fuori, in giardino, vedere i colori dei fiori risplendere di luce, sentire il calore del sole sulla sua pelle. Invece, non appena varcata la soglia di casa, i fiori diventavano oscuri e tristi e le colline di fronte solo sagome nere. Gli abitanti del paese, mal sopportavano i momenti di oscurità durante il giorno, perché, in primo luogo, le tenebre non permettevano loro di espletare i lavori quotidiani, in secondo luogo una condizione così anomala avrebbe reso tutti di malumore. La superstizione si insinuò nei loro animi e cominciò a spargersi la voce che fosse una strega malvagia. Non poteva essere diversamente: la bambina era tanto cattiva che nemmeno il sole la voleva guardare. Sarina sentiva crescere l’astio intorno a sé; ritornava nella sua cameretta, si sedeva dietro la finestra e guardava fuori; solo così poteva ammirare il verde delle sue colline. Guardava il sole, guardava gli altri giocare e correre felici perché, lei, poteva soltanto guardare e non avere amici. La mamma iniziò ad avere paura che qualche invasato potesse arrivare a farle del male; così giunse alla decisione di tenersela sempre in casa, protetta dalle mura domestiche e dal suo amore materno, lontana da voci indiscrete, voci che non le piacevano affatto. I due fratelli, più grandi di lei di due e tre anni, cominciarono a odiarla: “Se esci tu noi non possiamo più giocare con i nostri amici, ci rovini la giornata. Dove passi tu diventa tutto brutto e buio!”, le aveva detto il più grande con aria di rimprovero, e l’altro aveva rincalzato: “E, sai, ci prendono anche in giro. Dicono che sei tanto cattiva che un giorno il diavolo verrà a prenderti e ti porterà all’inferno, giù, giù…” A nulla servivano i rimproveri della mamma. Un giorno, arrivò una colomba tutta bianca, si posò leggera sul vano della finestra richiudendo le ali e la guardò. “Ciao,” la salutò Sarina “come sei bella. Posso accarezzarti?” Avvicinò lentamente la sua mano alla creatura. Se fosse scappata via anche lei? La colomba non si spostò, anzi, chinò leggermente il capo verso quella mano come a incoraggiarne la carezza. Sarina non credette ai suoi occhi e la sua gioia fu immensa quando sentì il morbido contatto delle piume. “Vieni, entra, resta a farmi compagnia.” le disse incoraggiandola con voce gentile. La colomba rimase dov’era scuotendo il capo. “Non posso,” le rispose “io posso vivere solo con la luce del sole. E’ meglio che rimanga qui.” Parlò veramente o la bambina immaginò di averla sentita parlare? Qualsiasi cosa fosse accaduto, Sarina aveva capito la sua risposta. “Oh mia bella e dolce colomba. Che vuoi dire?” “Voglio dire che se su di me dovesse scendere il buio, morirei all’istante.” “Allora se adesso uscissi fuori da casa e venissi con te nel giardino tu…” “Sì.” La bambina si rattristò moltissimo. Per la prima volta aveva un’amica e la loro condizione era incompatibile. La colomba continuò: “Non essere triste. Anch’io sono sola come te. Verrò tutti i giorni a trovarti finché c’è luce, ma devi promettermi che, prima del tramonto, mi lascerai andar via così da farmi raggiungere il sole dietro la curva dell’orizzonte.” Sarina non uscì più, ma si accorse di non provare nulla per il mondo oltre la finestra, un mondo, quello degli umani, che l’aveva sempre ripudiata. Si sparse la voce che la piccola strega si fosse ammalata e, addirittura, morta, finché, piano piano, se ne parlò sempre meno, perdendo interesse. Alla bambina non interessavano le loro ipotesi, lei aveva, finalmente, qualcosa di molto più grande, un tesoro prezioso: quella docile e tenera creatura da amare. Il loro amore crebbe, giorno dopo giorno, anche se il momento del distacco divenne sempre più doloroso. Ad ogni tramonto le loro lacrime scivolavano leggere sui petali di una rosa nera cresciuta nel vaso sulla finestra. Il tempo passò e la rosa, irrorata dalle loro lacrime di dolore, diventò un roseto: le sue radici avevano rotto il vecchio vaso e, scendendo lungo il muro della casa, si erano allungate fino a penetrare nel terreno. Un giorno la colomba non tornò. Sarina si disperò; non sapeva cosa fare; uscire, non uscire, restare lì ad aspettare o andare fuori a cercarla. Attese un giorno intero e poi ancora un altro finché la mattina del terzo giorno, quando il sole spuntò dietro le colline a oriente del grande ontano, seppe che doveva andare. Il sole, come sempre, tentò di nascondersi dietro il suo mantello, ma quella mattina non trovò neppure una nuvola anche spaziando lo sguardo oltre l’orizzonte poiché il cielo era perfettamente terso. Sarina lo rimproverò: “Adesso basta, mio caro sole, smettila di nasconderti per paura di rovinare la pelle del mio volto, voglio essere anch’io come gli altri bambini, voglio uscire e correre con loro, voglio vedere con i miei occhi tutti i colori del mondo.” Il sole fu stupito e amareggiato. Per tutti quegli anni si era tanto preoccupato della sua bellezza e, adesso, lei non gli dimostrava alcuna gratitudine, percependo nella sua voce addirittura una nota di risentimento. “Cara bambina, io l’ho fatto per te.” “Non ti rendi conto che, così facendo, mi hai privata dei giochi, mi hai negato il calore di te sul mio viso. Io… sono una bambina che ha voglia di correre sui prati. Ti prego splendi anche per me e non aver paura di sciuparmi.” Il Sole ci pensò e capì che, proprio nascondendosi a lei, le avrebbe negato la sua vera bellezza, quella nascosta dentro al suo cuore, la gioia di sentirsi viva.” “Hai ragione, mia dolce bambina, da oggi non ti negherò più il calore del mio amore. Cosa posso fare per farmi perdonare?” “Aiutami a ritrovare la colomba, ti prego, non posso vivere senza di lei.” Il sole allungò un suo raggio sulla collina sparendo nel sottobosco della faggeta. “Vai, va’ dove la mia luce si è posata sotto gli alberi; là troverai la tua colomba, ma fa’ presto perché è caduta dove gli alberi son più fitti, dove il sottobosco è sempre oscuro.” Sarina cominciò a correre e le sembrò di non aver mai corso così veloce. Intanto pregava di trovarla prima che fosse stato troppo tardi. Corse inseguendo il raggio di sole finché non la trovò: un piccolo corpo di piume che giaceva sotto foglie portate dal vento. Poi corse ancora tornando verso casa. Sarina fece un letto di petali, proprio sotto la sua finestra, vicino al muro dove il sole era più caldo, e vi adagiò la colomba. La piccola creatura aprì gli occhi: “Sono caduta e sono rimasta al buio. Non riuscivo a volare e pensavo a te, al tuo dolore. Credevo di morire. Ma… sei proprio tu in tutta questa luce?” “Da oggi in poi non sarà più come prima ed io potrò correre con te sulle nostre colline.” La colomba chinò il capo per farsi accarezzare, ma al tramonto si preparò a volare dietro l’ultimo raggio di sole. Prima di andarsene, regalò alla bambina una sua piuma: “Come pegno nell’attesa dell’alba.” Sarina la posò tra i petali e le rose diventarono tutte bianche.

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II CLASSIFICATO POESIA IN VERNACOLO

LUCIANO RAVIZZA

“Sono nato, e risiedo, a Castell’Alfero, paese monferrino della provincia d’Asti nell’anno 1942. La mia vita lavorativa è terminata nell’anno 1997, quando a causa della morte di mio fratello, ho definitivamente chiuso la ditta di cui ero socio. Come per tutti gli “Umani” anch’io ho avuto dei momenti belli e degli interminabili giorni di cui non voglio portarne il ricordo. Ed ecco perché dopo un periodo oscuro, nel febbraio del 2000, ho iniziato quella che possiamo dire una nuova vita, dedicandomi alla mia parlata, ai personaggi che prima di me hanno scritto, cantato, recitato il Piemonte e l’Astigiano. Un modesto ma curioso interesse mi a portato ad andare ad ascoltare i vecchi, farsi raccontare la vita; da questo colloquio sono poi nate le mie 200 e più poesie, i miei 150 racconti. Dall’anno 2003 sono vicepresidente dell’Associazione C’era una volta, che a Castell’Alfero gestisce un museo, di vita contadina, denominato: “Ël Ciar”, la luce, ove il sottoscritto racconta tutto il modo di vivere dei nostri avi su queste colline. Infine da due anni calco le scene di piccoli teatri con un personaggio creato ottant’anni fa dal comico Astigiano Carlo Artuffo. Così in duecento parole si può descrivere: “Luciano Ravizza, da Castell’Alfero.”

Sognand me mari
scrita ¢nt a parlada astesàn-a



Mama, m’an ven an mant cola matèn,
còn Te ansetaja ’nsima a col scarèn,
còn col almisel 1) ad cotòn, che at favi girè,
quand at j’eri ancamèn
col majòn disfè, pirchè col cotòn
at serviva për fèji in gilè,
a o tò fieu’ che a soldà l’ava d’andè!
L’era ël mais d’agost do sinquanta e traij,
e Te là ’nsetà, travajand con in soris,
col cotòn at continuavi a svanè2)
fasanda còn ël man, col almisel girè.
Me pròpi bardòt sota al pruss a gighè,
mantri Te travajanda ’t continuavi a cantè,
cola cansòn, a cansòn che ad pù at piasiva ’d cantè;
Non ti scordar di me!
Ma o sviarèn m’an fà svijè,
e me tuti ël matèn, j’heu d’andè a travajè,
o tò soris e col tò cantè, m’an resta fiss
e còn j’euj doart continv sognè!
Adess col soldà a l’è lè ansema a Te, an Paradis,
ël pruss, vanda an piassiva ’d gighè,
e gnanca pù bòsch da brissè,
col ascarèn a l’é veuid,
ma a mè mant ancora ’t tzant,3)
at tzant a cantè:
Non ti scodar, non ti scodar di me!


1) Almisel = Gomitolo 2) Svanè = Disfare 3) Tzant = Ti sento

SOGNANDO MIA MADRE
Mamma, mi viene in mente quel mattino, - con Te seduta sopra a quello scalino, - con quel gomitolo di cotone, che facevi roteare, - quando intenta – quel maglione disfare, perché quel cotone – ti serviva per fare un gilè, - per tuo figlio che a militare doveva andare! – Era il mese di agosto del millenovecento e cinquantatre, - e Tu là seduta, lavorando con il sorriso, - quel cotone continuavi a disfare – facendo con le mani, quel gomitolo girare. – Io proprio ragazzino sotto alla pianta del pero a giocare, - mentre Tu lavorando continuavi a cantare, - quella canzone, la canzone che più ti piaceva cantare; - Non ti scordar di me! – Ma la sveglia mi fa svegliare, - e come tutte le mattine, devo andare a lavorare, - il tuo sorriso e il tuo cantare, mi resta fisso – con gli occhi aperti ti continuo sognare! – Adesso quel soldato è lì con Te, in Paradiso, - il pero, dove mi piaceva giocare, - non è neanche più legna da ardere, - quello scalino è vuoto, - ma la mia mente ancora ti sente, - ti sente a cantare: - Non ti scordar, non ti scordar di me!
By Luciano Ravizza 21 febbraio 2008

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SCUOLE SUPERIORI POESIA A TEMA LIBERO
I CLASSIFICATO
GIACOMO DALL'AVA (SANTA LUCIA DI PIAVE, TREVISO)

Funerale secondo norme stradali

Scendeva veloce
giù di corsa
a gambelevate per la discesa
via
via-di-casa-rapido-rapido-dopo-un-litigio
inchioda
ad ogni litigio
e-dopo-avanti-fino-al-semaforo
rosso
di sangue.

Era ferito,
ne perdeva ogni
3minuti e 30secondi
l’intervallo di un verde fugace
e dell’arancione
che lo anticipava di volta in volta.
Tutto un semaforo
e poi
d r i t t o___________________________
in statale (SS34)
senza lasciar scappare una goccia di sangue,
e poi il pioppo a braccia alzate
come all’arrivo.

I becchini della mutua
hanno fatto scavare una buca in più sulla superstrada
tirata a chic con un mazzo di fiori (finti o morti?)
che all’infinito tratteggia il cimitero stradale.

Non era che un diciassettenne scavezzacollo,
tuttosommato.


SCUOLE SUPERIORI POESIA A TEMA L’AMORE
I CLASS.
DALL'AVA GIACOMO

Se-mi s-fiori

Sbriciolando un fiore
-alla mano-
dai petali al vento
in aria
uno sull’ altro

vaneggio
se m’ama o non m’ama.

Semi cosparsi
sparsi in semi-nate speranze
sfogliati dal vento
a scivolare nel vuoto
per sempre
altrove

(S)fiorendo,
la voglia che cresce
e i vestiti
per terra,
spogliati:

l’ultimo petalo
che un bacio
sussurra


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II CLASSIFICATO POESIA A TEMA LIBERO
ERMANO RASO (RACCONIGI, CUNEO)

LA CAREZZA DELLA SERA

Ora che si spegne il giorno
ed il silenzio segna
del mio tempo i passi
più grande appare su di me la sera.
La sera che viene da lontano,
che ha cagione laggiù all’ovest
dove smarrisce il corso
il carro ignito dei destrieri alati,
la sera che pure placa degli affanni il cruccio,
che introduce al regno di Morfeo,
che quando irto si fa il cammino
e il piede affonda in fanghi di palude
disegna in cielo il sorriso della luna.


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II CLASSIFICATO ROMANZO INEDITO
MARCO RODI
24 FOTO IN UNA BORSETTA (IL MISTERO DEL CORALLO)

Il romanzo si ispira ad un fatto realmente accaduto: il proprietario libera, insieme alla propria figlia, un appartamento dato in affitto ad un’anziana signora deceduta all’età di quasi cento anni dopo essere rimasta sola al mondo. Tra le scarse e misere cose scampate all’ingordigia degli indifferenti lontani eredi, rinviene quanto di più caro è rimasto alla vecchia inquilina: un’antica borsetta contenente 24 foto. L’uomo ne rimane colpito e decide, attraverso quelle poche fotografie, di fare omaggio alla vecchia signora ricostruendone la storia. Come in un magnifico spettacolo pirotecnico, a poco a poco, si materializzano uno dopo l’altro, un insieme di personaggi che, irrompendo prepotentemente sulla scena da uno sfondo scuro, calamitano l’attenzione dello spettatore, lo attraggono, lo stupiscono, per scomparire nuovamente nel nulla in una pioggia di tremolanti scintille colorate. Ed è tutto un susseguirsi di figure, di primi e secondi piani, che attraversano il secolo scorso dagli inizi della seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni. E, come un gioco di fuochi d’artificio che si rispetti, la storia termina con un gran botto finale che lascia attoniti e senza fiato mentre gli ultimi personaggi ancora si perdono nel buio della notte. Non rimane al lettore e a Nanni, il protagonista, che allontanarsi lentamente dalla festa assaporando ancora per un po’ l’odore acre delle polveri piriche prima che questo si perda nel vento dell’oblio di una famiglia che, sotto le vesti di un’apparente normalità, nascondeva una storia dolorosa, assolutamente imprevedibile, gelosamente ed intimamente tenuta celata tra i ruderi di un vecchio stabilimento termale dismesso da anni.

Notizie Personali: Marco Rodi

Sono nato ad Aosta, città nella quale ho vissuto fino all’età di quattordici anni.
Mi sono poi trasferito a Livorno dove ho completato gli studi ad indirizzo scientifico conseguendo la laurea in Scienze dell’Informazione presso l’Università di Pisa nel 1974.
Dal 1975 sono stato docente di informatica presso numerosi istituti superiori di Livorno e provincia. Nel corso della carriera lavorativa ho svolto varie attività, anche professionali, prevalentemente rivolte alla formazione e all’insegnamento anche in un penitenziario a detenuti ad elevato grado di pericolosità.
Ho successivamente frequentato un corso triennale di Gestalt Counselor che ha contribuito a farmi scoprire la passione per la scrittura e stimolato a comprendere qualcosa in più dell’essere umano.
Sono coniugato dal 1977 e padre di una figlia ormai divenuta una donna e pronta ad intraprendere la propria vita.

“Il sentiero tra due isole” è nato nel 2006 come una relazione finale di un corso settimanale di Gestalt; poi si è trasformato in un romanzo. Ha avuto numerosi riconoscimenti nel settore della narrativa inedita (http://www.universoletterario.com/)
E’ stato pubblicato nel luglio 2008 dalla casa Editrice Leonida di Reggio Calabria.

“24 Foto in una borsetta (il mistero del Corallo)” è il secondo romanzo (quasi un giallo) scritto nel 2007. E’ avvincente e delicato nei toni. Anche con questo romanzo ho ottenuto diversi riconoscimenti:
Primo Classificato al Premio “Circe. Una donna tante culture” di Monterotondo (RM), Secondo classificato al Concorso “Penna Calamaio” Savona, Terzo Classificato nei concorsi “La città dei Sassi” Matera e “Autori del terzo millennio” Modica e finalista nei seguenti concorsi: Premio Internazionale “G.Cingari” (RC), premio letterario “Nemo” (MI), Premio “Tespi” e Premio Letterario “Favole, cammini e percorsi” (LE). Uscirà edito nei prossimi mesi.

“Sulla rotta delle balene” è il terzo romanzo appena terminato il cui argomento principale è relativo alla tratta delle donne dall’Est Europeo con il quale mi appresto a seguire la solita trafila per arrivare alla pubblicazione.
Attualmente ne sto scrivendo un quarto dal titolo “La cucina del rigattiere” ed una serie di racconti che racchiuderò in una antologia.
Passioni, hobbies: Tennis, sci, canoa, giardinaggio, coltivazione di ortaggi.
Mail: marco.rodi@yahoo.it


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ROSELLA MARVALDI (Savona):


“Tracciare segni o parole è comunicare quanto a viva voce non si riesce. È una sottile via di fuga che consente di negare impossibilità oggettive e soggettive, e anche un pretesto per leggere la realtà in chiave diversa, senza tuttavia aggirarsi in un ‘giardino incantato con frutti di cristallo’. Oppure per decostruire un ambiente a cui non ci si adatta e rimontarlo in altri più ospitali. Ognuno si confronta con il limite indefinito e cangiante della parola, pensando che ‘l’attenzione di Dıo, che mai dorme, / raccoglie eternamente ogni sogno, / ogni vuoto giardino ed ogni lacrima. / Continua il dubbio e la penombra cresce’1. E ancora con Borges ‘Se sapessi che è stato di quel sogno / che sognai, o che sogno aver sognato / saprei tutte le cose’.2

II CLAS. POESIA A TEMA LIBERO
ANCHE TU PARLA *

Parla anche tu
Nel silenzio dell’ora
O in valle fonda
Ove dense le acque
Gorgogliano in anfratti

Parla anche tu
Nel tempo
Affannato a indicare
Oltre i confini
Valichi insormontabili

Parla anche tu
Nei vuoti senza risposte
In giorni senza parole
Per descrivere mondi,
Misurare universi

Parla anche tu,
Nel deserto affollato
Di gente alla ricerca
Presso porte di roccia
Dove infrangono acque

Parla anche tu
Nella notte più oscura
Tra limiti fissati
Del buio che l’aurora
Trapassa nel mattino

E il tacere non scopre
L’impossibile mente
Né rivela progetti
Di germogliante terra
O di volte tese su calibrate stelle.

Parla anche Tu
- Come corvo ai suoi piccoli
A cui pur dona cibo-
A smemorati errabondi
Nella ricerca vana dell’assente.

1 J.L. Borges, Dimenticando un sogno
2 J.L. Borges, La cifra, A Mondadori, Milano, 1996

* Dal titolo di una poesia di P.Celan Parla anche tu (Sprich auch du), in Di soglia in soglia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino, 1996, p. 97


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ANTONELLA MASSARO (Brindisi):


nata a San Vito dei Normanni (BR) l’8 febbraio 1997, ha una grande passione per gli animali e cura insieme a suo fratello Vincenzo la loro gatta Grigia e un gatto randagio di nome Batcat che passa ogni giorno davanti casa loro. Ama studiare, ma a scuola è sempre con la testa fra le nuvole. Appena arriva a casa, però, si siede davanti al computer e si immerge nella sua storia, “La magia del drago”, che spera di finire e pubblicare al più presto. Il merito, secondo lei, è tutto dei tanti libri che legge, in particolare di “Eragon”, un libro che le ha aperto gli occhi. Partecipa ogni anno a un sacco di concorsi, e sa che è merito anche dei genitori, nonni, zii e cugini e delle sue maestre della materna, delle elementari (Melina Gagliano e Susy Palano) e delle maestre della 1° G (troppe per ricordarle tutte). Spera di diventare una famosa scrittrice, ma sa che, oltre a quello, bisogna pensare anche allo studio!

I CLASS. POESIA SEZIONE SCUOLE ELEMENTARI
Col disegno e colla rima mi presento in anteprima

Sulla testa ho un laghetto
ed un piccolo boschetto,
sui miei occhi rotondetti
ci son due animaletti,
un coniglio ed un gattino
che sgranocchiano un panino,
e per naso ho un pennello
che dipinge ad acquerello
la mia bocca sorridente
tutta rossa e splendente,
un bel libro di avventure
e di eroi senza paure
ho per farmi la maglietta
ed infine, senza fretta,
vi saluto senza fatica
con le penne che ho per dita.



II CLASS. RACCONTO
LA MIA VITA

Ogni mattina mi sveglio alle 7,00 e scendo giù in cucina per fare la colazione. Do da mangiare ai miei gatti ed al mio piccolo cucciolo di drago, poi mi preparo per andare a scuola. Salgo sul mio drago, che mi porta a scuola. Alle 16,10 torno a casa e a volte faccio anche qualche acrobazia durante il ritorno. A casa mi trasformo in una maga. Di solito le magie le faccio da sola, perché mio fratello Vincenzo è un possente ninja, papà è uno scienziato illuminato e la mamma una pittrice; cioè, mi correggo, non da sola: ci sono i miei gatti magici, Tommy con il potere di correre velocissimo e Grigia con il potere di parlare; poi c’è il mio drago Adurna che significa acqua. Nella mia casa però c’è una cosa veramente importante: il Libro Magico che non è ricoperto di diamanti ma ha un potere: allontanare i guai dalla nostra famiglia. Ogni sera lo controlliamo sotto la campana di vetro e poi andiamo a dormire tranquilli. Ma un giorno sentiamo un rumore tremendo ed ho un presentimento… - Oh no! qualcuno ha rubato il Libro Magico!- disse Vincenzo. – Ecco chi!- risposi io, indicando un ragazzo che scappava dalla finestra. – Adurna, inseguiamolo ! -. Io salii su Adurna e in poco tempo riuscimmo a raggiungerlo, ma lui scappò. Tornati a casa scoprimmo che era stata inondata, ma la mia famiglia si era salvata trasferendosi sulla montagna. – Lo troveremo! – dissi. Dopo due giorni tutti insieme trovammo la sua casa, lo addormentai con un incantesimo e, mentre mamma, papà lo portavano a casa io, Adurna, Tommy, Grigia e Vincenzo cercammo il Libro. Ad un tratto Grigia esclamò: - Trovato ! Trovato! Vincenzo l’ha trovato!- Tornammo a casa con il Libro e trovammo il ragazzo sveglio ed allora confessò: - Mi chiamo Zoe e sono un pastore, ho preso il Libro perché nel mio Paese sono il più sfortunato. Anche l’inondazione era per me, ma il libro l’ha deviata verso di voi. Non l’ho fatta apposta!- Noi ci avvicinammo e gli dicemmo: - Non preoccuparti, ci pensiamo noi!- Lavorammo giorno e notte e alla fine gli consegnammo un libro dicendo: - E’ tuo!- Lui se ne andò tutto felice e non lo rivedemmo mai più.
Certo, non è una storia con un cattivo e uno sconfitto, ma mi sentivo crudele nel lasciarlo senza Libro magico e con le sue inondazioni!

fine




I CLASS. FAVOLA
LA PANTERA E IL GATTO

C’era, in una foresta, una pantera molto felice della sua vita. Viveva in un posto bellissimo e il cibo non le mancava mai, tutti i giorni andava a caccia con il suo amico puma e si sentiva felice. Non aveva mai desiderato essere come qualcun altro, e per questo il suo amico puma la ammirava. L’inverno però arrivava con il freddo e la neve, perciò la pantera e il suo amico puma si dovevano spingere fino al villaggio vicino, per non trovare solo prede a ghiacciolo. Un giorno decisero di avvicinarsi alla parte più vicina delle fattorie, presero alcune faine e fecero per allontanarsi, ma la pantera vide un piccolo gatto nella fattoria più grande, curato, pulito e con il cibo nella ciotola. Si fermò e gli disse: -Come ti invidio! Tu hai sempre il cibo pronto,non fatichi e vieni coccolato e accudito ogni giorno!- il gatto sentendo queste parole replicò: -Vorrei tanto essere al tuo posto! sei libera di fare ciò che vuoi, puoi andare ovunque e sporcarti finché puoi!-. Così giunsero ad un accordo: si sarebbero scambiati i ruoli. Ma la vita del gatto non era come pensava la pantera: doveva lavarsi, mettersi il collare, badare agli animali, farsi coccolare e cavalcare dai bambini… in più non poteva uscire e poteva mangiare solo quel cibo amaro che gli davano! Il gatto intanto non se la passava meglio: aveva paura di quei grossi animali, c’erano un sacco di pericoli,il cibo era difficile da trovare… e poi lui non riusciva ad uccidere dei poveri animaletti indifesi! Insomma, per loro la vita non era affatto facile,così un giorno decisero di ritornare ai loro vecchi ruoli.
MORALE: sii felice di essere te stesso.


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III CLASSIFICATO VOLUME EDITO DI POESIA
ROBERTO MILIOTTI (Castel Gandolfo, Roma):


nato a Roma nel 1945, consegue la Laurea in Architettura nel 1973 presso l’Università La Sapienza. Studente-lavoratore presso gli studi professionali è contemporaneamente impegnato nel Design di lampade per una importante industria toscana. Molte delle sue lampade sono pubblicate su riviste internazionali di arredamento. Dopo la Laurea intraprende l’attività professionale e, contemporaneamente, l’insegnamento sia all’Università come Assistente, che negli Istituti d’Arte come Titolare di Cattedra di Progettazione.
Nel 1990 si trasferisce con la moglie Rose-Marie a Castel Gandolfo dove inizia una attività nel campo del sociale all’interno del Comitato per il Gemellaggio del quale dal 1997 assume la carica di Presidente, che tutt’oggi ricopre. Nel 2003 è tra i promotori, fondatori ed oggi Presidente, dell’Associazione Culturale l’Arca. Con l’Arca pubblica nel 2004 la sua prima raccolta di poesie in vernacolo “C’era ‘na vorta” e nel 2008 riceve per tale volume il “Primo Premio Assoluto” nel Concorso “Premio LiberArte 2008” bandito dall’Accademia Internazionale “Il Convivio” di Mattinata. Nel 2007 riceve il “Secondo Premio” con la poesia inedita “Er Treno” al Concorso Nazionale di Poesia “ Elia Marani” di Massa Lombarda, riceve, inoltre, numerose segnalazioni e pubblicazioni di poesie inedite in altri Concorsi. Nel 2008 riceve il prestigioso “Premio Città di Castel Gandolfo 2007” conferito al Comitato per il Gemellaggio dall’Amministrazione Comunale per la meritoria attività di promozione delle iniziative internazionali del Comune.

SIRENA

Sguardo di miele… curve sinuose…
… metafora di tutto ciò che attira
e devia la coscienza dalle cose
di retta conduzione e giusta mira.

Voce che adesca, ardita, il navigante,
ammaliatrice d'uomini affannati,
perfida mietitrice, avida amante,
dispensatrice di… sogni incantati.

Infido scoglio, che vascelli affonda,
carichi di ovvietà e contraddizioni.
Grembo pietoso, che consegna all'onda,
chi rivendica al fato le illusioni.

Illusionista… che ristora il cuore
e dona oblio alla mente disperata
dell'uomo, sopraffatto dal rancore,
che fugge un'esistenza travagliata

e cerca nel pericolo di un mare
di sogni, di avventure ed abbandoni,
lo scoglio che lo faccia naufragare…
e l'ama per le dolci sue emozioni!


(Castel Gandolfo, 26 gennaio 2008)


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MARIA LUISA SARAGNI (Pieve Ligure, GE):


“ho sessant'anni, un marito, due figlie, due generi, due nipotini... Se qualcuno mi avesse chiesto se scrivevo poesie, mi sarei messa a ridere, perché non l'ho mai fatto! Tutto è cominciato qualche anno fa, con l'iniziativa del “SECOLO XIX”, in cui si invitavano i lettori ad inventare dei proverbi in genovese... Ho raccolto la sfida: ho avuto anche l'onore di un'intervista e la pubblicazione sul giornale di un articolo molto carino, con diversi proverbi inventati da me. E' stato un regalo bellissimo... e non mi sono più fermata! Le righe sono diventate delle piccole strofe ed ecco come sono nate le mie poesie, con un pizzico di ironia, di allegria, di fantasia!!!!!! E, con mio stupore e meraviglia, qualcuna è già stata pubblicata! Devo specificare che il motivo di “tanta creatività” sono Luca e Chiara, i miei nipotini di sei e due anni...
Sono anche una “ceramista dilettante anomala”... Luca voleva un laghetto con il mostro di
Loch Ness con gli occhi rossi e un dinosauro blu con il collo lungo?... Detto... Fatto! I miei hobby? Nipotini, giardinaggio... e partecipare ai concorsi di poesia. E' già gratificante scrivere, ma volete mettere vincere qualcosa?”

III CLASS. POESIA IN VERNACOLO
RICORDI

In zeneize mi scriviò,
comme posso, comme so,
con di mendi, di malocchi,
mèzo intrègo, mèzo a tocchi!
Un pitin, oriè contà,
comme l'èa....................Tanti anni fà!

Ora pro èi..................Novenn-e e rosài!.........
Oriè pòei, oriè pòei,
quarchedùn dixèia....................
Orate, orate,
..................A custodia matutina....”Scatenate”...............
S'assendèia unn-a candeja,
in ta banca mè nonna a dormìa......................
Ai morti i libèti pe tutti i figgieu,
desgheuggè cian cianin pe pòeili bruxià.........
Ninte braghe, ma fàdette
e pe fa a còmegnon,
a zazzùn da mezanotte.
Tutti in fila in procesion,
coi mandilli, coe velette.
Sempre magro ao venerd',
ai ròsai coe conette!
E pe pòei ao cine andà,
primma ao vespro...............
...........E se vedià!
Rebellavimo ao Sepùrto
l'aggetto con o brùgo
con pazienza fregoggiou
e a vèssa ao scùo de lungo
a nascèiva in ti platò..................
Dexe çitti pè a carèga
e duì scui in ta sacchetta.
Sitto, sitto, prega, prega!
E è donne cò a rebecca.
E' banche de legno,lasciavan o segno:
Zenogge spellè, braghe amottè!

Se Gelindo, o sacrestan
o deuviava o moccalumme,
a veletta a l'èa zà in man:
.............Tutti foa, comme o fumme!!!!!!!!!!!!!

Scriverò in genovese, / come posso e come so fare, / con dei difetti, delle inesattezze, / un po' intero, un po' a pezzi! / Vorrei raccontarvi un pochino, / come era tanti anni fa.........../ Ora pro ei.........Si andava ai rosari.... / “Vorrei potere, vorrei potere”......../ qualcuno rispondeva. / Pregate, pregate, / A custodia matutina, usque ad noctem / veniva abbreviato in “scatenate” / Si accendeva una candela, / mia nonna dormiva nella panca! / Ai morti c'erano i lumini per tutti i bambini, / da srotolare piano per poterli bruciare. / Niente pantaloni, ma gonne / e per fare la comunione, / a digiuno da mezzanotte./ In processione tutti in fila, / con il capo coperto da foulard e velette. / Al venerdì niente carne, / ai rosari con le coroncine. / E per potere andare al cinema parrocchiale, / prima alla funzione del Vespro.........../..........E poi si vedrà! / Portavamo ai Sepolcri, / i fiori bianchi dell'aglio e l'erica / veniva sbriciolata con pazienza / e si seminava nelle cassette la veccia: / si teneva al buio per farla nascere bianca. / Dieci lire per la sedia / e due monetine da cinque nella sacchetta dell'elemosina! / Zitto, zitto, prega, prega! / E le donne con la giacchetta con le maniche lunghe! / Le vecchie banche di legno, lasciavano il segno: / Ginocchia spellate, pantaloni stropicciati! / Se Gelindo, il sacrestano, / adoperava lo spegnicandele, / il copricapo era già in mano, /................e tutti i ragazzi fuori, in un baleno!!!!!!!!!!!

CARISSIMO..............PIDOCCHIO!

Tutti a scuola. Zaini firmati!
Sorridenti, sul pulmino.
Impegnati:tempo pieno!
................Al ritorno. IMPIDOCCHIATI..........

No, non è una novità,
all'asilo, già si sa,
eravamo rassegnati
e i pidocchi......controllati!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

Che prurito, che tormento,
su, facciamo il trattamento
con l'aceto, col petrolio,
ma che puzza, non lo voglio!
Ma con tanta agitazione,
benvenuta la lozione!
Or l'allarme è già scattato,
sembra giorno di “bucato”!!!!!!!
Il controllo con la lente,
tutti in posa col turbante!
Solo il nonno che è pelato,
non sarà...............”Impidocchiato”!

Carissimo......................pidocchio,
ricordi quand'eri sparito?
Io ci scommetto un occhio
che qualcuno....................s'è arricchito............

Carissimo..................pidocchio,
noi ti teniamo d'occhio...............
or sei di nuovo in pista
e.........gongola il farmacista!
A padre, madre e figlia
faran sconto....famiglia!
Non perdi l'occasione
di “far televisione”,
un divo tu sei già,
fai la pubblicità................
E in casa, con gran lena,
tu entri a pranzo e cena.........


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ELISA TERRIBILE (Savona):


infermiera professionale, pratica con amore al suo lavoro, dedicandogli tutte le sue energie. E’ stata tra i fondatori dell’Associazione Culturale Savonese ZACEM, sempre fedele amica e positiva collaboratrice. La poesia, insieme ad altre attività creative artistiche, è molto importante per lei fin da quando era bambina e l’ha aiutata a superare i momenti bui, grazie anche al suo carattere profondamente buono. Ha ricevuto molti apprezzamenti in Concorsi Letterari e dal pubblico dei visitatori nelle esposizioni di poesie organizzate dall’Associazione. Con la poesia “La clessidra” ha anche partecipato al lavoro “Fotopoesia” di ZACEM e del Liceo Artistico “Martini” di Savona: il suo pannello è stato ritenuto uno dei due migliori tra tutti. Il brano “Il gigante ed il bambino”, più che una favola è un’analisi introspettiva, in parte sogno e in parte autobiografia, sulla quale vale davvero la pena di riflettere a lungo. Internet: www. Club.it/associazioni/zacem/terribile.elisa.

MENZIONE D’ONORE POESIA A TEMA LIBERO
GRANELLI DI SABBIA

La clessidra,
le ore scandisce,
le ferite
il tempo lenisce

e, ritorni
ad amare la vita
quella ancora che
hai fra le dita

Ogni tanto,
rivivi un momento,
come sabbia
negli occhi col vento!

SEGNALAZIONE DI MERITO POESIA A TEMA L’AMORE
A MIO FRATELLO

Ho gettato i miei ricordi
in fondo al mare, per
non più ritrovarli,
il mio passato cancellato
per lasciar posto
ad una nuova vita.
Ricordi vaghi, lontani
come le cose nascoste
negli oceani ma,
come l’onda riporta
stelle e conchiglie
dal mare, ecco
che tu, sali alla
mia mente come
unico, piccolo e grande
bene dei miei tristi ricordi,
come un fiore nato
dalle rovine di una
famiglia distrutta!

III CLASS. FAVOLA
IL GIGANTE ED IL BAMBINO

C’è un mondo magico in una storia di amicizia vera, che aiuta a vivere al di là del tempo e dello spazio... Finalmente il gigante ed il bambino si sono incontrati, stanno camminando insieme e stanno ridendo, scherzando, come non avevano fatto mai prima d’ora. Tra i due nasce amicizia vera: ciascuno ascolta e crede ciò che l’altro ha da dire; sparisce così la tristezza subentrando consapevolezza e forza di non essere più soli ad affrontare la vita. Quest’intesa permette loro di comunicare anche telepaticamente, perché non c’è egoismo né ipocrisia. E’ l’unione tra forza e mente, dove lo spirito ritrova la vera ragione di essere, dove il sogno può diventare finalmente realtà. Tutti e due condividono e sono creditori di un passato diventato per loro insostenibile, perché continuando a subire e ad essere derisi, avevano perso il senso della vita: il gigante aveva la forza, ma non credeva più in se stesso perché, anche se era cresciuto tanto fisicamente, pensava di non valere niente e non capiva più perché era sopravissuto. Il bambino era troppo piccolo per difendersi e pregava, immaginando questo amico gigante, che lo proteggesse e lo salvasse da tutte quelle situazioni ingiuste. E’ proprio il bambino a guidare il gigante ed insieme ripercorrono, rivivendo le tappe delle loro vite passate, ridiventando quindi protagonisti delle stesse situazioni, in un contesto di avvenimenti già vissuti e di persone simili già conosciute, per cui entrambi avevano subito ingiustizie e sofferto tanto. Finalmente uniti! Ad ogni tappa, ne escono vincitori, finché non hanno più nemici perché questi, appena li vedono, addirittura li ossequiano. Niente e nessuno può più ferirli, anzi possono addirittura guarire gli altri o modificare l’ambiente: infatti chi li vede resta contagiato da questo trionfo di vita e smette di distruggersi o di distruggere. La vegetazione cresce quindi rigogliosa e gli animali ritrovano così il loro ambiente naturale. Sono usciti dal loro passato ed il presente, grazie al loro passaggio, è diventato un paradiso terrestre. Stanno infatti raccogliendone i frutti e sono felici. Si avviano verso il futuro. Chissà che cosa riserverà loro questa strada? Comunque sia, varrà senz’altro la pena percorrerla. Chissà quante cose riserverà loro, quante lezioni da imparare e da insegnare, quante persone o situazioni nuove il destino avrà loro riservato? Insieme sono proprio ansiosi di proseguire. Forse dove passeranno il gigante ed il bambino non ci saranno più guerre, perché questo potere che sprigionano è una forza vitale immensa che contagerà tutto e tutti, bloccando per sempre la distruzione. Devono solo continuare, uniti hanno la potenza di un’atomica nel positivo. E’ meraviglioso guardarli e non si può che provare gioia, dai loro occhi sprigionano amore a dismisura! E’ con la completa accettazione dell’altro da sé che l’uomo ritrova il suo vero io, perché riconosce se stesso. Così la rabbia del gigante si tramuta in saggezza e la paura del bambino in forza, ed è da questa unione che l’uomo può sconfiggere qualsiasi debolezza. Al di là del buio c’è la luce, al di là della rabbia, del risentimento, della delusione che è in ognuno di noi, c’è la vera magia della vita!


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GIULIA VANNUCCHI (Viareggio, LU):


“Mi chiamo Giulia e ho dieci anni. Ho iniziato a leggere dall'età di quattro anni come parte della terapia riabilitativa degli Istituti per il raggiungimento del potenziale umano di Philadelphia che seguo per guarire dalle lesioni cerebrali che mi hanno colpito a tre mesi di vita. Sono diventata un'appassionata lettrice e da molti anni scrivo poesie che mi hanno fatto classificare al primo posto in numerosi concorsi, sia per ragazzi che per adulti : "Un dolce pensiero" Gay-Odin 2007, "San Gillio" 2008, "Speciale donna 2008"M.A.R.E.L., "S.Maria in Castello" 2008, "A. Crudeli" 2008, " "Bardi e Menestrelli" 2008, "Carla Boero" 2009, " Il Molinello" 2009 , per citarne alcuni.”
II CLASS. POESIA SEZIONE SCUOLE ELEMENTARI
FARFALLE

Mille ali
si librano
nell’aere
infuocato.

Colori
che vibrano
staccandosi
dal suolo.

Mille ali
si innalzano
per adagiarsi
ancora.

Come fogli
di carta velina
nell’abbraccio
di Borea.

(21/9/07)

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III CLASS. POESIA A TEMA LIBERO
TIZIANA MONARI

Riccio di castagno
Ora che il cuore
è un riccio di castagno
mi specchio in un ovale d'ombra
in un ottobre che stringe nella gola
fiori fragiliun bosso e un sicomoro
Così mi faccio piccola
di liquide parole
nell'aria corta della sera
nel logorio del tempo
non ha voce
il dolore senza ciglia
arrossato sulle guance
goccia lento
si arrotola al mio seno
con un gatto e una falena
e si fa ciottolo di mare
sotto una luna madre
dilaniandomi
ancora
ancora
ancora.
Tiziana Monari è nata a Monghidoro, in provincia di Bologna. Vive e lavora a Prato. Ha partecipato a numerose antologie, tra cui Donne in poesia, Ladre di desiderio, Briciole di Senso, In senso inverso, Il silenzio dell’anima, Concorso di emozioni, Di quel fuoco, Poetika, Scrivere, Erositylove, Di Versi nel vento, La parola sensuale, Antologie Aletti e Perrone.Classificata nei premi posti ai seguenti concorsi,Vigonza 2008-Fucecchio,Mons Aureus, Penna e calamaio, l’Arcobaleno della vita, Il volo di Pegaso, A. Marianni,F; Pasqualino,ha inoltre ricevuto menzioni speciali e segnalazioni di merito in svariati concorsi letterari. Vincitrice del premio poesia Viareggio 2009, Stella e Antonio Norbiato 2009, Vigonza 2009, Castelli magico mondo di pietra 2009, Fratelli della stazione –giornata interetnica 2009-Silcheigata 2009- Nel 2006 ha pubblicato l’Opera di poesia Frammenti d’anima. Con la raccolta Il cielo capovolto ha vinto il Premio Letterario-Editoriale L’Autore.
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II CLASS. SEZIONE RACCONTO SCUOLE SUPERIORI

Viviana Villardita
una scrittrice mistrettese che cresce
di Sebastiano Lo Iacono
Viviana Villardita è nata a Mistretta (ME), il 31 dicembre 1992. Risiede in Reitano (ME), in Via Nazionale 10. Reitano è il paese natale del padre, artista musicista, insegnante di clarino, nonché ex-primo cittadino del piccolo paese dei Nebrodi.
Mistretta è anche la città natale della madre, Valeria Passalacqua, figlia d’arte, per così dire, per la sua attività nell’ambito forense.
Viviana ha conseguito il diploma di licenza media presso l’Istituto Comprensivo Mistretta, nell’anno scolastico 2005/2006, riportando la valutazione di ottimo in tutte le discipline. Attualmente frequenta il I liceo classico “A. Manzoni” di Mistretta.
Già a partire dal 2001 ha pubblicato numerosi articoli sul supplemento settimanale “Noi Magazine”, del quotidiano “Gazzetta del Sud”, e sul periodico “Il Centro Storico”.
In data 20/05/2006, si è classificata al secondo posto in un concorso a tema sull’importanza dell’acqua, promosso dal “Consorzio Bonifica 11 Messina”.
In data 20/10/2007, si è classificata al terzo posto della sezione giovani del premio letterario “Maria Messina”, con il racconto intitolato Ninuzza.
In data 27/09/2008, si è classificata al terzo posto della sezione giovani del premio letterario biennale “G. Rossi”, svoltosi nella città di Ferrara, con il racconto intitolato Musica.
In data 25/10/2008, si è classificata al terzo posto della sezione giovani del premio letterario “Maria Messina”, con il racconto intitolato La musica dell’anima.
Fa parte del C.I.A.P. (Circuito Italiano Amici di Penna).
Viviana Villardita, dunque, sembra avere la vocazione alla scrittura.
I riconoscimenti ricevuti a Mistretta, in occasione del premio “Maria Messina”, sono la prova che c’è una “scrittrice al femminile” in fase di crescita e di evoluzione. Stile e maturità linguistica, fraseggio fresco e linguaggio pulito, sembrano essere i tratti di una vocazione alla narrativa che può diventare qualcosa di più impegnativo.
Viviana, comunque, ha una stella in più: è nata proprio il 31 dicembre, una giornata eccezionale per una “ragazza eccezionale”, non essendo tante le ragazze della sua generazione che amano la lettura, la scrittura e la letteratura. Sicché pubblichiamo in questo sito alcuni racconti di Viviana Villardita con grande piacere “perché chi ha scelto la scrittura come mezzo estetico-espressivo ha una carta in più rispetto a chi manipola, invece, linguaggi fasulli e idiomi devianti”.
La scrittura è già di per sé un valore in più. Un valore identitario. Un’abilità qualificante. Una passione che può diventare arte. Villardita, scrittrice in erba già premiata in prestigiosi eventi culturali, questo valore in più, questa identità, questa passione e questa abilità ha dimostrato di possederli.
Non è cosa da poco… Recentemente il trimestrale di Poesia, Arte e Cultura dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” ha pubblicato un articolo di Villardita, scritto a proposito dell'incontro degli studenti di Mistretta con la scrittrice e professoressa Eva Cantarella. Villardita, poi, è diventata socia dell'associazione "Gruppo Scrittori Ferraresi". La sua biografia sarà pubblicata nella "Enciclopedia degli Autori Italiani", a cura dell'associazione "A.L.I. Penna D'autore". L’ultimo recente riconoscimento per Villardita è il secondo premio nella sezione giovani del "Concorso Letterario Internazionale Penna Calamaio”, bandito dall'Associazione Culturale Savonese "Zacem" con il patrocinio della Provincia di Savona. Il racconto premiato dalla giuria di questa manifestazione culturale è intitolato "La pianista e il poeta". La premiazione è avvenuta domenica 26 aprile 2009, alle ore 15,30, presso la sede della Provincia di Savona, alla presenza delle più importanti autorità locali.Da poco tempo Viviana ha ricevuto il titolo di Accademico dell’Accademia Internazionale “Il Convivio”.

©a cura di Sebastiano Lo Iacono


LA MUSICA DELL’ANIMA
La sera come una ballerina delicata avanzava accompagnata dal buio, avvolgendo tutto ciò che incontrava, mentre dietro di lei le luci dei negozi e dei lampioni tentavano invano di contrastarla.
Un operaio uscì dalla fabbrica euforico, aveva appena ricevuto una telefonata, sua moglie aveva partorito. Si precipitò correndo in ospedale, contagiando la sua euforia a tutte le persone che incontrò. Prese l’ascensore sperando che fosse una femmina, sì, una bella bambina che somigliasse alla moglie.
Arrivò nella stanza, rimase davanti alla porta senza avere il coraggio di avvicinarsi, sua moglie stringeva un bambino di una bellezza incredibile.
La moglie lo guardò stupita e gli disse di entrare e di prenderlo in braccio, ma lui non se la sentiva, quel bambino era così bello, così delicato, e lui così rozzo, vestito così miseramente, con le mani così ruvide da poter graffiare quella creatura sublime. Si avvicinò tremante e lo prese in braccio, era l’uomo più felice della Terra.
La moglie gli disse che lo voleva chiamare Giulio, come suo padre, ma lui replicò: <> la moglie scioccata disse: <> e lui insistendo:<>.
Litigarono sotto gli occhi del bambino che li guardava incuriosito, poi l’operaio pensò di fare scegliere al figlio il nome, prese una radiolina dalla tasca, quella che usava per passare il tempo quando prendeva il tram per recarsi in fabbrica, la accese, trasmetteva il concerto in la K622 per clarinetto di Mozart.
La mise vicino al figlio, che cominciò a ridere felice, i suoi occhietti brillavano di contentezza, il padre lo prese in braccio lanciando uno sguardo di sfida alla moglie, che sbuffando disse: <>.
Erano passati sei anni da allora.
Amadeus camminava per la strada, in una mano stringeva un astuccio con dentro un economico clarinetto, nell’altra stringeva la mano di suo padre. Aveva un vestito elegante, con una cravatta che gli stringeva un po’ il collo, era teso, ma bastava guardare gli occhi pieni d’ammirazione del padre per infondersi coraggio. Arrivarono all’entrata del conservatorio, era immenso.
Amadeus provò paura, la sua mente era piena di dubbi “e se non mi accetteranno”, “se penseranno che non sono all’altezza, che sono troppo piccolo o mediocre”, gli mancava il fiato, voleva tornare indietro, non voleva entrare.
Ma un tratto arrivò alle sue orecchie una musica soave, avvolgente, non sapeva con precisione che brano fosse, ma era senza dubbio un clarinetto a suonare.
Ammaliato, affascinato, sedotto da quella musica varcò il portone senza timore, la sua mente era libera, piena solo delle note che aveva udito poco prima, sentì un formicolio nelle dita, voleva solamente suonare.
Il conservatorio, che gli incuteva tanto timore all’esterno, ora gli sembrava la sua casa, il luogo migliore dove stare, tra quelle pareti si sentiva sicuro, realizzato.
Quando si trovò di fronte alla commissione non ebbe alcun timore, montò il suo strumento con estrema cura e suonò ad occhi chiusi. Conosceva il pezzo a memoria, le dita si muovevano da sole, autonome, la mente era libera da ogni pensiero, si sentiva lontano da tutto e da tutti, sospeso tra le note che lui stesso produceva. Finito il pezzo aprì gli occhi, ritornando con la mente nel luogo in cui si trovava, si girò verso il padre, nei suoi occhi si leggeva l’orgoglio, la commozione, l’ammirazione per quel figlio, così piccolo d’età, ma così grande, così geniale.
La commissione lo sommerse di lodi, stupita delle immense capacità di quel bambino.
Quel giorno cominciò la sua brillante carriera da clarinettista.
I giornali non facevano altro che parlare di lui, del bambino prodigio che portava il nome del celebre compositore.
Amadeus divenne una celebrità, ma a lui non importava, il suo unico scopo era suonare e migliorare. Non faceva altro che suonare, suonava finché le dita non s’indolenzivano, finché il labbro non si spaccava; per lui suonare era tutto, non esisteva nient'altro.
A poco a poco i giornalisti diventarono sempre più invadenti e gli impegni con le persone importanti troppo frequenti.
Il successo era una catena che lo opprimeva, che gli impediva di dare il massimo con il suo strumento, fonte di stress e di nervosismo che non riusciva a sfogare; inevitabilmente lo sfogò con i giornalisti di gossip cui non importava minimamente della sua arte, i quali risposero isolandolo, criticandolo, sostenendo che come musicista sarebbe durato ancora poco per poi scomparire e con altre supposizioni infondate.
Nel frattempo cresceva, così la curiosità e l’ammirazione che aveva suscitato il bambino prodigio andava scemando, fino a scomparire del tutto.
Amadeus non rimpianse mai gli inviti alle cene importanti, i fan, le interviste, lasciava tutte quelle esteriorità ai divi del cinema e della televisione. Però rimpianse i teatri in cui si esibiva quando era famoso, come dimenticare l’eccitazione, l’adrenalina che gli dava esibirsi davanti a milioni di persone, che non aspettavano altro che sentirlo suonare.
Ormai i teatri non lo accoglievano più, aveva 20 anni, non era più il bambino prodigio, ora era un anonimo musicista senza lavoro, come tanti, che per vivere doveva fare un altro impiego, che se voleva suonare lo poteva fare gratis in luoghi mediocri.
La sua condizione di vita lo disgustava, faceva il cameriere in un locale e dipendeva in tutto e per tutto dai genitori, tutto ciò che gli rimaneva era il suo clarinetto, il suo amico fedele, che non l’aveva mai deluso, e la sua arte che gli permetteva di evadere dalla triste realtà, che gli dava gioia e soddisfazione.
Nota dopo nota la sua mente si allontanava dalla realtà immergendosi nell’immensità della musica, liberandosi dalle angosce, dalle paure, rigenerandosi.
Passava le sue giornate così, tra il lavoro che detestava e la bellezza della sua musica.
Ma un giorno, dopo aver suonato poche ore, si sentì stanco, lo strumento gli sembrò molto pesante e sentì le gambe deboli. Gli sembrava di non trovarsi nel suo corpo, ma in quello di un altro, ebbe paura, posò lo strumento e senza dire niente ai genitori si recò in ospedale.
Durante il tragitto, la sua mente era occupata dalla paura e da un sospetto.
Dai controlli il sospetto si rivelò una certezza, era malato, soffriva di una malattia ai muscoli, che prima gli avrebbe impedito piccoli movimenti e poi a poco a poco gli avrebbe impedito ogni movimento. Lentamente la malattia avrebbe strappato la vita dal suo corpo avvicinandolo sempre di più alla morte.
Amadeus capì che l’unico modo per sfuggire alla malattia era tenersi stretto quel poco di vita che gli rimaneva, fare finta che la malattia non ci fosse.
Ogni giorno che passava, suonare diventava sempre più difficile e faticoso, finché un giorno divenne impossibile.
A poco a poco divenne difficile anche stare in piedi, poi alzarsi, ogni movimento era faticoso, si sentiva sempre più prigioniero di quel corpo, che ormai apparteneva alla malattia.
Il letto era il posto che odiava fin da piccolo, per lui dormire voleva dire sottrarre tempo alla musica, e adesso era condannato a starci fino alla morte.
Nei suoi soliloqui il tema centrale era la morte, che sentiva sempre più vicina, troppo vicina.
Il padre voleva scuoterlo, ma non sapeva come, passava gran parte della sua giornata a guardarlo, trattenendo le lacrime, ma senza riuscire a dire una parola, del resto neanche il figlio aveva voglia di parlare. Ogni giorno, dopo quell’intenso gioco di sguardi, che comunicava più di mille parole, il povero operaio usciva per piangere lontano dalla vista del figlio.
Un giorno mentre vagava senza meta incontrò il maestro di suo figlio, gli si avvicinò correndo e gli raccontò la grave condizione di suo figlio, il suo dolore, la sua solitudine, poi lo invitò a casa sua.
Amadeus alla vista del suo maestro si commosse dalla felicità, per una frazione di secondo pensò di alzarsi per abbracciarlo, ma, subito dopo ricordò la sua malattia, che non gli permetteva di alzarsi dal letto, già, da qualche tempo.
Il maestro era inorridito, il suo allievo migliore, il prodigio che l’aveva reso ricco e famoso era costretto a stare a letto, immobile, solo. Non riuscì a nascondere l’orrore e il dolore che gli procurava quella vista, rimase attonito a guardarlo.
Amadeus provò un dolore acuto, peggiore di quello che gli procurava la malattia, nessuno l’aveva mai guardato in quel modo, specialmente il suo maestro che lo ammirava infinitamente.
Si guardarono così per un po’, finché l’operaio interpretando i sentimenti del figlio chiese a quell’uomo di andarsene.
Da quel giorno Amadeus cominciò a nutrire odio verso il suo maestro, poi verso tutti gli uomini, poi verso i genitori, che lo amavano tanto, poi verso il suo corpo.
Voleva spaccare tutto, voleva sfogare quella rabbia incontrollata che invadeva la sua anima, ma non poteva, era intrappolato in quel corpo inerme, in quel letto, in quella vita che non valeva più niente.
Per la prima volta desiderò morire, voleva porre fine a quell’agonia, che senso aveva stare in uno stato di semivita?Sapeva che bastava che qualcuno gli staccasse tutti i fili, che lo tenevano crudelmente in vita, per avere il riposo eterno, per porre fine a quello strazio, per morire del tutto e non solo in parte.
Chiese al padre di staccarglieli, ma quest’ultimo non esaudì la sua richiesta, come risposta prese il suo astuccio, montò il clarinetto e glielo mise vicino, poi si allontanò dalla stanza.
Amadeus si mise a piangere, quanti ricordi conteneva quel clarinetto, quante emozioni, quanta passione, quanta musica!Il suo clarinetto scintillava alla luce del sole, quanto era bello, come aveva potuto dimenticarsi di lui?Come aveva potuto dimenticarsi della musica, delle emozioni che gli dava?Come aveva potuto dimenticarsi della sua vita?La malattia oltre al corpo gli aveva consumato l’anima, non poteva permetterlo, la sua anima sarebbe rimasta intatta, pura, sana.
La sua anima era come la musica, la prima era prigioniera del suo corpo malato, l’altra era prigioniera dei libri, ma entrambe sapevano di non appartenere a quelle cose, loro erano libere, immateriali, infinite.
Voleva chiamare il padre, ma si ricordò che la malattia glielo impediva, ma egli era davanti la porta, negli occhi di suo figlio leggeva che nella sua mente qualcosa era cambiato, così entrò.
Amadeus con lo sguardo fece capire al padre ciò che desiderava e il padre lo esaudì subito, prese tutte le sue registrazioni, le sue incisioni e gliele fece sentire.
La musica tornò a riempire quella casa piena di dolore.
Amadeus si sentiva felice, riviveva quelle musiche una per una, concerto su concerto, nota su nota.
Era libero, sospeso nell’immensità della musica, era vivo.
I pochi anni che gli rimasero li visse così, poi una mattina d’inverno la morte lo colse, liberando l’anima da quel corpo, ora anche lui era come la musica, invisibile agli occhi, ma presente nel cuore e nella mente di coloro che la amano.
Il suo genio non era morto, era vivo in tutti i concerti, in tutte le sonate, in tutte le sinfonie, in tutte le opere, che i grandi del passato avevano composto.



NINUZZA Era giunto il tramonto e la giovane Ninuzza interruppe il lavoro di ricamo per ammirarlo.
Adorava il tramonto, vedere quelle nuvolette bianche che si coloravano di rosa e poi a poco a poco di un rosso intenso, molto simile al colore delle ciliegie a maggio, quasi uguale al rossore di Santa quando la salutava il giovane figlio del barone sorridendo, spavaldo sopra il suo cavallo castano scuro.
Ma soprattutto le piaceva vedere il sole scomparire dietro il Castello e immaginava dove potesse andare, in fondo al mare azzurro.
Lei il mare non l’aveva mai visto, tranne quando insieme ad altre ragazze era andata di nascosto a sua madre al Castello, non appena lo vide rimase senza fiato, era contenta e allo stesso tempo timorosa, le sembrava senza fine. Quel giorno promise a se stessa che si sarebbe imbarcata prima o poi, per sapere cosa ci potesse essere oltre esso, era certa che aldilà del mare c’ erano persone felici, che vivevano spensierate e non prigioniere come lei in un piccolo paese di montagna, costrette a ricamare dalla gna’ Cuncetta per buscarsi un tozzo di pane!.
Ma la distrazione di Ninuzza non passò inosservata, infatti la gna’ Cuncetta la rimproverò, dicendole, come faceva spesso:<<>>, così la povera Ninuzza sospirando si rimise a lavorare, avrebbe volentieri risposto a quella vecchia arpia della gna’ Cuncetta, ma non avrebbe risolto nulla, era lì e doveva lavorare, ma si rallegrò, era quasi ora di tornare a casa. Così arrivò la tanto attesa ora del rientro e, Ninuzza dopo aver salutato le altre ragazze, si diresse a casa.
Arrivò, salutò la madre e le diede la modesta paga, poi si sedette per cenare. Cenarono lei e Vastiano, il suo fratellino di tre anni, la madre mangiava più tardi, quando il marito ritornava dalla campagna.Dopo cena augurò la buona notte alla madre e al padre, diede un bacio al fratellino, poi andò nella sua piccola e umida stanzetta. Si pettinò i capelli e si vide allo specchio. Era davvero bella!Aveva lunghi capelli castani leggermente ondulati, che da piccola legava con delle trecce, ma che ora ,essendo signorinella, li portava acconciati con un fiocco, leggermente ridicolo, ma che a lei piaceva, perché le sembrava di somigliare alle ragazze ricche; aveva un bel corpo leggiadro, ma era bassa di statura e ciò la portava a sentirsi inferiore alle ragazze più alte di lei, ma molto meno proporzionate e delicate.
Ma erano gli occhi a renderla davvero bella, i suoi occhi erano azzurri, chiari come il cielo, profondi come il mare, il suo sguardo sembrava che riuscisse a vedere dentro, era molto difficile mentirle e poi guardarla negli occhi.
Si coricò stanca come sempre e si addormentò immediatamente. La gna’ Cuncetta spremeva le giovani lavoratrici come limoni e in cambio non dava che una miseria, però meglio questo che niente, così pensando nessuno si lamentava e lavorava senza fiatare.
Intanto il padre durante la cena non aveva detto una parola alla moglie, così quest’ultima sparecchiando chiese:<<>>e il marito rispose:<>, però la moglie perplessa disse:<>, ma il marito non volle sentire ragioni, era lui il padre e lui aveva stabilito che sua figlia si doveva sposare, perciò si doveva acconsentire senza discutere.
La mattina dopo, Ninuzza si alzò all’alba, si lavò il bel viso, si vestì, scese le scale e andò in cucina per fare colazione, una colazione molto modesta, un pezzo di pane e un pezzetto di formaggio, finì di mangiare e cercò la madre per salutarla prima di andare a lavorare, ma non la trovò, allora per non arrivare in ritardo e beccarsi l’ennesimo rimprovero della gna’Cuncetta, si incamminò.
Mentre percorreva le vie del paese si chiese come mai la mamma non fosse a casa, sicuramente era uscita per fare qualcosa molto presto, ma non sapeva cosa fosse andata a fare, dopo aver pensato un po’ decise di non scervellarsi più, una volta tornata a casa le avrebbe chiesto dove fosse andata. Assorta in questi pensieri non si rese conto di avere fatto una strada che allungava il tragitto, così arrivò in ritardo, ma per sua fortuna Nella era arrivata dopo di lei, così fu quest’ultima a essere rimproverata sonoramente, per una volta. Però quella mattina nella stanza dove lavoravano le ragazze, sotto l’occhio vigile della gna’ Cuncetta, c’era molto brusio, le giovani parlavano animatamente fra di loro, molto più del solito e questo infastidiva terribilmente la gna’ Cuncetta, che adirata le paragonò a delle galline in un pollaio e le rimproverò più volte.
Ninuzza non capiva il perché di tanta agitazione, così curiosa si avvicinò a Teresa e le chiese spiegazioni, questa le rispose che sei ragazze si erano fidanzate e che presto si sarebbero sposate, allora la giovane contenta si avvicinò alle ragazze fidanzate per saperne di più, ma rimase sbalordita quando le dissero che i loro futuri mariti li avevano visti si e no qualche volta e che era stato il padre a scegliere il marito.
Pensò che era ingiusto, dovevano essere le ragazze a scegliere il marito, non i padri ed era certa che suo padre le avrebbe fatto scegliere il ragazzo che amava, quando sarebbe giunta l’età di matrimonio. Riflettendo però si rese conto che se alcune sue coetanee erano già fidanzate, allora anche lei era in età di marito!, ciò la spaventò, così pensò che erano le altre a volersi fidanzare presto, mentre lei voleva ancora correre per i campi spensierata la domenica, giocare con le altre ragazze, ci sarebbe stato tempo per sposarsi.
Tra l’altro lei da grande voleva andare lontano, viaggiare per vedere cosa c’è oltre il mare e magari, perché no?, sposarsi e vivere là, in quel luogo sconosciuto, dove la vita è più bella. Ogni volta che venivano i parenti nei giorni di festa passava ore e ore ad ascoltare i racconti che parlavano del Continente o dell’America e quando si cambiava discorso lei supplicava i grandi di raccontarle altre cose riguardanti il mare e i luoghi oltre esso. Però a tale richiesta questi si stupivano e le chiedevano il motivo, così lei rispondeva:<>, ogni volta che lei rispondeva così tutti si mettevano a ridere di cuore, Ninuzza non capiva il perché di quelle risate, ma non le interessava sapere il motivo, così finiva che anche lei rideva con loro.
La gna’ Cuncetta non riuscì a tollerare quel baccano, così, esasperata, mandò tutte le ragazze via e non diede loro la paga per punizione, dicendo loro che se si fossero comportate allo stesso modo il lunedì successivo le avrebbe punite molto più severamente. Le giovani erano da un lato contente di non lavorare, ma dall’altro profondamente dispiaciute, chissà cosa avrebbero detto i genitori una volta tornate a casa!, così addolorate salutarono gentilmente la gna’ Cuncetta e le promisero che si sarebbero comportate bene, poi si separarono e ognuna andò verso la propria casa.
Anche Ninuzza si recò a casa, la madre non appena la vide si rese conto che aveva ragione il marito, era cresciuta!, la tenera bimba che giocava felice e spensierata era diventata una bella ragazza, pur mantenendo la spontaneità di una bambina, e pensò a tutto il tempo che era passato, da quando la prendeva in braccio e lei rideva gioiosa, le sembrava ieri!,mentre invece erano passati molti anni, la donna si sentì invecchiare di colpo, come se gli anni fossero passati in pochissimi secondi.
Ninuzza si avvicinò alla madre, la salutò e le chiese:<>, allora la madre accarezzandole la guancia e guardandola negli occhi le disse:<>, Ninuzza staccandosi dalla madre si mise a ridere e disse:<>, la madre guardandola prima teneramente, poi seriamente le disse:<>.
A Ninuzza le sembrò che il mondo le cadesse addosso!Il padre, che lei tanto amava e che giudicava diverso dai genitori delle altre ragazze, aveva deciso per lei, senza curarsi neppure di dirglielo!.Se ne andò senza parlare nella sua stanzetta, pianse lacrime amare, ma poi si rese conto di essere stata una stupida, era inutile piangere, invece doveva lottare, non avrebbe lasciato che il padre decidesse per lei.
La sera il padre tornò dalla campagna come al solito, però ad aspettarlo non c’era solo la moglie, ma anche Ninuzza, egli rimproverò immediatamente la figlia, era tardi e lei doveva essere a letto già da almeno un’ora!.Ninuzza però carica di rabbia rispose al padre, dicendogli che era inutile che lui si affannasse tanto a cercarle un marito, perché lei avrebbe sposato solo il ragazzo che amava, il padre senza neppure rispondere le diede un schiaffo in piena faccia, poi le urlò di andare a dormire.
Ninuzza senza fiatare andò a dormire, piangendo. Si rese conto che con il padre non c’ era nulla da fare, doveva solo sperare di innamorarsi del ragazzo che il padre avrebbe scelto per lei, perché se questo non fosse avvenuto, sarebbe stata costretta a vivere una vita d’inferno.
L’indomani, il padre si alzò, si fece un bagno, si vestì e andò verso il Corso, fermandosi a un’osteria, per cercare il futuro genero. Nessun ragazzo era di suo gradimento, stava per tornarsene a casa, quando lo salutò Enzo, il figlio di un allevatore benestante. Il padre squadrò Enzo per bene e pensò che questi dovesse essere il marito adatto per la figlia: era educato, più grande di lei solo di dieci anni, ma soprattutto era ricco!.
Ninuzza non aveva dormito serenamente, aveva fatto molti incubi e quella mattina andò a messa, come ogni domenica, ma non seguì la predica del parroco, bensì pregò affinché il padre cambiasse idea.
Mentre ritornava a casa vide da lontano un ragazzo alto vicino la sua casa, poi, non appena si avvicinò, lo guardò meglio e si accorse che quello non era un ragazzo, era un uomo!E il padre era con lui, stavano discutendo, allora la giovane capì che le sue preghiere non erano state ascoltate.
Non appena il padre la vide le si avvicinò e le presentò Enzo, che altro non era che il suo futuro marito e disse che quella sera sarebbero venuti i genitori di lui per concordare la data di nozze e altre cose che lei non doveva sapere. La ragazza non disse una parola, aspettò che il padre le dicesse di entrare dentro per parlare con Enzo, poi corse nella sua stanzetta a piangere, la madre se ne accorse, si avvicinò e le disse.<>, la figlia singhiozzando le rispose:<>.La madre se ne andò in lacrime, ma non poteva fare nulla per la figlia, lei doveva rassegnarsi.
La sera vennero i genitori di Enzo e insieme al padre di Ninuzza stabilirono la data del matrimonio, fu fissata per il mese successivo.
Ninuzza incominciò a rassegnarsi, non piangeva più, però perse la sua spontaneità e il suo sorriso gioioso, andava a lavorare silenziosa, tutti notarono la differenza, la gna’ Cuncetta rimase piacevolmente sorpresa, Ninuzza era diventata la sua migliore lavoratrice, arrivava in anticipo, lavorava sodo e non diceva una parola.
Enzo veniva ogni tanto a trovarla, ma lei si rifiutava ogni volta di vederlo con una scusa, non provava odio per lui, ma neppure amore.
Il padre la rimproverò più volte, finché la costrinse, ogni volta che il giovane veniva, ad essere cordiale e affettuosa.
Ninuzza obbedì e a mano a mano che lo conobbe, cominciò a nutrire affetto per lui, si rese conto che non era così tremendo come pensava, forse con il tempo poteva addirittura innamorarsi di lui!.
Così arrivò il giorno delle nozze, Ninuzza era molto bella, la madre le fece un vestito degno delle signore ricche e le sistemò i capelli, mettendole anche dei fiori freschi, tutti rimasero senza fiato quando andò all’altare.
Dopo il matrimonio si fece un gran pranzo, che lei non si sarebbe mai potuta permettere se l’avesse pagato suo padre, lei non aveva mai visto tutto quel cibo in una volta, abituata com’era ai modesti pranzi consumati a casa sua. Finita la cerimonia andò insieme a Enzo nella loro casa, era felice, forse il padre aveva fatto bene.
Ninuzza andava molto d’accordo con il marito, si poteva permettere vestiti eleganti e addirittura gioielli, lei tutto ciò l’aveva visto solo durante le processioni, quando guardava con stupore e con un po’ d’invidia le signore ricche, che si pavoneggiavano dietro il santo insieme ai loro mariti, vestiti altrettanto lussuosamente.
Però dopo i primi tempi Enzo cambiò, tornava molto tardi la sera, ma non era questo un problema per lei, il problema era che tornava sempre ubriaco.
Ninuzza dopo i primi mesi di felicità e lusso, cominciò a vivere nel terrore, perché il marito tornava ubriaco e diventava ogni volta più violento, così penso di parlarne con la madre. La madre non appena le raccontò il suo problema, non sembrò affatto sorpresa, sospirò mestamente e guardò la figlia a lungo, poi le disse:<>, Ninuzza si stupì e disse:<>.
La madre allora decise che sua figlia doveva sapere la verità, così le disse:<>, detto questo l’accarezzò.
Ninuzza non disse una parola, ma si rese conto di quanto era stata sciocca a credere che i lividi di sua madre erano causati dalla sua distrazione mentre si occupava delle faccende domestiche, era stato il padre a picchiare la madre e lei doveva andare a letto presto per non assistere a quelle scene. Fu uno shock per la povera Ninuzza!.Salutò la madre in fretta e corse verso casa, non sapeva che fare, doveva abituarsi, ma non sapeva come. Allora per non pensare a queste cose orribili andò a lavare i panni con le altre donne del quartiere.
Una volta arrivata salutò le altre sorridendo, mascherando la sua tristezza e la sua angoscia, poi si sistemò in un angolo per lavare e contemporaneamente parlare. Si parlò del più e del meno, si rise e tra un discorso e l’altro ognuna parlò del proprio marito, Ninuzza non voleva raccontare ad altri la sua paura, ma non riuscì a resistere e rivelò alle donne la sua paura, il suo problema.
Le donne a sentire quel discorso si zittirono e presero in fretta i panni per andare via, scapparono tutte, senza salutare, rimase solo una coetanea di Ninuzza anche lei sposata, ma da più tempo, che le si avvicinò e le disse:<>.Ninuzza rimase sconvolta da quelle parole, “succede in tutte le famiglie”, queste parole le rimbombavano all’infinito in testa, rimase a lungo in silenzio, poi disse:<>, Nella la guardò, poi si mise a lavare e senza guardarla le disse, come se dicesse una cosa scontata :<>, dopo aver sentito questo, Ninuzza , salutò Nella e andò a casa.
Durante il tragitto pensò a lungo, sia sua madre sia Nella le avevano detto che bisognava abituarsi, ma le sembrava assurdo, come si fa ad abituarsi alla violenza, è impossibile!, però ormai era sposata e non poteva fare altro, avrebbe provato, ma rabbrividiva al solo pensiero del ritorno del marito.
Alla sera, Enzo arrivò tardi, ubriaco come al solito, forse più del solito!, era molto nervoso, aveva litigato con qualcuno all’osteria e ora doveva sfogarsi, ruppe alcuni bicchieri, ma non si placò, se la prese con le sedie, ma non gli bastò e non appena vide la moglie allontanarsi in lacrime, scattò nella sua mente una rabbia incontrollata, si avventò su di lei.
Ninuzza cercò di divincolarsi, ma non vi riuscì, allora le ritornarono in mente le parole della madre e poi quelle di Nella e cominciò a subire passivamente, sperando ardentemente che si calmasse, pregando.
Enzo si calmò dopo molto tempo e si gettò sul letto a peso morto, mentre lei si mise a piangere, era tutta lividi, in alcuni punti sanguinava, non riuscì a dormire, si alzò più volte, poi sfinita si addormentò nella stanza degli ospiti, perché temeva di dormire con il marito, ma non dormì serena, fece solo incubi, dove il protagonista era il marito picchiatore e lei la povera vittima e questi sogni le sembravano così reali, che si mise a urlare nel sonno.
Il mattino dopo lei si alzò, si vide allo specchio, era diventata brutta, il suo corpo era pieno di lividi, aveva profonde occhiaie, che le rendevano brutti i bellissimi occhi e il suo sguardo spavaldo, sicuro, era diventato simile allo sguardo di una cerbiatta impaurita dai cacciatori.
Enzo invece non ricordava assolutamente nulla, era tornato normale e quando vide la moglie così terrorizzata nel vederlo si meravigliò, ma non disse nulla.
In quella colazione il silenzio fu tale da poterlo tagliare a fette, era la quiete dopo la tempesta, simile al silenzio che c’è dopo un incendio nei boschi, tutto sembra calmo, sereno, solo apparenza, i segni dell’incendio non sono ancora spariti.
Poi Enzo andò a lavorare e Ninuzza rimase sola, non riuscì a fare nessun lavoro domestico, il ricordo di quella notte d’inferno era presente, le sembrava di riviverla attimo per attimo, le ferite le facevano ancora male, troppo male.
Decise di andare al Castello, a vedere il mare, vi si recò senza farsi vedere da nessuno, rimase ore e ore a guardare quel mare azzurro, le fece bene, decise che aveva la forza di resistere, che ce l’avrebbe fatta, ma che non avrebbe più subito passivamente, si sarebbe difesa.
Tornò a casa sorridendo, salutando tutte le persone che incontrava, i suoi occhi avevano ritrovato la loro bellezza.
La sera Enzo ritornò ubriaco e picchiò nuovamente la moglie, ma Ninuzza era preparata, a ogni colpo che subiva ne sferrava uno uguale, ma non aveva la stessa forza del marito e alla fine finì come la sera prima, a dormire nel letto degli ospiti in preda agli incubi.
Passarono i giorni, le settimane, ma la situazione non cambiava, neanche il mare le faceva ritornare più il buon umore, ma resisteva e soffriva.
Un giorno, mentre lavava i panni, vide una ragazza biondissima che si vantava delle sue conquiste maschili, la sua presenza provocava lo sdegno e il disprezzo di tutte le donne presenti, tra le tante conquiste, citò anche Enzo e disse che era l’uomo che le faceva più regali.
Sentendo queste parole Ninuzza ebbe un sussulto al cuore e prima di mettersi a piangere davanti alle altre donne, prese i suoi panni e fuggì via, tornò a casa, posò i panni e corse verso il Castello.Si rese conto che era quella la sua casa, avrebbe voluto passare la sua vita lassù, senza nessuno, sola, però il tempo passava e si rese conto che doveva andare da suo marito, nella casa di lui, perché per lei quella non era la sua casa, era la sua prigione.
Arrivò a casa appena prima che Enzo tornasse, subì le solite violenze e, dopo che egli si addormentò decise che non poteva più vivere così, prese le sue cose ed evase dalla prigione.
Non sapeva dove andare, pensò che sua madre l’avrebbe accolta e anche suo padre sarebbe stato felice di ospitarla dopo aver saputo quali violenze aveva subito.
Andò nella sua vecchia casa, la madre l’accolse amorevolmente,si fece raccontare tutto dalla figlia, parlarono fino all’alba, senza neanche accorgersene.
Il padre si svegliò e non appena vide la figlia in casa si meravigliò, Ninuzza gli raccontò ogni cosa, ma il padre invece di mettersi dalla parte della figlia si mise dalla parte di Enzo e la rimproverò sonoramente, la moglie cercò di difenderla e ciò provocò l’ira del marito, che picchiò moglie e figlia, poi cacciò quest’ultima e le consigliò di tornare a casa, perché lui non l’avrebbe ospitata di certo.
Ninuzza con le lacrime agli occhi andò allora da Nella, ma neanche lei la volle ospitare e la cacciò in malo modo, consigliandole di andare a casa.
Così la giovane andò nella sua casa, al Castello, piangendo, si rendeva conto che ormai il danno era fatto, non si poteva tornare indietro, di certo il marito si era già accorto dell’assenza della moglie e ritornare voleva dire essere picchiata di nuovo, ne aveva abbastanza, non voleva più essere sfiorata da nessuno.
Allora le venne un’idea, perché non buttarsi da lì?, nessuno le avrebbe più fatto del male, che poi non valeva la pena vivere così, meglio morire e andare incontro a Dio.
Si stava per lanciare giù, quando si fermò a vedere il mare e ricordò quando era piccola, i suoi propositi di vedere cosa ci fosse oltre, di conoscere mondi nuovi, felici.
Cambiò idea, non doveva morire, non doveva dare soddisfazione a suo marito, a suo padre e a tutti gli altri, doveva invece partire, imbarcarsi, conoscere ciò che si trovava oltre il mare e lì rifarsi una vita, lontana da chi la odiava.
Si mise in cammino verso la stazione, impiegò molto tempo, sudò sotto il sole cocente, però alla fine vi arrivò, pagò il biglietto con un anello, che aveva con sé e giunse al porto dove si imbarcavano tutti gli emigranti diretti verso l’America.
Aspettò alcune ore, poi arrivò la nave, non aveva con sé documenti, perciò non poteva imbarcarsi, supplicò un marinaio di farla imbarcare, ma fu inutile.
Allora diede al marinaio la sua collana, così poté finalmente imbarcarsi, tanto per lei quella collana non valeva niente, le faceva venire in mente ricordi che voleva dimenticare.
Arrivò la notte, ma lei non voleva dormire, rimase sul ponte a guardare il mare e le stelle, era felice, felice come non era mai stata, non aveva rimpianti, se non quello di non averci pensato prima.Era certa che la sua vita sarebbe cambiata, che avrebbe trovato un uomo che l’avrebbe amata, si sarebbe sicuramente rifatta una vita.
La nave navigava veloce sul mare scuro, portando con sé le speranze degli emigranti, i loro sogni, le loro ambizioni, le loro paure, verso il Nuovo Mondo.

LA PIANISTA E IL POETA

Fine agosto 1938. Eva guardava fisso oltre i vetri della sua finestra. Adolf si stava allontanando sempre di più da lei. Si sentiva soffocare, aprì la finestra, un vento tiepido le scompigliò i riccioli scuri. Voleva piangere, voleva gridare il suo dolore a tutto il mondo, a quel mondo che di lì a poco avrebbe scatenato la più atroce delle guerre, ma rimase immobile. Rimase in quel modo un istante infinito, aveva paura, Adolf era troppo debole, la guerra non era fatta per quelli come lui. Spense la debole luce che illuminava la stanza per soffrire al buio, ma subito dopo la riaccese, si avvicinò al suo candido pianoforte, si sedette e, senza prendere nessuno spartito, suonò. Le sue dita scivolavano sulla tastiera, prima, lentamente, poi, sempre più frenetiche. Tutt’intorno si diffondeva il suo grido, il suo dolore. La sua anima, i suoi sentimenti scendevano velocemente dal cuore alle dita, dalle dita alla tastiera e poi alle corde dello strumento, per poi disperdersi nell’aria sottoforma di note intense, cupe, malinconiche, ma sublimi. Quelle note erano il suono delle lacrime che non riusciva a versare. A mano a mano che suonava perdeva la concezione della realtà e del tempo, esistevano solo lei e il suo pianoforte, circondati da note, in un mondo parallelo, governato dalla più grande delle regine, la musica. A un certo punto si addormentò abbracciata al suo strumento. Il padre, che non aveva osato interrompere il suo sfogo, si avvicinò lentamente, la prese tra le sue braccia e la adagiò sul divano. La guardò a lungo, temeva per la sua sorte, era così giovane, come poteva difenderla dall’odio dei nazisti?- Si sentiva fragile e impotente- Che cosa avrebbe architettato quel folle? Dopo l’isolamento, l’umiliazione, la miseria... A cosa sarebbe arrivato? Si alzò, andò verso lo specchio, tutto ciò che vedeva era un uomo basso, scuro di carnagione, di capelli e di occhi, che portava la stella giudaica al petto, niente tradiva le sue origini...Era un ebreo... Allora perché non aveva seguito i suoi parenti e i suoi amici in fuga verso la Svizzera o l’America?...Perché amava la sua Germania, perché si sentiva un tedesco. Sapeva che tutto ciò era folle, che gli sarebbe stato fatale, ma nello specchio i suoi occhi neri erano accesi di una sicurezza irremovibile. Adolf pianse molto quella notte, non riuscì a dormire, gli dava la nausea il pensiero che tra poco sarebbe dovuto partire, che avrebbe dovuto indossare un’uniforme che non lo rappresentava, per combattere in difesa di una nazione che non amava, di cui detestava gli ideali razzisti e l’eccessiva disciplina, avrebbe voluto fuggire...Lontano...Con la sua Eva. Ma non poteva, suo padre l’aveva sempre disprezzato, e ora, da quando era stato informato della sua scelta di arruolarsi volontario, lo guardava con occhi pieni di orgoglio. Adolf avrebbe dato la vita per questo, sapeva di non essere mai stato all’altezza delle sue aspettative, per essere accettato aveva rinnegato i suoi ideali, era diventato un nazista, e ora, si era arruolato. Già a casa lo chiamavano “l’aviatore”, tutti si erano dimenticati della sua disonorevole relazione con un’ebrea, tutti avevano dimenticato la sua fragilità, il suo disprezzo verso il Fǘhrer che portava il suo stesso nome. Nei giorni che seguirono, evitò la tentazione di andare a trovare Eva, passando gran parte del suo tempo in casa, inquieto, amandosi e odiandosi nello stesso tempo. Divenne un discreto aviatore, amava volare, attraversare le nuvole leggere, come sarebbe stato bello avere al suo fianco Eva per volare insieme verso il tramonto, guardare il suo sorriso brillare e sentire il suo cuore palpitare alla vista delle meraviglie della natura. I nemici dall’alto non erano che puntini, bastava solo sganciare le bombe per cancellarli, senza pensare, mordendosi appena le labbra, era facile, terribilmente facile. I primi anni la guerra fu come aveva previsto il Fǘhrer, poi tutto cambiò, e le sconfitte furono continue e incessanti su tutti i fronti. “La colpa è degli ebrei” –gridavano tutti- “Bisogna sterminarli”. Ogni volta che Adolf sentiva quelle frasi trasaliva, Eva dov’era?Era salva o era in un campo di concentramento? Per la Luftwaffe ogni giorno era più critico, l’aviazione nemica era inarrestabile, aiutata anche dal radar, uno strumento sconosciuto per i tedeschi. Adolf fu localizzato da alcuni piloti Alleati che gli distrussero l’aereo facendolo precipitare. Tutto si fece buio. Adolf riprese i sensi dopo molto tempo, sanguinava, i nemici lo credevano morto, ma, non appena un francese lo vide aprire gli occhi e tossire, gli puntò il fucile. Adolf capì che era giunta la fine, era ferito, disarmato... Il francese lo guardò negli occhi, quanto odio provava! Aveva visto tutti i suoi amici morire, il suo paese distrutto per mano degli aerei tedeschi. Adolf in quel momento non provava odio verso quel soldato, capiva i suoi sentimenti, le sue ragioni, quante volte, in quegli anni, aveva ucciso e distrutto senza pensare che anche loro erano esseri umani, che in quelle case abitavano uomini come lui. Adolf chiuse gli occhi, il francese gli sparò mirando al cuore, con una precisione infallibile. Adolf rimase a terra, provava dolore al petto, nella sua mente riaffioravano vari ricordi. Rivide Eva da piccola seduta vicino al suo pianoforte, lo sguardo severo di suo padre, la bacchetta del suo maestro, Eva sorridente, forte, sicura affacciata alla terrazza, lui che la stringeva timido e insicuro, Eva che lo guardava seria, lui che si allontanava, che piangeva, che soffriva per amore di suo padre. A un certo punto si chiese se era morto, aveva sentito il proiettile bucare l’uniforme, aveva sentito un forte dolore al petto, aveva ripercorso tutta la sua vita con ricordi quasi reali, aveva quasi sentito le melodie del pianoforte di Eva, che arrivavano dritto al cuore, che rimanevano prigioniere nei suoi pensieri, che non poteva fare a meno di fischiettare. Si mise a fischiettarle, erano melodie di compositori di epoche diverse, unite per formare un unico inno alla vita, in quello scenario di morte, di desolazione, di odio. Si sentiva vivo, aprì gli occhi, si alzò, si toccò il petto, l’uniforme era bucata, ma non c’era nessuna ferita, un lampo gli illuminò la mente, prese il grosso ciondolo d’oro che gli aveva regalato Eva, era rovinato, al centro al posto delle sue iniziali c’era incastonato il proiettile. Rimase alcuni secondi a guardarlo, poi lo alzò al cielo gridando “Sono vivo, Eva, sono vivo!Vivo.” L’ufficiale delle SS trascinò Eva per i capelli, mentre i suoi soldati torturavano il padre, la portò nel salone, voleva divertirsi un po’. “E’ un peccato che sei ebrea... Sei così carina” glielo ripeté più volte, ridendo sprezzante e senza lasciarle i capelli, poi le disse di suonargli qualcosa, ma lei si rifiutò, allora cominciò a strapparle i riccioli scuri, mentre Eva cercava in ogni modo di divincolarsi. Quella giovane ebrea gli piaceva molto. La lasciò andare, poi le puntò la pistola alla testa e le ordinò di spogliarsi e di suonargli qualcosa, Eva gli sputò sul viso e chiuse gli occhi, l’ufficiale cominciò a strapparle il vestito, ma in quel momento entrò il sottufficiale che rimase immobile, inorridito, era indegno di un ufficiale violentare una sporca ebrea. L’ufficiale lasciò subito Eva, si ricompose e ordinò qualcosa all’orecchio del suo inferiore, come risposta quello cercò di scusarsi di un incidente che si era appena verificato, l’ebreo si era suicidato con la pistola di uno dei soldati. Eva rimase pietrificata, immobile, due soldati la trascinarono via dalla sua casa, senza che potesse neanche vedere il corpo esanime del padre. Adolf, ferito, vagava in mezzo ai corpi massacrati dei suoi compagni, era l’unico sopravvissuto, aspettò per due giorni l’arrivo di qualche aereo dell’esercito, non venne nessuno, era abbandonato a se stesso, le sue ferite fasciate malamente con i brandelli dell’uniforme non cessavano di sanguinare. Cominciò a camminare senza sapere dove andare, aveva fame e sete, le ferite di tanto in tanto gli dolevano, dopo molti giorni di cammino incontrò altri sbandati come lui, alcuni erano italiani, non si erano mai visti prima, eppure sembrava si conoscessero da sempre; gli uomini sono esseri strani, capaci di compiere le più grandi atrocità verso i propri simili, ma anche capaci di amarli con un trasporto incredibile. Più andavano avanti, più diventavano numerosi, incontrarono anche francesi e russi, non riuscivano a odiarsi, di fronte alle mutilazioni, alle cicatrici e al freddo erano tutti uguali. Adolf rivide il soldato francese che gli aveva sparato, era disteso al suolo, aveva alcune ferite infette, stava lentamente morendo. Lo guardò pieno di compassione, poi si avvicinò, il soldato temette il peggio ma Adolf lo rassicurò dicendogli che era dispiaciuto della sua situazione, imprecando contro la guerra e contro Hitler. Il francese non riusciva a parlare, ma gli avvicinò la mano debole, Adolf gliela strinse guardandolo negli occhi. Non dimenticò mai gli occhi di quel soldato, la sua espressione serena, il suo ultimo respiro, che sembrava quasi fosse di sollievo. Adolf pianse molto per quella morte, e quando gli chiesero se fosse un suo amico, lui rispose che era suo fratello. Quel gruppo di sbandati vagò ancora per qualche giorno, si erano dimenticati di loro. A poco a poco il numero diminuiva, rimase solo Adolf, disperato, affamato, ferito, che arrivò nella sua città. Tutto era distrutto, rimanevano solo poche case, la sua era quasi intatta, si avvicinò, ma non appena cercò di bussare, gli mancarono le forze e svenne. La madre aprì la porta, lo vide e lo portò dentro. Rimase per molti giorni a letto senza potersi muovere, mentre la madre gli cambiava le fasciature alle ferite e cercava di fargli inghiottire un po’ di minestra. Dopo una settimana cominciò a riprendersi, anche se non poteva alzarsi, la madre gli raccontò tutto ciò che era successo in quegli anni di guerra. Suo padre era morto un anno fa, colpito da una bomba, gli attacchi aerei erano stati molto frequenti, solo da qualche settimana si erano diradati, probabilmente perché ormai della città non era rimasto quasi nulla. I viveri scarseggiavano, era riuscita a non morire di fame solo coltivando il giardino, un tempo pieno di fiori profumati, aveva dovuto vendere quasi tutto per comprare i semi da coltivare, anche la radio, così poteva sentire le notizie dal fronte solo grazie alla generosità del parroco, che possedeva l’unica radio nel raggio di molti chilometri. Poi fu il turno del figlio, che le raccontò la sua orribile esperienza, e che titubante le chiese se sapeva qualcosa di Eva. La madre non si stupì di quella domanda, sapeva che, anche se l’aveva lasciata, era ancora innamorato di lei, gli disse che non sapeva che fine avesse fatto, ma che non si trovava più lì, probabilmente si trovava ad Auschwitz o a Dachau o a Buchenwald. Adolf impallidì, tacque e, nei giorni che seguirono, si rifiutò di mangiare e di bere, non voleva più vivere, avrebbe preferito che quel soldato francese l’avesse ucciso. La madre cercava di scuoterlo in tutti i modi, di rincuorarlo, di dargli speranza, alla radio non facevano che dire che gli Alleati vincevano, forse sarebbero riusciti a salvarla; ma era tutto inutile, Adolf non reagiva, aveva perso la voglia di vivere. Però la madre si lasciò sfuggire che a casa di Eva era rimasto intatto il suo pianoforte, Adolf si girò di scatto e volle alzarsi, la madre invano lo trattenne dicendogli che le sue ferite alle gambe erano troppo gravi. Adolf arrivò zoppicando a casa della sua amata, non era rimasto quasi nulla della grande casa a più piani, c’era solo il pianoforte in mezzo alle macerie, intatto. Adolf si avvicinò, gli occhi si riempirono di lacrime, i ricordi si susseguirono uno dopo l’altro. Quei ricordi dal gusto dolceamaro lo spinsero ad avvicinarsi ancora di più a quello strumento, a sfiorarlo delicatamente. Avrebbe voluto suonare in memoria di Eva, ma non sapeva suonare, gli venne in mente un ricordo o meglio una frase “è un peccato che tu non voglia imparare... Prima o poi te ne pentirai e sarà troppo tardi”. Aveva ragione Eva, come sempre... In quel momento avrebbe potuto svuotare la sua anima in quello strumento, avrebbe potuto ritrovare la serenità, la voglia di vivere, ma non poteva. Si stava allontanando sconsolato ma urtò qualcosa di tagliente e cadde, una delle ferite cominciò a sanguinare, ricordò il dolore procurato dalla bacchetta del suo maestro, era proprio incapace in matematica, non c’era verso né con le buone né con le cattive di capirla, però era molto bravo in lettere, eppure non aveva scritto neanche una riga a Eva per ricordarle che l’amava, per rincuorarla, per consigliarle di fuggire. Avrebbe voluto scrivere ora quanto amore provava per lei, ma come? Non aveva né carta né penna, c’erano solo il pianoforte color latte e il sangue della sua ferita. Si alzò e scrisse con il suo sangue sul pianoforte il suo amore. Scrisse finché la ferita non si rimarginò del tutto. Ne venne fuori una poesia piena di sentimento, la lesse più volte sorpreso delle sue capacità, era perfetta. Si era fatto tardi, doveva tornare a casa, si allontanò girandosi di tanto in tanto per ammirare quel pianoforte intriso del suo sangue, del suo amore. Quando arrivò a casa, la madre non c’era, aspettò qualche ora e la vide tornare festante, Adolf Hitler si era suicidato insieme alla sua amante Eva Braun, alla radio non facevano che ripeterlo, gli Alleati nel frattempo stavano raggiungendo i campi di concentramento, per liberare i sopravvissuti. Nel cuore di Adolf si riaccese la speranza e, per la gioia, si mise a scrivere poesie ovunque: sui muri della casa, sui tovaglioli... Mentre la madre lo guardava stupita, cercando di nascondere le poche stoffe che le rimanevano dalla penna e dall’inchiostro del figlio. Adolf andava spesso a guardare il pianoforte di Eva, anche se i ricordi che suscitava erano dolorosi, come spilli. Un giorno in una di queste visite gli sembrò di vedere qualcuno, si avvicinò meglio e vide una ragazza rasata, aveva paura ad avvicinarsi, non voleva illudersi che fosse Eva e poi scoprire che in realtà non lo era. La ragazza si avvicinò al pianoforte e si mise a suonare, piangendo di felicità, tutt’intorno si diffuse una melodia allegra e vivace. Era Eva, sì, la sua Eva, Adolf voleva correre ad abbracciarla, ma qualcosa dentro di lui lo trattenne. Aspettò che Eva finisse il brano, che diffondesse la sua felicità sottoforma di musica, poi le corse incontro felice. Si dimostrarono tutto l’amore che provavano, parlarono per ore e ore senza rendersene conto, lontani da tutto, persi nel loro amore che faceva dimenticare loro tutto il dolore subito, tutte le incertezze sul loro futuro e su quello della Germania, decisi ad affrontare qualunque cosa, ma ad affrontarla insieme.
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Salvatore D’Aprano
nasce a Castelforte, in provincia di Latina il 28 / 11 / 1940 e dal 1960 vive in Canada. Scrive dal 1980 ed ha pubblicato in Italia due raccolte di poesie; la prima dal titolo
“ALLA MIA PATRIA” Edizione Caramanica nel 1987, la seconda
“LE RADICI DELL’ANIMA” Edizione Libroitaliano, nel 2002.
Le sue liriche sono molto apprezzate in Australia, Germania, Canada, Stati Uniti d’America e Italia.
Alcune delle sue liriche sono presenti in 18 Antologie.
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Appassionatamente

Seduti sulla sabbia
nel punto più appartato
di questo seno di mare,
uniti da un sentimento
tenero e profondo
ci apprestiamo a contemplare
il magico spettacolo
di un incomparabile tramonto.
Quando il portentoso evento
volge alla fine, l’aria è pregna
di un indescrivibile pathos
e s’alza un lieve alito di vento,
ti guardo e resto incantato
dalla tua bellezza
e nello stringerti a me sento
il tuo corpo vibrare di passione,
pronto alla tenerezza.
Ci scambiamo ardenti baci
mentre nel firmamento
appaiono le prime stelle
e rimango inebriato
dal profumo della tua calda
e vellutata pelle.
Avvinti nell’oscurità,
lontani dagli sguardi
indiscreti della gente,
con la musica del mare
che fa da sottofondo
ci amiamo appassionatamente
dimentichi del mondo


Oltre il cielo e il mare

Imbruna, si fa sera.
Il sole, stanco di vagare
è andato già a dormire
dietro quel monte
in un punto lontano.
Dolce è l’aria di primavera
e noi restiamo ad ascoltare
seduti sul pontile
il fievole sciabordio delle onde
tenendoci per mano.
La notte giunge magica e silente
e come per incanto
regala al cielo un manto
tempestato di stelle lucenti.
Sembrano luminarie accese
che illuminano le strade
nelle sagre di paese
ai festeggiamenti del Patrono.
Anche un’immensa luna appare
e col suo chiarore
dona un luccichio al mare.
E in questa fiabesca atmosfera
ci baciamo con ardore
mentre spira un alito di brezza.
Seguendo l’impulso del cuore,
sempre propenso alla tenerezza,
incominciamo a volare
con le ali dell’amore
oltre il cielo, oltre il mare.


Straniero

Erro,
eterno straniero
tra l’oceanica calca
e malgrado l’incessante
brulichio umano
dell’ora di punta
ho la sensazione di trovarmi
in una deserta necropoli
dove il dolore cavalca
uno stallone nero.
È impigliata
nella ragnatela del fato
la mia vita d’esule.
Cerco affannosamente
una mano amica
in questa terra non mia,
ma il mio accorato grido
si perde nel labirinto
del disamore.
Sarò sempre straniero.
E continuo ad errare
in questo doloroso angiporto
tra sguardi biechi,
incatenato.



Poesia per la pace

Sono un uomo
di elevata sensibilità
nel cui petto batte
un grande cuore
che mi aiuta a scrivere
la quotidianità,
la bellezza, l’amore
e i tanti mali che affliggono
la nostra tormentata Umanità.
E mi sento in pena nel vedere
tanta gente innocente
che muore giornalmente
per un lembo di arida terra.
Basta con gli odi di razza,
con la gratuita violenza
e col sordo rancore,
su questa nostra terra
c’è un immenso bisogno
di fratellanza e amore.
Possa la poesia apportare
la pace nel mondo, il rispetto,
la fraterna convivenza
ed un raggio di sole
nelle straziate lande
ove palpabile è il dolore,
e col suo messaggio
nobile e profondo
mutare in beltà
le brutture del mondo.


Le radici dell’anima

Nella notte incantata,
nell’ora in cui
i più dei mortali
lasciano cadere
ai piedi del letto
gli aguzzi rostri e Morfeo
imprime sui loro volti
un fanciullesco candore,
quando s’ode il concerto
dei battiti del cuore
è meraviglioso
contemplare il cielo.
Solamente
in quell’onirica ora
d’illimitata quiete
si possono percepire
le lievi vibrazioni
delle radici dell’anima.


Melanconia d’Autunno

Mesto spettacolo
che rattrista il cuore
assistere all’agonia
della foglia che muore.
Che scempio
vedere nei viali
il tappeto di dorate
e rosseggianti foglie
e il velo di tristezza
che avviluppa le desolate
campagne senza verde.
Alberi spogli puntano
verso l’eterno cielo,
come le croci del cimitero.
Autunno di mestizia!
Autunno di dolore!
Periodo melanconico
che precede il solstizio
del rigoroso inverno,
stagione di rimembranze
e di dolorosi rapporti
che, per riscattarsi,
ci regala una giornata
- da trascorrere -
coi nostri cari Morti


Ti penso ancora

E penso ancora a te
dolce amore di gioventù
anche se è da una vita
che ti son lontano;
non t’ho rivista più
ma non ho mai scordato
il tuo primo bacio e i tuoi - ti amo.-
Eravamo giovani
e vivevamo di sentimenti
ma la nostra storia finì
come di consueto finiscono
gli amori tra adolescenti.
Un bel giorno partii
deciso di tentare la fortuna
sotto altri cieli, sotto un’altra luna
e le nostre strade
si separarono per sempre.
Oggi, col senno di poi,
me ne pento amaramente
e me ne faccio una colpa
per averti perduta,
e me ne resto solo
con la mia pena muta
a ricordarti, a vivere
col rimpianto nel cuore
poiché per me rimani
la donna che ho amato
più d’ogni altro amore.


L’Amore negato

Per cercare di conquistare
il tuo refrattario cuore
ho scritto per te
tante poesie d’amore.
Ho invocato la Musa
scegliendo le più belle
e sublimi parole
ma non ho raggiunto
il mio sospirato intento
poiché tu non hai mai
alimentato il fuoco del mio
nobile e sincero sentimento.
Ora ho compreso
che non hai un cuore
e sei incapace di amare
perché coi tuoi dinieghi
hai tarpato le ali ai miei continui
e appassionati slanci d’amore.
Ma non te ne voglio
anche se hai inferto
un duro colpo al mio orgoglio
di uomo e mi sento ferito;
nel petto ho un dolore
per non essere riuscito,
malgrado la mia corte ad oltranza,
a far germogliare nel gelido
giardino del tuo cuore
un piccolo seme di speranza.


Il Barbone e il non vedente

Appoggiati alla mia spalla
e cammina con me fratello caro
senza alcun timore,
in due, sai , è più facile
mandare giù il boccone amaro
e sopportare il dolore.
Lascia ch’io ti conduca
alla mia capanna fatta di cartone;
mi chiamo Luca
e sono un barbone.
Tu che sei un non vedente
sei avvezzo, come me, al sarcasmo
e all’indifferenza della gente
che ci scansa e tira dritto.
Anch’io tante volte ti ho visto cadere
e non ti ho mai aiutato.
Ancora oggi volevo ignorarti
ma nel vederti titubante e smarrito
la voce della coscienza
me lo ha impedito.
Ora sono qui, accanto a te
pentito e senza più viltà
per aiutarti a portare
l’oneroso fardello.
Credimi fratello,
nonostante la tua infermità
tra noi due il migliore sei tu
perché possiedi due cose
che io non ho più:
Il coraggio e la dignità.


Umanità svilita

In quest’epoca
di sfrenato consumismo
non c’è rispetto
non c’è più amore
e l’umanità è svilita;
siamo diventati
proseliti dell’edonismo
per ritagliarci un posto al sole
e godere dei piaceri della vita.
Siamo incapaci di tendere la mano
poiché in noi non c’è altruismo;
abbiamo buttato alle ortiche
ogni sentimento umano
per appagare la nostra
personale smania di protagonismo.
Non sappiamo più discernere
tra il bene e il male
e corriamo, corriamo
per raggiungere per primi
il più alto gradino sociale.
Facciamo finta
d’essere duri d’orecchi
alla voce della coscienza
e ci arrampichiamo sugli specchi
pur di vivere nell’opulenza.
Ma quando la nostra stella
comincerà a declinare
e ci troveremo nel bisogno
di mendicare briciole di pietà,
soltanto allora realizzeremo
d’aver ignorato il verbo Amare
e, pur non meritandolo,
speranzosi attenderemo
un barlume di umanità.

Salvatore D’Aprano
7272 Marquette
Montréal Prov. Québec
H2E 2C8
Canada
Tel: ( 514 ) 722 – 4847
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